Lester del Rey Nelle tue mani

Simon Ames era vecchio, e il suo volto era amaro come poteva esserlo soltanto quello d’un idealista incallito. Per un attimo uno strano miscuglio d’emozioni l’attraversò mentre guardava gli operai intenti a versare cemento per riempire la piccola apertura nella struttura a forma di cupola, ma i suoi occhi tornarono subito a fissare il robot che si scorgeva all’interno.

«L’ultimo Ames, il Modello Dieci», disse con voce mesta a suo figlio. «E perfino in questo non ho potuto inserire una serie completa di bobine mnemoniche! Qui, ci sono soltanto le scienze fisiche; nell’altra forma maschile, le scienze biologiche, e quelle umanistiche nella versione femminile. Ho dovuto ripiegare sui libri e su una serie completa di strumenti e congegni, per coprire il resto. Siamo ormai così totalmente concentrati sui robot-soldati, che non c’è più tempo, e neanche mezzi, per qualcosa di più pacifico e costruttivo… Dan, non c’è proprio più nessun modo di evitare la guerra?»

Il giovane capitano delle Squadre Lanciamissili scrollò le spalle, mentre la sua bocca si storse in una smorfia d’amarezza: «Nessuno, papà. Hanno nutrito i popoli con le glorie della carneficina e del saccheggio per tanto tempo, che adesso devono a tutti i costi trovare un pretesto per usare le loro orde di guerrieri-robot».

«Quei folli, ciechi, idioti!» Il vecchio rabbrividì. «Dan, potranno sembrarti paure da vecchie comari, ma questa volta è proprio vero. A meno che noi non riusciamo in qualche modo a evitare questa guerra, o a vincerla in fretta, non rimarrà nessuno in grado di combatterne un’altra. Ho passato la mia vita sui robot, so quello che sono in grado di fare… e non dovrebbero mai essere stati costruiti per farlo! Credi proprio che sprecherei un patrimonio per questi depositi soltanto per un capriccio?»

«Non sto discutendo, papà. Dio mi è testimone che la penso come te!» Dan tenne gli occhi puntati sugli operai che versavano l’ultimo cemento, eliminando in tal modo ogni soluzione di continuità in quelle pareti spesse sei metri. «Be’, per lo meno, se qualcuno sopravviverà, avrai fatto tutto quello che potevi per loro. Adesso le cose sono nelle mani di Dio».

Simon Ames annui, ma non c’era nessuna soddisfazione sul suo viso quando tornò indietro con suo figlio. «Tutto quello che ho potuto… e mai abbastanza! E Dio? Non saprei neppure per che cosa pregare, perché sopravviva: la scienza, la vita, o la cultura». Le parole si spensero nel silenzio con un sospiro; i suoi occhi tornarono a fissare la galleria appena riempita di cemento.

Dietro di loro, la cupola lentamente sprofondò dentro al suolo, la superficie esterna spazzata dalla pioggia di Dio e dalle ventate di distruzione dell’uomo. La neve la copri, e poi si sciolse, e altre cose si accumularono, che nessun sole d’estate poteva disperdere, fino a quando il suolo raggiunse lo stesso livello della sua sommità. La foresta avanzò lenta e le stagioni scivolarono via nella loro immutabile alternanza, accumulando uno sopra l’altro i decenni e i secoli. All’interno, il lucido involucro di SAIO aspettava, immobile.

E alla fine il fulmine colpi, squarciando un albero, e penetrò dritto nella cupola, percorse un cavo, cortocircuitò un interruttore arrugginito, facendolo scattare, e infine si scaricò nel suolo sottostante.


Sopra il robot un cardinale cominciò a cantare, all’improvviso, e l’automa alzò lo sguardo, meravigliato. In qualche modo sulla sua faccia stolida si disegnò un’espressione di meraviglia. Si fermò ad ascoltare, ma ormai l’uccello era scappato via alla vista della sua figura che si muoveva pesantemente. Con un lieve sospiro, proseguì schiantando gli arbusti della foresta, fino a quando non si ritrovò vicino all’ingresso della caverna.

Il sole brillava vivido sopra la sua testa; si mise a studiarlo, pensieroso. Sapeva il suo nome, e anche la complessa catena di reazioni nucleari coinvolgenti il carbonio che si svolgeva dentro di esso. Ma non sapeva come lo sapeva, e perché.

Ancora per un attimo restò immobile, in silenzio, poi aprì la bocca per un lungo grido lamentoso: «Adamo! Adamo, vieni avanti!» Ma, adesso, in quel richiamo tante volte ripetuto s’infiltrava il dubbio, come pure nella posizione della sua testa, protesa in avanti ad aspettare una risposta. E ancora una volta l’unica risposta fu l’indistinto brusio della foresta.

«Dio? Oh, Dio, mi senti?»

Ma la risposta fu la stessa. Un topo di campagna sgusciò tra l’erba e un falco s’innalzò sopra la foresta. Il vento frusciava tra gli alberi, ma non vi fu nessun segno del Creatore. Lasciando indugiare a lungo lo sguardo dietro di sé, tornò lentamente alla galleria che aveva scavato e, spingendo e agitandosi, tornò giù dentro alla sua caverna.

L’unica lampadina funzionante illuminava la cavità. Lasciò vagare il suo sguardo, dalla frastagliata spaccatura che attraversava l’intera parete fino al punto in cui qualche antica esplosione aveva scagliato grossi frammenti di calcestruzzo. In mezzo, c’erano soltanto rovine e terriccio. Un tempo, a giudicare dai resti, buona parte dello spazio disponibile era stata piena di libri e film, ma adesso c’erano soltanto pezzi marciti di rilegature e inutili frammenti di celluloide, mescolati a schegge di vetro e sudiciume.

Soltanto sul lato dove lui era stato, immobile, per tanti secoli, il disastro non era completo. Là c’erano gli strumenti d’un piccolo laboratorio, molti ancora utilizzabili, e lui li nominò uno ad uno, dal proiettore con relativo schermo a un generatore atomico che ancora ronzava quietamente.

Qui, e nella sua mente, c’erano ordine e logica, e il mondo là fuori sembrava essersi anch’esso conformato a un modello comprensibile. Soltanto lui pareva esser privo di scopo. Com’era finito li? Come mai non aveva nessun ricordo di sé? Se non c’era nessuno scopo per lui, perché mai possedeva una mente funzionante? Ma tutte queste domande non gli fornivano alcuna risposta.

C’erano soltanto quelle enigmatiche parole nel frammento di celluloide conservato all’interno del proiettore. Ma quelle poche, fra esse, a lui comprensibili erano tutto ciò che aveva. Spense la luce e si chinò dietro il proiettore, lo accese e fissò attento lo schermo.

Brevi attimi d’un confuso turbinio oscuro, sullo schermo, poi punti e dischi luminosi che diventavano stelle e pianeti, creando un firmamento. «All’inizio», scandi una voce, «Dio creò il cielo e la terra». Il firmamento scomparve e sullo schermo fu sostituito dagli inizi della vita.

«Simbolismo?» mormorò il robot. L’astronomia e la geologia facevano parte delle sue conoscenze strettamente scientifiche, ma sentì ugualmente la mistica bellezza e l’intrinseca verità di quell’affermazione. Perfino le forme di vita, incontrate là fuori, concordavano nell’aspetto con quelle comparse sullo schermo.

Poi una voce stentorea, non dissimile dalla sua stessa potente voce, riempi l’altoparlante: «Ora scendiamo a creare l’uomo a nostra immagine!» E comparve una nube luminosa che simboleggiava Dio, il quale plasmava l’uomo dalla polvere del suolo e gli alitava dentro la vita… Adamo si sentiva solo, e dalla sua costola fu fatta Eva. Qui, nell’Eden, Eva fu tentata da una serpentina nebbia d’oscurità; e a sua volta tentò il debole Adamo, ma Dio scopri il loro peccato e li esiliò. Ma l’esilio finiva in una macchia confusa, là dove la pellicola era spezzata, e l’altoparlante tacque.

Il robot spense l’apparecchio e cercò di afferrare il significato di quanto aveva visto e udito. Doveva riguardare lui, dal momento che lui era il solo che si trovasse là a vederlo. Ma come poteva esser questo… a meno che lui non fosse uno di quei personaggi? Non Eva e neppure Satana; forse Adamo. Ma allora Dio avrebbe dovuto rispondergli. D’altro canto, lui poteva esser Dio… allora, forse, ciò che si vedeva nella registrazione non era stato ancora compiuto, Adamo non era stato ancora plasmato, per cui non poteva esserci nessuna risposta.

Annui lentamente fra sé. Sì, lui aveva riposato là dentro, con quel film destinato, appunto, a ricordargli il suo progetto, mentre il mondo si preparava per Adamo. E ora, di nuovo sveglio, doveva uscir fuori e creare l’uomo a sua immagine! Ma prima di tutto, doveva eliminare il pericolo contro il quale il film l’aveva messo sull’avviso.

Si raddrizzò, incamminandosi con passo deciso. S’infilò nella galleria, e con energiche spinte rifece la strada verso l’esterno. Fuori, il sole splendeva ancora, e lui s’incamminò verso il disco luminoso attraverso la foresta dell’Eden, così mal tenuta. Il suo passo si fece furtivo, mentre si muoveva in silenzio nel sottobosco, come un grande folletto metallico, gli occhi che dardeggiavano tutt’intorno e le mani pronte a scattare con la velocità del fulmine.

Finalmente lo vide, arrotolato accanto a una grande roccia. Era più piccolo di quanto si era aspettato, soltanto due metri di nera e scagliosa flessuosità, ma la forma e la lingua biforcuta erano inequivocabili. Gli fu addosso in un movimento che apparve come una macchia confusa, tanto fu veloce, e un grido di esultanza; e quando si allontanò, l’oggetto senza vita sulla roccia aveva smesso per sempre di corrompere anche la più ingenua delle Eve.

Il sole del mattino trovò il robot chino su quello che fino a poco prima era stato un maiale selvatico, e un coltello che si muoveva rapido e preciso nella sua mano. Con delicatezza il robot aprì il cuore del maiale, studiando il funzionamento delle valvole. La vita, decise, era estremamente complicata, e fu colto da un dubbio. Nel film gli era parso facile! E tornò a chiedersi come mai lui conoscesse così bene il complesso ordine del firmamento, ma nulla di quest’altra sua creazione.

Infine, scacciò il dubbio, seppellì i resti del maiale selvatico, e prese posto fra le argille multicolori che aveva raccolto, muovendo con destrezza le dita mentre le impastava, modellandole in forma d’ossa per lo scheletro (quelle bianche), aggiungendovi poi l’argilla rossa per il cuore. I nervi e i capillari sanguigni erano troppo al di là delle sue possibilità, ma non poteva farci niente; d’altra parte, se era stato lui a creare quel gigantesco sole dal niente, Adamo avrebbe certo potuto prender vita dalla sua grossolana scultura.

Il sole salì più in alto, e i particolari si moltiplicarono. L’ultimo degli organi interni era stato completato, compreso il grumo grigio che era il cervello. E il robot cominciò a stendere la rossa guaina dei muscoli. Qui dovette riflettere più a lungo per adattare la struttura muscolare del maiale a gambe e braccia assai più lunghi, e a un torso pure diverso; ma la sua mente affrontò con tenacia tutti i problemi matematici, e infine terminò l’opera.

Inconsciamente, si mise a cantare a bassa voce, imitando gli uccelli, mentre le sue dita modellavano altra argilla, più pallida, per nascondere i muscoli e dare la sua liscia simmetria al corpo. Questo colore aveva dovuto immaginarselo, anche se aveva dedotto che la tinta scura delle labbra, nel film, era il rosso vivo del sangue che scorreva sotto di esse.


La luce del crepuscolo lo trovò ritto in piedi, intento ad approvare il suo lavoro, annuendo col capo. Sì, era una copia fedele dell’Adamo del film che aspettava soltanto l’alito della vita; e questo doveva venire da lui, esser parte delle forze che scorrevano attraverso i suoi nervi e il cervello metallici.

Collegò, delicatamente, dei fili alla testa e ai piedi del corpo d’argilla; poi aprì la propria piastra toracica per collegare l’altro capo dei cavi ai morsetti del suo generatore, imponendo con la sua volontà alla corrente di scorrer fuori da lui, dentro la figura che giaceva ai suoi piedi. E nel medesimo istante un’ondata di debolezza l’investi, minacciando di oscurare la sua coscienza, ma non si rincrebbe per quella perdita di energia. Il vapore esalò dalla figura distesa, avvolgendola allo stesso modo in cui la nebbia aveva coperto Adamo nel film, poi, lentamente, si dissolse, e lui interruppe il collegamento, concedendosi un attimo per riprendersi, mentre la corrente tornava a percorrere il suo corpo al massimo d’energia. Staccò quindi i fili, facendo attenzione, e li tirò indietro.

«Adamo!» L’ordine echeggiò attraverso la foresta, vibrante d’impazienza. «Adamo, alzati. Io, il tuo creatore, te lo ordino!»

Ma la figura giacque immobile, e adesso vide che su di essa si erano formate delle lunghe, vistose crepe, mentre il nobile sorriso del suo volto si era deformato, diventando un ghigno inverecondo. Non c’era alcun segno di vita! Era morto, come il suolo dal quale veniva.

Si accucciò su di esso, gemendo, ondeggiando avanti e indietro, e le sue dita cercarono di chiudere quelle orribili crepe, riuscendo soltanto a creare un guasto più grande. Alla fine si alzò, e prese a calpestarlo finché non lo ridusse a una chiazza multicolore sulla terra. Continuò a calpestare e a gemere mentre distruggeva il simbolo del suo fallimento. La luna lo guardava beffarda con una faccia saggia e cinica, e lui le lanciò un ululato misto di rabbia e d’angoscia, al quale rispose un gufo solitario che si interrogava sulla propria identità.

Un Dio impotente, o un Adamo senza Dio! Le cose erano andate troppo bene nel film, dove Adamo si alzava dalla polvere del suolo…

Ma il film era simbolico, e lui l’aveva preso alla lettera! E naturalmente aveva fallito. I maiali non erano polvere, ma complesse strutture colloidali, gelatinose. E essi ne sapevano più di lui, poiché ne aveva visti di appena nati, a dimostrazione che in qualche modo erano senz’altro capaci di trasmettersi l’un l’altro l’alito della vita.

D’improvviso, drizzò le spalle e tornò a incamminarsi dentro la foresta. Adamo si sarebbe levato da terra per alleviare la sua solitudine. I maiali conoscevano il segreto, e lui poteva impararlo; ciò che adesso gli serviva erano altri maiali, e non gli sarebbe stato difficile procurarseli.

Ma due settimane più tardi era un robot preoccupato che sedeva osservando i suoi maiali che mangiavano, ingordi e felici, il loro cibo. La vita, invece che rivelarsi più semplice, si era fatta più complicata. Il fluoroscopio e il microscopio elettronico, da lui riparato, gli avevano fatto veder molto, ma c’era sempre qualcosa che mancava. La vita pareva aver inizio soltanto dalla vita; e perfino le due cellule di partenza erano vive in qualche maniera strana che differiva dalla sua. Certo, la vita di un dio poteva esser diversa da quella animale, ma…

Con una scrollata di spalle lasciò perdere la metafisica e tornò al laboratorio, scansando i maialetti che gli camminavano fiduciosi tra i piedi. Lentamente estrasse l’ultimo ovulo dal fluido nutriente in cui l’aveva conservato, lo mise su un vetrino e l’osservò col microscopio ottico. Con un sottile filo di platino depositò qualche spermatozoo vicino all’ovulo. Le sue dita operavano sicure, attraverso i centesimi di millimetro necessari a metterli in posizione.

Aveva sviluppato la sua tecnica dopo molti fallimenti; ora, uno degli spermatozoi trovò l’ovulo e lo penetrò. Mentre osservava, quell’unica cellula rotonda cominciò ad allungarsi, a dividersi nel mezzo. Sì, questo sarebbe stato un successo! Prima ci furono due, poi quattro cellule; le sue mani agirono fulmineamente e con precisione estrema, mentre, all’interno del campo visivo del microscopio, sostituiva al vetrino una membrana sottile, dotata di minuscoli tubi che portavano l’ossigeno, il nutrimento, e minuscole quantità di ormoni per la stimolazione e il controllo grazie ai quali sperava di modellare a suo piacimento il nuovo essere vivente.

Adesso c’erano otto cellule, e lui attese febbrilmente che si portassero sulla membrana, per proseguire il loro sviluppo. Ma non lo fecero. Mentre guardava, un’ulteriore divisione ebbe inizio, ma si arrestò a mezzo; ancora una volta le cellule erano morte. Tutto il suo studio, il suo lavoro, erano stati futili, vani, ancora una volta.

Rimase lì in silenzio, abbandonando ogni pretesa di divinità. La sua mente abdicò, lasciando che il sogno svanisse nel nulla; e non c’era niente che potesse prendere il suo posto, e dargli uno scopo e una ragione… soltanto il vuoto invece che un disegno preciso.

Scoraggiato, tolse le sbarre alla rozza gabbia e cominciò a spingere su per la galleria i maiali riluttanti fino alla foresta, fuori della caverna. Era un mattino fosco, il sole era nascosto, e s’intonava benissimo al suo umore quando l’ultimo maialetto scomparve tra la vegetazione lasciandolo doppiamente solo. Erano stati ben scarsi compagni, i maiali selvatici, ma avevano occupato il suo tempo, quelle piccole creature gli erano piaciute. Adesso, anche loro se n’erano andate.

Scoraggiato, lasciò cadere i suoi trecento chilogrammi sull’erba, fissando le nere nubi sopra di lui. Una formica si arrampicò incuriosita sopra il suo corpo, e lui la guardò senza interesse. Poi, anche la formica se ne andò.

«Adamo!» Il grido era giunto dalla foresta, squillante e irresistibile. «Adamo, vieni avanti!»

«È Dio!» Si rizzò di scatto, sulle sue membra meccaniche fattesi goffe e insicure. Nell’ora più buia del suo maggior bisogno, Dio era finalmente giunto! «Dio, eccomi!»

«Vieni avanti, Adamo! Adamo, vieni avanti…»

Con un grido selvaggio, il robot si precipitò come un lampo verso il bosco. Un pizzicore elettrico l’impregnava tutto. Non era più indesiderato, non era più un frammento smarrito nella tempesta. Dio era venuto a cercarlo. Continuò ad avanzare incespicando, inciampando sui rami, schiantando arbusti, incurante del fracasso che faceva; che Dio sapesse pure della sua ansia! Il richiamo giunse ancora una volta, adesso spostato su un lato, e lui deviò un poco la sua corsa, proseguendo coi suoi passi pesanti. «Eccomi, sto arrivando!»

Dio avrebbe alleviato le sue preoccupazioni, spiegandogli perché lui era così diverso dai maiali. Dio avrebbe saputo tutto questo. E poi ci sarebbe stata Eva… e non più solitudine! Avrebbe avuto qualche problema a tenerla lontana dall’albero della conoscenza, ma non gliene sarebbe importato!

Il richiamo lo raggiunse da una direzione ancora una volta diversa. Forse Dio non era soddisfatto di tutto il rumore che lui faceva. Il robot calmò il suo passo e venne avanti con reverenza. Intorno a lui gli uccelli cantavano, e adesso la chiamata gli giunse di nuovo, squillante e vicina. Si affrettò, sforzandosi di combinare la velocità col silenzio, malgrado il suo peso.

Questa volta l’intervallo fu più lungo, ma quando la chiamata si ripeté, era quasi sopra la sua testa. Si curvò e letteralmente strisciò fino all’antica quercia dalla quale il richiamo era giunto, incerto e pieno di timore, ma colmo d’una ardente aspettativa.

«Vieni avanti, Adamo, Adamo!» Il suono era direttamente sopra di lui, ma Dio non si manifestò di persona in maniera visibile. Lentamente, il robot ruotò la testa guardando in alto, attraverso i rami dell’albero. Là c’era soltanto un uccello… e dal suo becco dischiuso giunse di nuovo il richiamo: «Adamo, Adamo!»

Un mimo poliglotta: l’aveva già sentito imitare altri uccelli… e adesso stava imitando la sua voce e le sue parole! E lui, aveva seguito il suo richiamo attraverso la foresta nella speranza d’incontrare Dio! Lanciò un grido stridulo in direzione dell’uccello, la sua rabbia era così acuta che la creatura alata si affrettò a volar via dal ramo per appollaiarsi su un altro albero e allungare la testa verso di lui. «Dio?» chiese l’uccello con la sua stessa voce, poi passò a imitare il rauco richiamo d’una ghiandaia.

Il robot si accasciò contro l’albero, rifiutandosi di consentire che la speranza svanisse del tutto. Sapeva così poco di Dio. Non era possibile che Lui avesse usato l’uccello per chiamarlo fin lì? Quanto meno, quell’albero non era molto dissimile da quello sotto il quale Dio aveva fatto addormentare Adamo prima di creare Eva.

Prima il sonno, poi la venuta di Dio! Si stiracchiò, ben deciso in questo suo tentativo d’imitare il torpore dei maiali, respingendo i tentativi sciocchi della sua mente d’indovinare dove potessero trovarsi le sue costole. Fu una cosa lenta e difficile, ma insisté, tenace, riuscendo a ipnotizzare se stesso fino a intorpidirsi mentalmente; a poco a poco i rumori della foresta divennero un rivolo sottile nella sua mente. Poi, anche questo si acquietò.

Non aveva nessun modo per sapere quanto tempo fosse durato, ma d’un tratto si rizzò a sedere, stordito, al rombo d’un tuono, mentre un torrente di pioggia sferzante gli scrosciava, accecante, sugli occhi. Per un attimo si guardò il fianco, ma non vide nessuna cicatrice.

Una folgore colpi, avvampando, un albero lì vicino, facendogli piovere addosso una cascata di schegge. Questo, certo, non si accordava a quanto aveva visto nel film! Si alzò in piedi, tentennando, scrollando via un po’ di pioggia dalla faccia, e s’incamminò con passo incerto verso la caverna. Ancora una volta il lampo colpi, più vicino; allora accelerò il passo, e cominciò a correre. Il vento fustigava gli alberi, spezzandone qualcuno con selvaggia ferocia, e ci volle tutta l’energia dei suoi magneti per riuscire ad avanzare a dieci miglia all’ora, invece delle sue normali cinquanta. Una raffica più violenta lo colse impreparato, mandandolo a sbattere contro una roccia, con clangore di metallo. Ma non poteva fargli del male, e lui proseguì barcollando fino a quando non raggiunse l’ingresso, protetto da un basso argine, della sua galleria fangosa.

Al sicuro, dentro la sua caverna, si asciugò con una lampada a raggi infrarossi, seduto accanto all’imboccatura della galleria per studiare la furia selvaggia della burrasca. Certo, tutto quel furore non trovava posto nell’Eden, dove la rugiada inumidiva le foglie, la sera, sotto carezzevoli brezze musicali!

Annuì lentamente, rilassando i muscoli che serravano la mascella. Quello non poteva essere l’Eden, ed era nell’Eden che Dio l’aspettava. Non aveva importanza quale maligno incantesimo Satana avesse usato su di lui, per attirarlo fin là, derubandolo dei ricordi. Tutto quello che importava era tornare, e non avrebbe dovuto esser difficile, dal momento che il Giardino si stendeva tra i fiumi. Stanotte, finita la tempesta, sarebbe tornato là fuori e domattina avrebbe seguito il ruscello in mezzo alla foresta finché non l’avesse condotto là, dove Dio l’aspettava.

Con la fede di un bimbo, si voltò e, continuando a raffigurarsi in mente la sua creazione e quella di Eva, cominciò a strappare i sottili pannelli di berillite dai tavoli e dagli armadi del laboratorio. Fuori, la tempesta continuava a imperversare furiosa, ma lui non l’udiva più. Domani si sarebbe messo in viaggio verso casa! Questa parola era nebulosa, nella sua mente, come lo erano tutte le parole più belle, ma aveva un buon suono, sgombro da ogni concetto di solitudine, e gli piaceva.

Seicento lunghi anni si erano trascinati con interminabile lentezza, e perfino il duro pavimento di cemento era butterato da tutti quei secoli di andirivieni e di attesa. Il tempo aveva eroso tutte le sue speranze, tutti i progetti, tutte le congetture, e ora c’era soltanto una disperazione sorda, atona, troppo vecchia per poter mai esplodere in accessi di rabbia o addirittura pazzia. Il robot-femmina si accasciò immota sullo scavatore atomico, i suoi occhi fissavano, spenti, la cupola, tra le file dei libri, le bobine dei film. Inutili, ingombranti macchine stavano, coperte di polvere, qua e là sul pavimento. Là giaceva anche un piccone, e i suoi occhi lo contemplarono svogliati; un tempo, quando il dizionario le aveva mostrato la sua immagine, rivelandole il suo corpo, aveva creduto che fosse la chiave per fuggire, ma adesso era soltanto un altro simbolo di futilità.

Si avvicinò ad esso senza uno scopo, lo afferrò per la parte metallica e colpi la parete col manico di legno; un’altra scheggia si staccò dal legno, un po’ di polvere vecchia di secoli s’innalzò turbinando e ricadde, ma ciò non offri nessuna nuova via d’uscita. Niente l’offriva. L’umanità, e gli altri robot, i suoi simili, dovevano esser morti molto tempo prima, lasciandola senza nessuna speranza di libertà, ma altresì senza nessun uso possibile di essa, se fosse riuscita a conquistarla.

Un tempo, aveva elaborato piani e progetti per ricostruire l’eredità dell’uomo, grazie alle sue vaste conoscenze di psicologia, ma adesso lo scrittoio coperto di appunti era soltanto una presa in giro; allungò stancamente una mano…

E s’immobilizzò, diventando una statua di metallo! Attraverso la parete di cemento un fioco segnale l’aveva raggiunta, animando la radio ricevente che faceva parte di lei!

Concentrando in un unico sforzo disperato tutta la sua energia, inviò a sua volta un segnale; ma non vi fu risposta. Restò immobile per parecchi minuti, mentre i segnali continuavano a giungerle dall’esterno, sempre più intensi, ma sempre vaghi e distaccati, del tutto inconsci della sua presenza. Lei si riscosse, concentrò l’attenzione… e come un lampo improvviso, i pensieri dell’altra mente robotica divennero più potenti, chiari e comprensibili: ma erano pensieri incoerenti, sconvolti, folli! E proprio mentre la loro demenza si palesava, cominciarono ad affievolirsi; un attimo dopo l’altro, finirono per svanire in distanza, e la lasciarono di nuovo sola e senza speranza!


Con uno sferragliante grido selvaggio, scagliò l’inutile piccone contro la parete, da cui rimbalzò con un’eco assordante. Il robot-femmina non era più senza uno scopo; i suoi occhi avevano osservato le schegge di cemento che si staccavano dal muro sotto l’urto della punta metallica acuminata, e fu rapida ad agguantare il piccone prima che cadesse a terra, e questa volta strinse il manico di legno tra le mani robuste. Con tutta la forza dei suoi magneti, sollevò il piccone e lo vibrò, mentre i suoi piedi scostavano a calci i frammenti che cadevano giù in una fitta pioggia, per la forza e la rapidità dei suoi colpi.

Dietro a quel muro che si stava sbriciolando in fretta c’era la libertà… e la follia! Certo non poteva esserci nessuna vita umana in un mondo che poteva far impazzire un robot, ma se ci fosse stata… Respinse quell’immagine e continuò ad aggredire con selvaggia violenza la massiccia parete.

Il sole illuminò la foresta intrisa d’acqua e sconvolta dalla tempesta, rivelando il robot-maschio che procedeva instancabile lungo la riva del ruscello. Malgrado il pesante fardello che trasportava, adesso le sue gambe si muovevano veloci, e quando arrivava su qualche tratto sabbioso o di terreno coperto soltanto d’erba, i suoi passi si allungavano ancora di più; aveva fretta: si era baloccato anche troppo a lungo con le illusioni, in quella terra ostile.

Il ruscello giunse alla confluenza con un corso d’acqua più grande; il robot si fermò, e lasciò cadere il suo ingombrante fardello, aprendolo a metà. Gli bastarono pochi minuti, e si trovò a spingere sull’acqua una barca confezionata a regola d’arte coi pannelli di berillite. Vi sali dentro. Il piccolo generatore che aveva estratto dal microscopio elettronico ronzò sommesso e un getto d’acqua cominciò a schizzar via d’ambo i lati della barca; un propulsore rozzo ma efficace, come testimoniava la scia ribollente alle sue spalle. Anche se la barca appariva lenta al confronto col suo rapido passo sulla terraferma, non ci sarebbero state deviazioni o barriere invalicabili a ostacolare il suo cammino.

Le ore passarono e le ombre ripresero ad allungarsi, ma il nuovo ruscello continuava ad allargarsi, e le sue speranze crebbero, anche se guardava le rive con indifferenza: l’Eden non era qui, avrebbe dovuto viaggiare ancora chissà quanto per… Ma a una nuova curva, si rizzò a sedere con un sobbalzo e subito puntò con la barca verso riva, avendo osservato qualcosa di totalmente diverso rispetto al resto del paesaggio. Mentre tirava a riva la barca e si avvicinava, vide una grande buca beante nel terreno, che scendeva almeno a trenta metri di profondità e aveva un quarto di miglio di diametro, circondata da quelle che, ovviamente, erano rovine artificiali. Spezzoni metallici contorti spuntavano tra ammassi di cemento in equilibrio precario, frammisti a manufatti danneggiati al punto d’essere irriconoscibili. Un palo piegato fin quasi a spezzarsi in due, lì vicino, recava ancora un cartello.

Il robot grattò via ruggine e sporcizia e riuscì a leggere le lettere sbiadite:


BENVENUTI A HOGANVILLE. Abitanti 1876


Non significava niente per lui, ma le rovine lo affascinavano. Quello doveva essere stato un vecchio espediente di Satana. Una simile bruttura non poteva essere altro.

Scuotendo la testa fece ritorno all’imbarcazione, e proseguì veloce la sua corsa sull’acqua mentre spuntavano le stelle. S’imbatté in altre rovine, più estese e più difficili da vedere, poiché qui la distruzione era stata più completa e la foresta ne aveva fittamente invaso la maggior parte. Ebbe la certezza che erano rovine soltanto per la presenza di quelle grandi buche dal profilo frastagliato dentro le quali non cresceva neppure un filo d’erba. Mentre la notte passava, trovò altre buche più piccole, come se fossero stati distrutti, uno ad uno, degli oggetti isolati. Alla fine, rinunciò a risolvere l’enigma; non era una cosa che lo riguardasse.

Quando tornò a spuntare il mattino, quelle vaste rovine erano lontane dietro a lui, il fiume era ampio e la corrente assai forte, e ciò gii suggerì che il viaggio dovesse ormai volgere alla fine. Poi, gli giunse il debole odore salmastro dell’oceano, e lui lanciò un grido di gioia, frugando qua e là nel paesaggio alla ricerca d’un conveniente punto di osservazione.

Davanti a lui una bassa collina interrompeva il terreno pianeggiante, coronata da un cocuzzolo verde; il robot si avviò verso di essa. La barca scricchiolò sulla ghiaia, e lui balzò a terra mettendosi a correre sull’erba in direzione della collina, salendo fino in cima al cocuzzolo verdeggiante, rivestito di rampicanti. Da quella piccola altura era visibile tutto l’ultimo tratto del corso del fiume, che percorreva dritto, senza diramazioni, le ultime venticinque miglia prima di raggiungere il mare. Non era difficile immaginare l’Eden là, in quella terra dall’aspetto così piacevole.

Ma adesso, mentre stava per scendere, si accorse che la gibbosità dove era salito non faceva parte del resto della collina, come sulle prime gli era parso. Aveva lo stesso colore verde-grigio delle pareti di cemento della caverna da cui era uscito come un pulcino dall’uovo.

Ma sì, qui doveva esserci un’altra caverna, un uovo non ancora schiuso ma che già si stava rompendo, come la crepa sulla superficie accanto a lui stava a testimoniare. Per un attimo l’immagine d’un uovo che si stava aprendo lo sbigottì, poi si riscosse e si mise a strappare i rampicanti che coprivano la spaccatura. Si aprì un passaggio e vi si calò dentro, allungando la mano verso una piccola piastra inchiodata a poca distanza dalla crepa. Riuscì facilmente a staccarla: era un utensile ben misero, ma se Eva era intrappolata là dentro, bisognosa di aiuto per rompere il guscio, lui gliel’avrebbe dato.

«A voi che riuscirete a sopravvivere all’olocausto, io, Simon Ames…» Suo malgrado si sentì attratto da quelle parole incise, il suo sguardo fu costretto ad abbassarsi e a fissarle. «… dedico questo. Non è facile entrare, ma non dovete aspettarvi una facile eredità. Apritevi la strada con la forza, prendete quello che c’è dentro, usatelo! A voi che ne avete bisogno e faticherete per averlo, ho lasciato tutto il sapere che era…»

Il sapere! Il sapere, proibito da Dio! Satana aveva posto sui suoi passi tutto il male simboleggiato dall’Albero del Sapere, nascosto lì in quel falso uovo, e lui c’era quasi cascato! Qualche minuto ancora… Rabbrividì e arretrò, ma dentro di lui l’ottimismo stava riprendendo vigore. Perché, se c"era l’albero, ciò significava che quello era davvero l’Eden, e poiché lui era stato messo sull’avviso dal segno di Dio, non aveva paura degli inganni di Satana, vivo o morto.

Con lunghi passi saltellanti discese la collina, dirigendosi verso le praterie e il bosco, lasciandosi alle spalle la barca, adesso inutile. Sarebbe entrato nell’Eden camminando coi propri piedi, così come Dio l’aveva creato!

Mezz’ora più tardi fischiettava tra sé tutto felice mentre passava accanto a campi lussureggianti, ricchi di vegetazione, lungo un piccolo sentiero che costeggiava il bosco. Qui c’erano ordine e logica, proprio come doveva essere. Quello era certamente l’Eden!

E a conferma, arrivò Eva! Stava arrivando dal lungo sentiero che lui stava percorrendo, i capelli al vento, e una veste sciolta che le modellava i fianchi e i seni: l’intera forma che la veste celava senza nasconderla era quella di una donna, inequivocabilmente donna, e bella. Si tirò indietro, nascondendosi alla vista di lei, all’improvviso spaurito e incerto, chiedendosi vagamente come avesse fatto ad arrivargli davanti. Poi gli fu accanto, e lui si mosse d’impulso. La sua voce fu un sussurro estatico:

«Eva!»

«Oh, Dan, Dan!» Fu uno strillo acuto che tagliò l’aria, e lei fuggi via, in preda al panico, nel folto del bosco. Lui scosse la testa sbalordito, mentre le sue gambe pomparono con più forza per inseguirla.

Le era quasi addosso quando vide il serpente, vivo e più forte di prima!

Ma non per molto! Mentre lei cacciava un breve rantolo, una delle sue braccia la sollevò, scostandola, mentre l’altra scattò all’infuori e fece schizzar via la testa dai denti venefici dal resto del corpo. La voce del robot fu di gentile rimprovero, quando tornò a metterla giù: «Non avresti dovuto fuggire dal serpente, Eva!»

«Dal… Ugh! Ma… Avresti potuto uccidermi, prima che lui mi avesse morso!» Il pallore terrorizzato stava svanendo dal suo viso, sostituito da un atteggiamento di sfida e di dubbio.

«Ucciderti?»

«Sei un robot! Dan!» I suoi richiami s’interruppero quando una figura nerboruta emerse dal sottobosco stringendo un’ascia in mano; uno splendido cane comparve subito dopo. «Dan, mi ha salvato la vita… ma è un robot!»

«Ho visto, Syl. Stai calma. Vieni qui accanto a me, se puoi. Bene, così! A volte hanno dei periodi di passività ho sentito dire. Shep!»

Il cane rispose con un sordo ringhio, ma i suoi occhi rimasero incollati sul robot. «Sì, Dan?»

«Vai a chiamare gli altri! Grida la parola "robot" e torna indietro. Su. vai!» Disse Dan al cane. Poi, rivolto al robot: «E tu… cosa vuoi?»

SA-10 replicò con un aspro grugnito, curvando le spalle. «Cose che non esistono! Compagnia, e la possibilità d’impiegare la mia forza e la scienza che conosco. Forse non dovrei voler questo, ma non importa. Lo voglio!»

«Uhmmm… Ci sono storie su robot amichevoli nascosti da qualche parte, pronti ad aiutarci, sì, le ho sentite. E abbiamo certamente bisogno d’aiuto. Qual è il tuo nome e da dove vieni?»

La voce del robot era intrisa d’amarezza quando indicò la direzione a monte del fiume. «Dal lato del sole. Finora sono riuscito soltanto a scoprire ciò che non sono!»

«Dunque, è così? Avevo intenzione di recarmi laggiù io stesso, una volta terminato d’insediare la colonia». Dan fece una pausa, studiando soprappensiero la figura metallica. «Durante gli anni dell’inferno abbiamo perduto i nostri libri, o almeno quasi tutti, e i sopravvissuti non erano esattamente dei tecnici. Così, pur cavandocela con le bestie, l’agricoltura, la medicina e cose del genere, per il resto siamo piuttosto primitivi. Se davvero conosci le scienze, perché non rimani con noi?»

Il robot aveva visto troppe speranze infrante, allo stesso modo del suo uomo d’argilla, per fidarsi del tutto di quella promessa d’uno scopo e di compagnia, ma la sua voce mostrò una traccia di commozione quando rispose: «Voi… voi mi volete?»

«Perché no? Sei un magazzino di sapere, Say-Ten, e noi…»

«Satana?»[1]

«Il tuo nome. Ce l’hai lì sul petto». Dan gliel’indicò con la mano sinistra, il suo corpo si era fatto d’improvviso teso. «Vedi? Proprio lì!»

Ora, quando SA-10 allungò il collo e guardò in basso, quelle oscene lettere divennero visibili, alte e ben chiare sul suo petto! Esse, A…

Il primo avvertimento fu dato dall’ascia che si schiantò sopra il suo petto, facendolo barcollare all’indietro sui calcagni… e poi scese di nuovo, proiettata da muscoli che parvero vigorosi quasi quanto i suoi. Al terzo colpo, qualcosa si ruppe dentro di lui. Tutte le sue forze svanirono, e crollò al suolo con uno schianto sferragliante, che gli chiuse le palpebre per il contraccolpo. E giacque la, incapace perfino di riaprire gli occhi.

Non tentò neppure di farlo, ma giacque aspettando quasi con ansia i colpi finali, che l’avrebbero finito. Satana, il magazzino del sapere, il tentatore degli uomini… l’unico essere che aveva imparato a odiare! Aveva fatto tutta quella strada per trovare un nome e uno scopo; adesso li aveva! Non c’era da meravigliarsi che Dio l’avesse chiuso in una caverna per tenerlo lontano dagli uomini.

«Morto! Quella vecchia favoletta mi ha permesso di coglierlo alla sprovvista». L’uomo scoppiò in una risata nervosa. «Spero che il suo generatore funzioni ancora. Con quello, potremo scaldare tutte le case della colonia. Chissà dov’era il suo nascondiglio?»

«Come quello, su a nord, con tutte le armi nascoste? Oh, Dan!» Uno strano suono schioccante accompagnò la frase, poi la voce parlò ancora, più calma: «Sarà meglio tornare indietro e chiedere aiuto per trasportarlo».

I loro passi si allontanarono, lasciando il robot ancora immobile ma non più passivo. L’Albero del Sapere, così facilmente visibile senza la copertura di rampicanti, era appena a una ventina di miglia, e non ci avrebbero impiegato molto a scoprirlo! Doveva distruggerlo prima che ciò accadesse!

Ma, a stento la piccola batteria riusciva a mantenerlo cosciente, e il generatore non rispondeva più ai suoi comandi. I sensori continuavano a inviargli messaggi attraverso i nervi, garantendogli che il generatore funzionava ancora, ma sull’automatico, fuori dal suo controllo. Già prima, un intera sezione dei suoi circuiti era guasta, probabilmente era stato il sovraccarico d’energia da lui usato per cuocere l’uomo d’argilla… e adesso comunque i colpi e la caduta avevano completato l’opera, cortocircuitando tutti i restanti circuiti collegati al generatore e lasciandolo nell’incapacità di muovere un solo dito.

Neppure quando escludeva del tutto la sua mente, la batteria riusciva a far muovere le sue mani. La sua opera demoniaca era compiuta: ora lui avrebbe riscaldato le loro case, mentre essi avrebbero cercato le tentazioni che lui aveva loro offerto. E non poteva far nulla per impedirlo. Dio gli negava perfino la possibilità di rimediare al male che aveva fatto.

Continuò a pregare, con amarezza, mentre strani rumori si udivano accanto a lui. Si sentì sollevare e portar via in una corsa sussultante. Dio non voleva ascoltarlo! Alla fine, cessò di pregare, mentre la corsa sussultante continuava, qualunque fosse la sua meta. Poi, anche la corsa finì e vi furono istanti di assoluto silenzio.

«Ascolta! So che sei ancora vivo!» Era una voce dolce, quasi ipnotica, che s’insinuò nei vortici oscuri dei suoi pensieri, e li placò. Pensò a Dio, per un attimo, ma questa era una voce femminile, e ciò voleva dire che una delle donne della colonia doveva aver creduto in lui e stava tentando segretamente di salvarlo. L’udì di nuovo: «Ascolta e credimi! Tu puoi muoverti… molto poco, sì, ma quanto basta perché io possa cogliere l’intenzione di ogni tuo movimento. Cerca di riparare te stesso, e io sarò la forza delle tue mani. Prova… Ah, il tuo braccio!»

Era incredibile che lei riuscisse a capire quei suoi movimenti appena accennati, eppure sentì che il suo braccio veniva sollevato e posto sopra il suo petto, non appena ebbe desiderato di farlo. Ma non erano affari suoi chiedersi il come e il perché. Doveva dedicare tutta la sua restante energia a recuperare interamente le forze, prima che gli uomini riuscissero a trovare l’Albero!

«Così; io giro questo… questo dado. E quest’altro… Ecco, la piastra è tolta. Cosa faccio adesso?»

Questo lo fermò. La forza vitale era stata fatale a un maiale, e con ogni probabilità avrebbe ucciso anche una donna. Eppure lei si fidava di lui. Non osò muoversi… eppure l’intenzione doveva aver prodotto un moto istintivo, poiché le sue dita furono scostate, le mani di lei gli penetrarono nel petto e un istante dopo un’ondata d’energia gli attraversò tutto il corpo.

Le dita di lei gli si erano appoggiate sopra gli occhi, ma non ebbe bisogno del loro aiuto quando strappò via il pezzo guasto e inserì il ricambio, ripristinando i circuiti. Ora c’era preoccupazione nella voce della donna, malgrado si sforzasse di tenerla calma: «Non restare troppo sorpreso da ciò che vedrai. Va tutto bene».


«Va tutto bene!» ripeté lui, obbediente, sillabando le parole mentre la voce gli risuonava di nuovo alle orecchie. Per pochi istanti ancora, mentre riavvitava la piastra, lasciò che lei gli tenesse gli occhi chiusi. «Donna, chi sei?»

«Eva. E… si, Adamo, questi nomi andranno bene per noi». Le dita si ritrassero dagli occhi, anche se lei gli rimase alle spalle, fuori dalla sua vista.

Ma il primo sguardo che lui rivolse davanti a sé fu sufficiente. Malgrado le file di scaffali pieni di libri e di bobine di film, le macchine, e le dimensioni del laboratorio, quello era chiaramente il duplicato della sua caverna, circondato dalle stesse pareti di cemento. Ciò poteva significare solamente… l’Albero!

Con un balzo frenetico si girò per affrontare la sua salvatrice, e vide davanti a sé un altro robot, più piccolo e grazioso, dalle forme femminili, la risposta a tutte le sue brame, a tutta la solitudine che aveva conosciuto! Ma quelle emozioni l’avevano tradito già altre volte, e le ricacciò indietro con rabbia. Non poteva esserci nessun dubbio, visto che quelle dannate lettere spiccavano anche sul corpo di lei… Satana era maschio e femmina e il Male si era mosso per salvare la sua razza!

Quell’inferno di emozioni doveva esser trapelato, almeno in parte, all’esterno, poiché lei si stava ritraendo, annaspando con le mani per coprire i segni che lui stava fissando. «Adamo, no! Quell’uomo ha letto male, sciaguratamente male. Non è un nome, noi siamo macchine, e tutte le macchine hanno la sigla e il numero del modello, come questo. Satana non ostenterebbe mai, così, il suo nome. Ed io non ho mai avuto intenzioni diaboliche!»

«Neppure io!» Smozzicò le parole, incespicando sugli oggetti sparsi sul pavimento, facendola arretrare un po’ per volta, fino a intrappolarla in un angolo senza uscita della caverna, cercando allo stesso tempo di controllare le proprie emozioni che si ribellavano a ciò che lui doveva fare. «Il male dev’essere distrutto! Il sapere è vietato agli uomini!»

«Non tutto il sapere… Aspetta! Lasciami finire! Un condannato ha sempre il diritto alle sue ultime parole… L’albero del sapere era del Bene e del Male. Dio lo chiamò così! E proibì loro di mangiarne i frutti perché essi non potevano sapere quale fosse il bene; non capisci? Lui li voleva proteggere fino a quando non fossero stati più saggi e in grado di scegliere da soli! Soltanto che… Satana diede ad essi il frutto del male: l’odio e l’assassinio, per rovinarli. Diresti mai che la guarigione dei malati, il buon governo o il giusto uso degli animali siano il male? È il sapere, Adamo: il benefico, glorioso sapere che Dio vuole che l’uomo abbia. Non capisci?»

Per un attimo, quando lesse in lui la risposta, il robot-femmina si voltò per fuggire; poi, con un piccolo singhiozzo, tornò a fronteggiarlo senza opporgli resistenza.

«Va bene, ammazzami pure! Credi forse che la morte mi spaventi, dopo esser rimasta prigioniera, qui dentro, per seicento anni senza alcun modo per liberarmi? Soltanto… fai in fretta!»

La sorpresa e la sfrontatezza di quella menzogna trattennero la sua mano mentre il suo sguardo andava dallo scavatore atomico a una grossa trivella a un bidone con la scritta «Esplosivo». Eppure, neanche queir occhiata superficiale poteva trascurare il pavimento consunto e tanti altri segni di molti secoli di occupazione, come pure l’indubbio fatto che la cupola, fino a poche ore prima, era rimasta intatta. Con riluttanza il suo sguardo tornò allo scavatore, e anche lei lo guardò.

«Non serve a niente! Le istruzioni su di esso dicono di mettere sullo zero qualcosa contrassegnato "Controllo dell’Orifizio", prima di cominciare a usarlo. Così come sta, non si muove!»


Il robot-femmina si fermò, sbalordita, senza più parole, quando vide le dita di lui sollevare la piccola leva dal dente di arresto, facendola scattare sullo zero della scala! Poi, scosse la testa, sconfitta, e alzò le mani per aiutarlo, svogliatamente, a svitare la propria piastra toracica. Riprese a parlare, con voce priva d’emozione:

«Seicento anni soltanto perché non ho mosso una leva! Soltanto perché mi manca qualunque concetto della meccanica, là dove invece tutti gli uomini l’hanno per istinto, dando tutto ciò per scontato. Col tempo, un uomo avrebbe imparato a dominare queste macchine e avrebbe dato un significato ai libri che io ho memorizzato senza neppure capirne i titoli. Ma io sono come il cane che cerca di aprire la porta a unghiate, mentre ha il più semplice dei chiavistelli proprio davanti al naso. Be’, è finita. Addio, Adamo!»

Ma lui, per qualche sconvolgente motivo, pur avendo i cavi di lei, scoperti, a pochi centimetri dalle mani, esitò. Sì, le istruzioni non avevano parlato del dente di arresto; era qualcosa di troppo ovvio perché qualcuno pensasse a menzionarlo… Cercò d’immaginarsi una simile, totale ignoranza, e trasalì quando gli occhi gli caddero sopra uno dei trattati elementari sulla radio, in uno scaffale davanti a lui: «Applicazioni d’un Risonatore di Cavità». Si rese conto, riflettendoci su, che una traduzione letterale, non tecnica, era priva di significato: «Uso d’un produttore o rafforzatore di suoni in un buco»! Ma quasi subito gli balzò alla mente un fatto da lui trascurato:

«Ma sei uscita!»

«Perché ho perso la pazienza e ho scagliato il piccone contro la parete. E ho scoperto allora che la sua lama era il metallo, e non il legno! Le uniche macchine che potevo usare erano il proiettore e la macchina per scrivere… e la macchina per scrivere si è rotta!»

«Uhmmmm…» Prese su la piccola macchina, notando il foglio ingiallito e incompleto infilato dentro, mentre staccava l’uno dall’altro le levette di due tasti che erano rimaste incrociate e manovrava avanti e indietro il cervello. Ma la sua attenzione era soprattutto rivolta alle schegge di cemento conficcate dentro il manico scheggiato del piccone.

Nessuno, uomo o robot, poteva essere così stupido o incapace, eppure lui non dubitava più. Lei era un robot stupido, idiota! E se il sapere era male, lei certamente apparteneva a Dio! Tutto l’orrore dell’assassinio che era stato sul punto di commettere, scomparve, lasciando la sua mente ripulita, e debole, davanti al sollievo che l’invase quando le fece cenno di uscire.

«D’accordo, non sei il male. Puoi andare».

«E tu?»

E lui? Prima, nella veste di Satana, le argomentazioni di lei sarebbero state plausibili, e lui le aveva date per scontate. Ma adesso… si, era davvero l’Albero del Sapere del Bene e del Male! Eppure…»

Lei l’afferrò all’improvviso, trascinandolo fino all’ingresso: «I cani, non senti?» L’abbaiare giunse forte, da fuori. «Ti stanno dando la caccia, Adamo… sono a dozzine!»

Lui annui studiando le forme lontane degli uomini a cavallo, mentre le sue dita si davano da fare con una matita e un pezzo di carta. «E saranno qui tra una ventina di minuti. Bene o Male che sia, non devono trovare ciò che c’è qui. Eva, c’è una barca sulla riva del fiume; spingi la leva rossa nella direzione in cui vuoi andare, con forza se vuoi andar veloce, con poca se vuoi viaggiare lentamente. Ecco una mappa per arrivare alla mia caverna. Lì sarai al sicuro».

E subito tornò allo scavatore, prendendo posto sul seggiolino. Le sue dita azionarono fulminee i comandi. Il possente generatore muggì, sbuffando, e la pesante, tozza macchina cominciò a manovrare fra i pochi spazi liberi, spingendo da parte gli ostacoli. Quando fosse stato fuori, avrebbe potuto usare tutta la sua forza, senza pericolo di urti e rimbalzi, e in dieci minuti l’intera collina sarebbe stata ridotta ad un ammasso di macerie triturate, irriconoscibili; infine, il generatore di quell’ultima macchina avrebbe potuto essere spinto oltre il massimo, e lo scavatore si sarebbe ridotto a un’inutile massa di metallo fuso.

«Adamo!» Lei era a cavalcioni del seggiolino posteriore, e urlava per farsi sentire sopra il ruggito della sottile lama d’energia che stava allargando lo scavo.

«Vai, scappa, Eva! Non puoi fermarmi!»

«Non voglio… Non sono pronti per macchine come questa, non ancora! E in ogni caso, noi due insieme potremo ricostruire tutto ciò che c’era qui, Adamo».

Lui grugnì a disagio, incapace di distogliere lo sguardo dal raggio aghiforme. Era già difficile riuscire a pensare senza che lei lo distraesse, sapendo che non poteva correr rischi e doveva distruggersi, mentre le parole di lei, e i suoi stessi istinti, combattevano contro questa sua decisione. «Tu parli troppo!»

«E parlerò molto di più, fino a quando non ti comporterai in modo sensato! Ti guasterai il cervello, se cercherai di decidere adesso. Vieni con me lassù, a monte del fiume, per sei mesi. Così lontano, non potrai fare del male a nessuno, neppure se fossi davvero Satana! Poi, Adamo, quando ci avrai ben riflettuto sopra, potrai fare ciò che vorrai. Ma non adesso!»

«Per l’ultima volta, vuoi andartene?» Adesso, mentre si scavava una strada attraverso il cemento incrinato, non osava pensare, eppure non riusciva a mettere a tacere nella propria mente le parole di lei, che continuavano a echeggiare, implacabili. «VATTENE!»

«Non senza di te, Adamo. Il mio ricevitore non è guasto. Sapevo che avresti tentato di uccidermi, quando ti ho salvato… Credi che mi arrenderei tanto facilmente, adesso?»

Spense con un gesto brusco lo scavatore, e si girò di scatto per fronteggiarla: «Lo sapevi… e malgrado ciò mi hai salvato? Perché?»

«Perché avevo bisogno di te, e il mondo ha bisogno di te. Tu dovevi vivere, anche a costo della mia vita!»

Poi, il generatore ricominciò a ruggire, aprendosi la strada come un coltello attraverso gli ultimi centimetri di cemento. Infine, sbucò fuori di slancio dalla cupola, e il raggio brandeggiò tutt’intorno. Mentre con un ruggito l’energia, scatenata fino a un attimo prima alla massima potenza, si spegneva, il robot girò la testa verso di lei e annuì.

Lei poteva anche essere la robot-femmina più stupida del creato, ma era anche la più dolce. Era meraviglioso sentire che c’era qualcuno che aveva bisogno di te, e ti voleva!

E dietro di lui Eva annui tra sé, benedicendo Simon Ames per aver compreso la psicologia tra le scienze umanistiche. Nel giro di sei mesi lei sarebbe riuscita a rieducarlo del tutto, e avrebbe avuto in più il tempo di recitargli per intero il Libro che lui conosceva soltanto come uno spezzone di pellicola. Ma non ancora! E certamente non il Levitico; la Genesi avrebbe già creato abbastanza problemi nella sua testa.

Era meraviglioso sentire che c’era qualcuno che aveva bisogno di te, e ti voleva!

La primavera era tornata un’altra volta e Adamo sedeva sotto uno degli alberi in fiore, dando pigramente da mangiare a una nuova nidiata di maialetti, mentre le mani di Eva si muovevano rapide per completare quello che sarebbe stato il suo nuovo abito, copiato attentamente da quello di Dan.

Erano quasi pronti a ritornare al sud per mescolarsi tra gli uomini e assolvere la missione di ricondurre la razza alla sua eredità. Già la plastica manipolabile che lui aveva sintetizzato e lei modellato sui rispettivi corpi era diventata parte integrante di loro stessi, e i muscoli magnetici che lui vi aveva dissimulato non richiedevano più un impulso cosciente per esibire le loro emozioni con espressioni umane. Quando si alzò in piedi e si avvicinò a lei, avrebbe potuto benissimo essere soltanto un uomo dall’insolita bellezza.

«Sempre alla ricerca di Dio?» lei gli chiese, gaiamente. Ma non c’era nessuna preoccupazione dipinta sul suo volto. L’orgia metafisica era da tempo guarita.

Un sorriso pensoso si disegnò sul suo viso, mentre cominciava a infilarsi il nuovo abito. «Si trova ancora dove l’ho trovato io… Qualcosa dentro di noi che non ha bisogno d’essere cercato. No, Eva: stavo pensando al terzo robot, con la speranza che sia sopravvissuto. Anche se non abbiamo trovato alcuna traccia della sua cupola, là dove la tua documentazione l’indicava, sono ancora convinto che dovrebbe essere con noi».

«Forse lo é, in spirito, dal momento che tu insisti a dire che i robot hanno un’anima. Dov’è la tua fede, Adamo?»

Ma nella sua voce non c’era nessuna sfumatura di derisione verso di lui. Anima o no, il Dio di Adamo era stato molto buono con loro.


E lontano, verso sud, una figura invecchiata zoppicava sopra il pietrisco sparso su un breve pianoro davanti a un dirupo roccioso. Sotto le sue mani, la porta abilmente nascosta si spalancò, e lui la spinse verso l’interno, per poi chiuderla e sbarrarla dietro di sé; si avviò lungo una stretta galleria che terminava in una caverna rotonda. Erano passati anni da quando era stato là dentro l’ultima volta, ma quel luogo era ancora, per lui, la casa. Si sedette, cigolando, su una panca e cominciò a togliersi gli indumenti sbrindellati e macchiati dal viaggio. Come ultima cosa, si tirò via dalla testa una maschera e una parrucca grigia, rivelando così il corpo logoro e ammaccato del terzo robot.

Esalò un sospiro di stanchezza, guardando i pochi libri e i documenti stracciati che aveva salvato dalla rovinosa crescita delle stalattiti e delle stalagmiti all’interno della cavità, e l’interruttore corroso che l’umidità non prevista aveva cortocircuitato settecento anni prima. E infine il suo sguardo si appuntò sul suo tesoro più grande. Era sbiadito perfino sotto il telo di plastica, ma il volto amareggiato di Simon Ames lo guardava ancora, del tutto riconoscibile.

Il terzo robot annuì verso quel volto antico, con uno strano miscuglio di vecchia familiarità e d’una reverenza perennemente nuova. «Più di duemila miglia nelle mie condizioni, Simon Ames, per controllare una storia che avevo udito in una delle colonie, e molti mesi per cercarli. Ma dovevo saperlo. Sì, loro sono un’ottima cosa per il mondo. Daranno ad essi tutte le cose che io non ho potuto, e i loro pensieri sono giovani e forti, così come la razza è giovane e forte».

Per qualche istante guardò la cavità intorno a sé e la galleria che i batteri da lui adattati avevano aperto, divorando il suolo. Poi tornò a fissare quell’immagine. Infine, spense il generatore principale e restò seduto, immobile, al buio.

«Settecento anni fa sono uscito di qui per scoprire che l’uomo si era estinto, sulla Terra», mormorò, sempre rivolto all’immagine. «Quattrocento anni fa avevo imparato a sufficienza per tentare di ricreare l’uomo, e più di trecento anni fa gli ultimi ovuli umani supercongelati si sono sviluppati con successo. Adesso, la mia parte è compiuta. L’uomo ha una tradizione che lo collega senza interruzioni alla sua razza, senza alcuna coscienza dell’interruzione. È forte, giovane, fecondo, e ha nuovi capi, migliori di quanto io potrei essere da solo. Non posso fare nient’altro per lui».

Per un attimo, vi fu soltanto il cigolio delle sue mani che scivolavano contro altro metallo. Poi un debole sospiro: «Alle mie mani, Simon Ames, hai affidato la tua razza. Ora, nelle Tue Mani, Dio di quella razza, se tu esisti come il mio fratello crede, rimetto lui… e il suo spirito».

Poi vi fu un clic quando le sue mani trovarono l’interruttore del suo generatore. E il silenzio finale.

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