Il draconiano contrasse le tre dita della mano. Negli occhi gialli della creatura potevo leggere il desiderio di stringere quelle dita attorno a un’arma, o alla mia gola. Mentre contraevo a mia volta le dita, sapevo che lui poteva leggere lo stesso desiderio nei miei occhi.
— Irkmaan! — disse l’essere, sprezzante.
— Luridissimo Drac! — Gli feci cenno di avvicinarsi. — Avanti, Drac, fatti sotto!
— Irkmaan vaa, koruum au!
— Insomma, vuoi chiacchierare o vuoi lottare? Avanti, fatti sotto! — Sentii uno spruzzo sulle spalle. Il mare era un inferno di cavalloni crestati di bianco che minacciava di inghiottirmi come aveva già fatto con il mio caccia. Io ero sceso con l’apparecchio. Il Drac si era gettato con la capsula di salvataggio, quando il suo caccia era stato colpito, negli strati superiori dell’atmosfera. Ma non prima di avermi messo fuori uso il motore. Ero esausto per lo sforzo di nuotare fino alla spiaggia di roccia grigia e di tirarmi in salvo. Alle spalle del Drac, fra le colline nude e rocciose, poteva vedere la sua capsula. Sopra di noi, molto in alto, la sua gente e la mia se le stavano ancora dando di santa ragione per il possesso di un angolo di nulla disabitato. Il Drac se ne stava lì, immobile, e cercai di ricordarmi la frase che ci avevano insegnato durante l’addestramento… una frase studiata apposta per fare impazzire di rabbia qualsiasi Drac. — Kiz la youmeen, Shizumaat! — Traduzione: Shizumaat, il più illustre filosofo draconiano, mangia escrementi di kiz. Più o meno come costringere un mussulmano a mangiare carne di maiale.
Il Drac spalancò la bocca, orripilato, poi la richiuse, mentre per la rabbia cambiava letteralmente colore, da giallo a bruno-rossiccio. — Irkmaan, Topolino è cretino!
Avevo giurato di combattere e morire per molte cose, ma quel venerabile roditore non entrava nel novero. Cominciai a ridere, e continuai finché la risata, combinandosi con la stanchezza, non mi costrinse a cadere sulle ginocchia. Facendomi forza aprii gli occhi, per sorvegliare il mio nemico. Il Drac stava correndo verso le alture, allontanandosi da me e dal mare. Mi girai verso il mare, ma feci appena in tempo a intravvedere un milione di tonnellate di acqua che mi piombavano addosso, prima di perdere i sensi.
— Kiz da Youmaan, Irkmaan, ne?
Avevo gli occhi pieni di sabbia e irritati per la salsedine, ma qualcosa dentro di me riuscì a dire: Ehi, sei vivo. Feci per pulirmi gli occhi, e scoprii che avevo le mani legate a una sbarra di metallo. Mentre le lacrime mi ripulivano gli occhi, potei vedere il Drac seduto su una roccia nera, che mi guardava. Doveva avermi tirato in salvo.
— Grazie, faccia di rospo. E queste manette?
— Ess?
Cercai di agitare le braccia, ma riuscii solo a dare l’impressione di un caccia atmosferico che scivola d’ala. — Slegami, schifoso Drac! — Ero seduto sulla sabbia, con la schiena appoggiata a una roccia.
Il Drac sorrise, mettendo in mostra le due mandibole. Avevano un’aria abbastanza umana… Tranne per il fatto che, invece di avere denti separati, erano di un pezzo unico.
— Eh, ne, Irkmaan. — Si alzò, mi venne vicino, e controllò le mie manette.
— Slegami!
Il sorriso sparì.
— Ne! — Mi puntò addosso un dito giallo. — Kos son va?
— Non parlo il drac, faccia di rospo. Parli inglese, tu? O esper?
Il Drac alzò le spalle, con aria molto umana, poi si puntò il dito contro il petto. — Kos va son Jeriba Shigan. — Indicò ancora verso di me. — Kos son va?
— Mi chiamo Willis Davidge.
— Ess?
Sillabai con qualche difficoltà:
— Kos va son Willis Davidge.
— Eh. — Jeriba Shigan annuì, poi mi fece un cenno con la mano. — Dasu, Davidge.
— Altrettanto a te, Jerry.
— Dasu, Dasu! — Jeriba sembrò spazientirsi. Mi strinsi nelle spalle meglio che potei. Il Drac si chinò, mi afferrò con entrambe le mani il petto della tuta e mi tirò in piedi. — Dasu, dasu, kizlode!
— Ho capito, ho capito! Dasu vuol dire alzati. E kizlode?
Jerry rise.
— Gavey «kiz»?
— Sì, gavey.
Jerry si indicò la testa. — Lode. — Indicò la mia testa. — Kizlode. Avevo capito. Sferrai un colpo con le braccia unite, e presi Jerry sulla testa con la sbarra. Il Drac andò a sbattere contro una roccia, con un’espressione di sorpresa. Si toccò la testa con una mano, e la ritirò coperta di quel pus biancastro che i Draconiani considerano sangue. Mi guardò con un’espressione omicida negli occhi. — Gefh! Nu Gefh, Davidge.
— Fatti sotto, Jerry, figlio di puttana di un kizlode!
Jerry mi si buttò addosso, e io cercai di colpirlo ancora con la sbarra, ma il Drac mi prese il polso destro con entrambe le mani, e sfruttando il mio impeto mi fece girare su me stesso, mandandomi a sbattere con la schiena contro un’altra roccia. Proprio mentre riuscivo a riprendere fiato, Jerry raccolse un piccolo masso e venne verso di me con tutte le intenzioni di sfracellarmi il cranio. Appoggiandomi con la schiena alla roccia, gli diedi un calcio nello stomaco, mandandolo a finire lungo disteso sulla sabbia. Corsi verso di lui, pronto a sfracellare a pedate il suo cranio, quando lui indicò alle mie spalle. Mi voltai e vidi un’altra ondata gigantesca che prendeva la rincorsa per venirci addosso. — Kiz! — Jerry si mise in piedi e corse come un dannato verso il terreno più elevato, con me alle calcagna.
Con il ruggito dell’ondata alle nostre spalle ci infilammo fra le rocce nere, levigate dalla sabbia e dall’acqua bassa, finché non raggiungemmo la capsula di Jerry. Il Drac si fermò, appoggiò la spalla all’aggeggio a forma di uovo e cominciò a farla rotolare. Compresi il suo scopo. Quella capsula conteneva gli unici mezzi di sopravvivenza, cibo compreso, di cui fossimo a conoscenza sul pianeta. — Jerry! — gridai al di sopra del rombo crescente dell’ondata. — Toglimi questo dannato affare e ti potrò aiutare! — Il Drac mi guardò accigliato. — La sbarra, kizlode, toglimela! — Indicai con la testa le mie mani.
Jerry mise una roccia sotto la capsula, per impedirle di rotolare indietro, poi mi slegò in fretta i polsi e tirò via la sbarra. Ci appoggiammo entrambi con le spalle alla capsula, e la facemmo rotolare sul terreno più elevato. L’ondata si arrampicò sul pendio, veloce, finché non ci arrivò al petto. La capsula galleggiava come un sughero, e riuscimmo a stento a tenerla ferma, fino a quando l’ondata non si ritirò, lasciando la capsula incastrata fra tre massi. Mi fermai ansimante.
Jerry si lasciò cadere sulla sabbia, appoggiando la schiena a uno dei massi. Osservò l’ondata recedere verso il mare. — Magasienna!
— L’hai detto, fratello. — Mi sedetti vicino al Drac. Stipulammo con un’occhiata una tregua temporanea, e immediatamente ci addormentammo.
Aprii gli occhi su un cielo di neri e di grigi ribollenti. Lasciai rotolare la testa sulla spalla sinistra e guardai il Drac. Era ancora addormentato. La prima cosa che pensai fu che quella era una occasione d’oro per fare un bello scherzo a Jerry. La seconda fu quanto era sciocca la nostra disputa, di fronte alla lotta gigantesca degli elementi intorno a noi. Perché non era ancora arrivata la squadra di soccorso? Forse la flotta dei Drac ci aveva annientato? E allora perché i Drac non erano arrivati per raccogliere Jerry? Forse si erano annientati a vicenda. Non sapevo neppure dove mi trovavo. Scendendo, era sembrata un’isola, ma oltre a questo non sapevo nient’altro. Fyrine IV: il pianeta non era neanche abbastanza importante da avere un nome, ma lo era abbastanza perché vi fossimo mandati a morirci.
Mi alzai faticosamente. Jerry aprì gli occhi, e con una mossa rapida si accucciò in posizione di difesa. Feci un gesto con la mano e scossi la testa. — Calma, Jerry. Voglio solo dare un’occhiata in giro. — Gli voltai le spalle e mi arrampicai tra i massi. Qualche minuto dopo raggiunsi un terreno pianeggiante.
Era proprio un’isola, e neanche molto grande. A occhio e croce, l’altezza massima sul livello del mare raggiungeva gli ottanta metri, la lunghezza circa due chilometri, e la larghezza uno. Il vento che mi sferzava servì almeno ad asciugarmi la tuta, ma osservando i massi levigati sulla cima della collina, mi resi conto che io e Jerry dovevamo aspettarci delle ondate ancora più grosse di quelle che avevamo sperimentato fin’ora.
Sentii un rumore alle mie spalle, e vidi Jerry arrampicarsi. Il Drac raggiunse la cima e si guardò intorno. Mi inginocchiai vicino a uno dei massi e ci passai sopra la mano per fargli notare che era liscio, poi indicai il mare. Jerry annuì. — Ae, gavey. — Indicò la capsula, poi il punto dove stavamo. — Echey masu, nasesay.
Aggrottai le ciglia, portai il dito verso la capsula. — Nasesay? La capsula?
— Ae, capsula nasesay. Echey masu. — Jerry indicò ai suoi piedi.
Scossi la testa. — Jerry, se tu gavey perché queste rocce sono lisce — ne indicai una — allora gavey che masu-are la nasesay fin quassù non servirà a un accidente. — Mossi le mani su e giù. — Indicai il mare. — Onde quassù. — Indicai dove stavamo. — Onde echey.
— Ae, gavey. — Jerry si guardò in giro, poi si fregò il mento. Si sedette vicino a delle piccole rocce e cominciò a metterle una sopra l’altra. — Viga, Davidge.
Mi inginocchiai vicino a lui e osservai le sue dita veloci costruire un cerchio di pietre, una specie di arena in miniatura. Jerry infilò un dito in mezzo al cerchio. — Echey, nasesay.
I giorni, su Fyrine IV, sembrava che durassero tre volte quelli di tutti gli altri pianeti abitabili che avevo conosciuto. Anche se abitabile, riferito a Fyrine IV è un eufemismo. Ci volle quasi tutto il primo giorno per far rotolare la nasesay di Jerry in cima alla collina. La notte era troppo buio per lavorare, e inoltre faceva un freddo cane. Togliemmo il sedile dalla capsula, ricavando spazio appena sufficiente per infilarci dentro entrambi. Il calore dei nostri corpi riscaldò un po’ l’ambiente, e passammo il tempo a dormire, a mangiare le razioni di Jerry (avevano un sapore a metà fra quello del pesce e del pecorino), e cercando di trovare un accordo sulla lingua.
— Occhio.
— Thuyo.
— Dito.
— Zurath.
— Testa.
Il Drac rise.
— Lode.
— Ah, ah, che ridere.
— Ah ah.
All’alba del secondo giorno facemmo rotolare la capsula al centro del piccolo altopiano, incastrandola fra due grossi massi, uno dei quali aveva una sporgenza che, nelle nostre speranze, doveva servire a trattenerla all’arrivo delle ondate. Tutto attorno disponemmo delle pietre piuttosto grosse come fondamenta, e riempimmo le fessure con pietre più piccole. Quando il nostro muro ebbe raggiunto l’altezza delle ginocchia, ci rendemmo conto che una costruzione fatta con quelle pietre lisce e tonde, senza malta, non poteva stare in piedi. Dopo qualche esperimento, scoprimmo un sistema per spaccare le pietre, in modo da avere dei lati piatti: prendevamo una pietra e la sbattevamo con violenza sopra un’altra. Facemmo a turni: uno spaccava pietre e l’altro costruiva. La pietra era una specie di vetro vulcanico, e facevamo anche dei turni per toglierci le schegge a vicenda. Ci vollero nove di quegli interminabili giorni per finire il muro. Le ondate ci vennero varie volte vicino, e una ci arrivò alle caviglie. Per sei di quei nove giorni piovve. La dotazione della capsula includeva un telo di plastica, e questo divenne il nostro tetto. Si riempiva al centro, così ci praticammo un buco, che ci fornì anche una riserva di acqua fresca. Se arrivava un’ondata di una certa entità, potevamo dire addio al nostro tetto; ma noi avevamo fiducia nel muro, che era spesso circa due metri alla base, e uno alla sommità.
Una volta finito, ci sedemmo all’interno e ammirammo la nostra opera per circa un’ora, finché non cominciammo a renderci conto che eravamo restati senza niente da fare. — E adesso Jerry?
— Ess?
— Adesso cosa facciamo?
— Adesso aspettare noi. — Il Drac alzò le spalle. — Cosa altro, ne?
Annuii. — Gavey. — Mi alzai e andai alla porta. Non avendo legname per fare una porta vera e propria, nel punto dove i due muri avrebbero dovuto incontrarsi, a uno avevamo fatto fare una curva, estendendolo per circa tre metri, parallelamente all’altro, con l’apertura dalla parte opposta rispetto ai venti prevalenti. I venti non avevano mai smesso di soffiare, ma la pioggia era cessata. Il nostro muro non era gran che da guardare, ma vederlo lì, nel bel mezzo di quell’isola deserta, mi faceva sentir bene. Come dice Shizumaat: La vita intelligente prende posizione contro l’universo. O almeno, era questo il senso che ero riuscito a ricavare dall’inglese pasticciato di Jerry. Presi una scheggia appuntita e feci un altro segno sulla roccia che mi serviva da calendario. Dieci segni in tutto e sotto il settimo una piccola X per indicare la grossa ondata che aveva sfiorato la cima dell’isola.
Gettai a terra la scheggia.
— Dannazione, odio questo posto!
— Ess? — Jerry sporse la testa dall’altra parte dell’apertura. — Parli chi, Davidge?
Gli lanciai un’occhiataccia. — A nessuno.
— Ess va «nessuno»?
— Nessuno. Niente.
— Ne gavey, Davidge.
Mi battei sul petto col dito. — Me! Parlo a me stesso! Questo lo gavey, faccia di rospo?
Jerry scosse la testa. — Davidge, ora dormo. Non parlare tanto a nessuno, ne? — Sparì dietro alla parete di roccia.
— Ma va a quel paese, figlio di… — Mi incamminai lungo il fianco della collina. Solo che tu una madre, a rigor di termini, non ce l’hai, faccia di rospo. E neanche un padre. «Se potessi scegliere, con chi ti piacerebbe fare naufragio su un’isola deserta?» Mi chiesi se qualcuno aveva mai scelto di finire in un angolo gelato dell’inferno, insieme a un ermafrodito.
Giunto a metà del pendio, seguii un sentiero che avevo segnato con delle rocce fino a una pozza formata dalle maree, e che avevo ribattezzato ranch delle lumache. Attorno alla pozza c’erano numerose rocce, e sotto di queste, nell’acqua bassa, vivevano i più grossi lumaconi marini che avessi mai visto. Avevo fatto la scoperta durante una pausa dei lavori e avevo chiamato Jerry.
Jerry aveva alzato le spalle. — E allora?
— Come allora? Senti, Jerry, le tue reazioni non dureranno in eterno. Cosa mangeremo quando saranno finite?
— Mangiare? — Jerry guardò i lumaconi che si contorcevano e fece una smorfia. — Ne, Davidge. Prima prendono noi. Cercano, trovano e prendono noi.
— E se non ci trovano?
Jerry fece un’altra smorfia, e si voltò per tornare al lavoro. — Acqua beviamo noi, fino quando trovano. — Aveva farfugliato qualcosa a proposito di escrementi di kiz e dei miei gusti, ed era sparito dalla vista.
Da allora, avevo rinforzato le pareti di roccia intorno alla pozza, sperando che la maggiore protezione avrebbe permesso un aumento della popolazione di molluschi. Guardai sotto parecchie rocce, ma non c’era stato alcun aumento apparente. Comunque, non avevo il coraggio di ingoiarne uno. Rimisi a posto la roccia, mi alzai e scrutai il mare. Anche se la cortina perenne di nubi nascondeva come sempre i raggi di Fyrine, non pioveva, e si era sollevata la solita nebbia. Dalla parte dov’ero approdato il mare si stendeva fino all’orizzonte. Fra le creste bianche delle onde, l’acqua era grigia come il cuore di uno strozzino. A circa cinque chilometri dall’isola si formavano delle lunghe ondate parallele. Il settore centrale avrebbe investito l’isola, mentre le altre proseguivano il loro cammino. Alla mia destra, sulla stessa linea delle ondate, potevo distinguere un’altra piccola isola, alla distanza di una decina di chilometri. Seguii con gli occhi la direzione di marcia delle ondate, e dove il grigio-bianco del mare avrebbe dovuto incontrare il grigio più chiaro del cielo, contro l’orizzonte, vidi una linea nera.
Più cercavo di ricostruire mentalmente le carte topografiche di Fyrine IV, più diventavano confuse. Anche Jerry non ricordava niente, o almeno non me lo voleva dire. E poi perché avremmo dovuto ricordarcele? La battaglia avveniva nello spazio, dove ognuna delle due parti cercava di impedire all’altra di stabilire un contingente orbitale. Nessuno aveva intenzione di mettere piede sul pianeta, e ancor meno di combatterci sopra. Comunque quello che vedevo era una massa di terra molto più grande della striscia di roccia e sabbia dove ci trovavamo.
Il problema era come arrivarci. Senza legname, fuoco, foglie, pelli di animale, io e Jerry eravamo in una condizione peggiore dei più arretrati selvaggi. L’unica cosa a nostra disposizione che potesse galleggiare era la nasesay, la capsula. E perché no? Il problema era convincere Jerry.
La sera, mentre il grigio si trasformava lentamente in nero, Jerry ed io ci sedemmo fuori dal muro, a mangiare le nostre razioni. Gli occhi gialli del Drac scrutarono la linea nera sull’orizzonte. Poi scosse la testa. — Ne, Davidge. Pericoloso è.
Mi infilai in bocca il resto della razione, e parlai masticando. — Più pericoloso che restare qui?
— Presto prendono noi, ne?
Lo fissai negli occhi. — Jerry, tu ci credi quanto me. — Mi chinai verso di lui. — Senti, le nostre possibilità di sopravvivenza saranno molto maggiori su una massa di terra più grande. Protezione dalle grandi ondate, forse cibo…
— Non forse, ne? — Jerry indicò il mare. — Come guidare nasesay, Davidge? Dentro, come guidare? Ess eh ondate oltre terra portano, gavey? Bresha. — Jerry batté assieme le mani. — Ess eh bresha su rocce, ne? Noi morti.
Mi grattai la testa. — Le ondate da qui vanno in quella direzione, e cosi pure il vento. Se la terra è grande abbastanza, non dovremo pilotare la capsula, gavey?
Jerry sbuffò: — Ne grande abbastanza; allora?
— Non ho detto che era una cosa sicura.
— Ess?
— Una cosa sicura, certa, gavey? — Jerry annuì. — E quanto a sfracellarci sulle rocce, probabilmente c’è una spiaggia come questa.
— Sicuro, ne?
Alzai le spalle. — No, non è sicuro, ma è sicuro stare qui? Non sappiamo quanto possono diventare grandi quelle ondate. Se ne arriva una e ci porta via dall’isola? Cosa facciamo allora?
Jerry mi guardò stringendo gli occhi. — Cosa la è, Davidge? Base Irkmaan, ne?
Mi misi a ridere. — Te l’ho detto che non abbiamo basi su Fyrine IV.
— Perché vuoi andare, allora.
— Te l’ho detto, Jerry. Penso che le nostre possibilità di sopravvivenza sarebbero migliori.
— Uhmmm. — Il Drac incrociò le braccia. — Viga, Davidge, Nasesay resta. Io so.
— Cosa sai?
Jerry sorrise, poi si alzò ed entrò nel nostro riparo. Dopo un attimo ritornò e gettò a terra ai miei piedi una sbarra di metallo lunga due metri. Era quella che aveva usato per legarmi le mani.
— Io so, Davidge.
Alzai le sopracciglia e mi strinsi nelle spalle. — Di cosa stai parlando? Non l’hai presa nella tua capsula?
— Ne, Irkmaan.
Mi chinai e raccolsi la sbarra. Non presentava tracce di corrosione, e ad una delle estremità c’erano dei numeri in cifre arabe: il numero del pezzo. Sentii un’ondata di speranza, ma questa svanì subito, quando mi resi conto che si trattava di un numero civile. Gettai la sbarra sulla sabbia. — Non possiamo sapere da quanto tempo si trovi qui, Jerry. Si tratta di un numero civile, e nessuna spedizione civile è più arrivata in questa parte della galassia dallo scoppio della guerra. Potrebbe essere stata lasciata da una vecchia spedizione di inseminazione o di esplorazione…
Il Drac mosse la sbarra con la punta del piede. — Nuova, gavey?
Lo guardai. — Tu gavey l’acciaio inossidabile?
Jerry sbuffò e si voltò verso il riparo. — Io resto, nasesay resta; dove vuoi, tu va, Davidge!
Con il nero della lunga notte che si stava chiudendo sopra di noi, il vento aveva preso velocità, e ululava attraverso le fessure del muro. Il tetto di plastica sbatteva, veniva risucchiato dentro e fuori con tale violenza che minacciava di lacerarsi o di volarsene via. Jerry sedeva sulla sabbia, con la schiena appoggiata alla nasesay, come per mettere in chiaro che lui e la capsula non si muovevano, anche se la furia crescente del mare sembrava dargli torto.
— Mare brutto ora è, Davidge, ne?
— È troppo buio per vedere, ma questo vento… — Alzai le spalle, più per me stesso che per il Drac, dal momento che l’unica cosa visibile nel riparo era la luce pallida che filtrava dal soffitto. Da un minuto all’altro potevamo essere spazzati via dall’isola. — Jerry, ti stai comportando come uno stupido per quella sbarra, e lo sai.
— Surda. — Il Drac aveva un’aria dispiaciuta, quasi desolata.
— Ess?
— Ess eh «Surda»?
— Ae.
Jerry rimase in silenzio per un momento. — Davidge, gavey «non certo non è»?
Ci pensai un momento. — Vuoi dire: «forse», «magari», «può darsi»?
— Ae, Forsemagaripuòdarsi. Flotta dracon ha navi Irkmaan. Prima di guerra comprare: dopo guerra catturare. Forsemagaripuòdarsi sbarra è di dracon.
— Perciò, se c’è una base segreta su quella grossa isola, surda è una base draconiana?
— Forsemagaripuòdarsi, Davidge.
— Vuoi dire che intendi provarci, Jerry? Con la nasesay?
— Ne.
— Ne? E perché, Jerry? Se ci fosse una base Drac…
— Ne! Ne parlare! — La voce del Drac era strozzata.
— E invece sì, che parliamo, Jerry! Se devo crepare su quest’isola, ho il diritto di sapere il perché.
Per un po’ il Drac restò in silenzio. — Davidge.
— Ess?
— Nasesay, tu prendi. Metà razioni lasci. Io resto.
Scossi la testa per schiarirmela. — Vuoi che prenda la capsula da solo?
— Quello è che vuoi, ne?
— Ae, ma perché? Lo sai anche tu che non verranno a prenderci. Che c’è? Hai paura dell’acqua? Se è così, sarà meglio…
— Davidge, bocca chiudi. Nasesay prendi. Me non hai bisogno, gavey?
Annuii nel buio. Potevo prendermi la capsula. E cosa me ne facevo di un Drac dalla testa dura… soprattutto dal momento che la nostra tregua poteva spirare da un istante all’altro? La risposta mi fece sentire un po’ sciocco… e umano. Ma forse è la stessa cosa. Il Drac era l’unica cosa che mi separava dalla più completa solitudine. Però c’era anche il piccolo problema di sopravvivere. — È meglio andare insieme, Jerry.
— Perché?
Mi sentii arrossire. Se gli uomini hanno così bisogno di compagnia, perché si vergognano tanto ad ammetterlo? — Avremo più probabilità di cavarcela.
— Solo, tue possibilità meglio sono, Davidge. Io tuo nemico sono.
Annuii ancora e feci una smorfia nel buio. — Jerry, tu gavey «solitudine»?
— Ne gavey.
— Essere solo, senza nessuno.
— Gavey sei solo. Prendi nasesay; io resto.
— Appunto… vedi, viga, non voglio.
— Vuoi andare insieme noi? — Nel buio si sentì una risata gorgogliante. — Dracon a te piace? Morto ti piace, Irkmaan. — Jerry ridacchiò ancora. — Irkmaan poorzhab in testa, poorzhab.
— Lascia perdere! — Mi lasciai scivolare in terra e mi rannicchiai con la testa dalla parte del Drac. Il vento sembrava essersi un po’ placato, e chiusi gli occhi per cercare di dormire. Dopo un po’, gli schiocchi del tetto di plastica si confusero con i fischi e gli ululati del vento, e mi sentii scivolare nel sonno. Spalancai di colpo gli occhi al suono di passi che si avvicinavano. Tesi i muscoli, pronto a scattare.
— Davidge? — La voce di Jerry era molto calma.
— Cosa c’è?
Sentii il Drac sedersi vicino a me.
— Tua solitudine, Davidge. Difficile parlare di questa, ne?
— E allora? — Il Drac farfugliò qualcosa che si perse nel vento. — Come? — Mi voltai e vidi Jerry che sbirciava da una fessura nel muro.
— Perché resto. Ora dico te, ne?
Alzai le spalle.
——E va bene. Perché no?
Jerry parve lottare con le parole, aprì la bocca per parlare. Poi i suoi occhi si spalancarono. — Magasienna!
Mi alzai.
— Ess?
Jerry indicò la fessura. — Guarda!
Lo spinsi da parte e guardai anch’io. Simile a montagne crestate di bianco, delle ondate gigantesche si stavano dirigendo come una furia verso la nostra isola. Era difficile giudicare al buio, ma quella di fronte sembrava più alta di quella che aveva sfiorato la cima dell’isola qualche giorno prima. Quelle che venivano dopo erano ancora più grandi. Jerry mi mise una mano sulle spalle, e io lo guardai negli occhi. Poi ci mettemmo a correre verso la capsula. Sentimmo la prima ondata infrangersi sul fianco della collina mentre armeggiavamo alla ricerca della maniglia. La trovai proprio mentre l’ondata colpiva il rifugio e faceva crollare il tetto. Un attimo dopo eravamo sott’acqua, e le correnti in mezzo al muro ci sbattevano come panni in una lavatrice.
L’acqua si ritirò, e mentre mi fregavo gli occhi mi accorsi che il lato controvento della parete era parzialmente crollato. — Jerry!
Attraverso la breccia, scorsi il Drac che barcollava, all’aperto. — Irkmaan! — Alle sue spalle, vidi la seconda ondata prendere velocità.
— Kizlode, che diavolo ci fai là fuori? Entra!
Mi voltai verso la capsula, sempre fermamente ancorata fra le due rocce e trovai la maniglia. Mentre aprivo il portello, Jerry arrivò incespicando e mi fini addosso. — Davidge… ondate sempre vengono! Sempre!
— Entra! — Lo aiutai a infilarsi dentro, e non aspettai che si facesse da parte. Gli montai sopra e chiusi il portello proprio mentre la seconda ondata ci colpiva. Sentii la capsula sollevarsi un po’ e andare a urtare contro la sporgenza.
— Davidge, galleggiamo?
— No. Le rocce ci tengono fermi. Saremo a posto, passata la tempesta.
— Via da me sopra.
— Oh. — Mi spostai dallo stomaco di Jerry, e mi appoggiai a una parete. Dopo un po’ la capsula smise di rollare, e ci preparammo alla terza ondata. — Jerry.
— Ess!
— Cosa stavi per dirmi?
— Perché resto?
— Sì.
— Difficile parlare di questo, per me, gavey!
— Capisco, capisco.
Arrivò la terza ondata, e sentii la capsula sollevarsi e urtare la roccia. — Davidge, gavey «vi nessa»!
— Ne gavey.
— Vi nessa… piccolo me, gavey?
La capsula rimbalzò contro le rocce e si fermò. — Piccolo cosa?
— Piccolo me… piccolo Drac. Da me, gavey?
— Vuoi dire che aspetti un bambino?
— Forsemagaripuòdarsi.
Scossi la testa. — Un momento, Jerry, voglio capire bene. Stai per avere un bambino… sei incinto?
— Ae, bambino. Molto importante, ne?
— Spaventosamente. E questo cosa c’entra col fatto che non vuoi andare sull’altra isola?
— Prima, io vi nessa gavey? Tean morto.
— Il tuo bambino, è morto?
— Ae! — Il sospiro del Drac era come quello di tutte le madri dell’universo. — Io caduto ferito. Tean morto. In mare nasesay sbattere noi. Tean male, gavey!
— Ae, gavey. — E così, Jerry aveva paura di perdere un altro bambino. Era quasi certo che il viaggio in mare ci avrebbe sbattuti un bel po’, ma restare su quell’isoletta non sembrava una prospettiva certo migliore. La capsula era ferma e decisi di dare un’occhiata fuori. I piccoli finestrini erano coperti di sabbia, e dovetti aprire il portello. Mi guardai intorno. Il muro non esisteva più. Guardai verso il mare ma non riuscii a vedere nulla. — Sembra tutto tranquillo, Jerry… — Alzai gli occhi verso il cielo quasi nero e vidi la cresta di una ondata gigantesca che mi precipitava addosso. — Porca magasienna! — Richiusi precipitosamente il portello.
— Ess, Davidge?
— Tieniti, Jerry!
Il rumore dell’acqua che colpì la capsula fu tanto forte che non riuscii a percepirlo. Urtammo una, due volte contro la roccia, poi sentii la capsula ruotare e sfrecciare verso l’alto. Cercai di aggrapparmi a qualcosa, ma in quel momento la capsula ripiombò in basso. Caddi addosso a Jerry, poi andai a sbattere con la testa contro la parete opposta. Prima di svenire, sentii Jerry gridare: — Tean Vi tean!
…il tenente premette un pulsante, e sullo schermo apparve una figura: alta, umanoide, gialla.
— Lurido Drac! — gridò il pubblico di reclute.
Il tenente si voltò verso le reclute. — Esatto. Questo è un Drac. Noterete che ha un colore uniforme: i Drac sono tutti gialli. — Usando un raggio di luce, il tenente indicò vari punti del corpo del Drac. — Caratteristica distintiva sono le mani con tre dita, e così pure la faccia senza naso, che dà loro l’aspetto di rospi. Mediamente, la loro vista è migliore di quella umana, l’udito è circa lo stesso, e l’odorato… — il tenente fece una pausa. — L’odorato è terribile! — Il tenente sorrise allo scoppio di risa che si alzò dalle reclute. Quando smisero, puntò il fascio di luce su una piega nella pancia della figura. — Questo è il posto dove il Drac tiene i suoi gioielli di famiglia… tutti quanti. — Altre risate. — Infatti i Drac sono ermafroditi: uno stesso individuo possiede tanto gli organi riproduttivi maschili quanto quelli femminili. — Il tenente guardò le reclute. — Se dite a un Drac di fottersi, state attenti, perché è capacissimo di farlo! — Quando la risata si spense, il tenente indicò lo schermo con una mano. — Se vedete uno di questi animali, cosa fate?
— LO AMMAZZIAMO!
…liberai lo schermo e bloccai il computer sul caccia Drac, che appariva nel mirino come una doppia x. Il Drac virò bruscamente a destra, poi ancora a sinistra. Sentii il pilota automatico guidare il mio apparecchio dietro il caccia, selezionando e scartando le false immagini e cercando di centrare il caccia nel suo mirino elettronico. Avanti faccia di rospo… un po’ più a destra… La doppia x entrò nell’anello centrale dello schermo e sentii il missile appeso alla pancia del mio caccia partire. Preso! Attraverso il finestrino vidi l’esplosione. Lo schermo mostrò il caccia Drac perdere il controllo e scendere a spirale verso le nuvole di Fyrine IV. Mi lanciai all’inseguimento per essere sicuro della sua fine… la temperatura dello scafo aumentò, entravo negli strati superiori dell’atmosfera. Forza, scoppia! Misi in funzione i sistemi per il volo atmosferico. Ormai era chiaro che avrei dovuto seguire il caccia Drac fino sulla superficie. Prima di raggiungere le nuvole, il Drac smise di girare su se stesso e invertì la rotta. Esclusi il pilota automatico e tirai tutta la cloche verso di me. Il mio caccia ondeggiò, cercando di puntare verso l’alto. Lo sanno tutti che i caccia Drac sono migliori nell’atmosfera… mi puntava addosso in rotta di collisione… perché quel bastardo non spara?… un attimo prima della collisione, il Drac si gettò con la capsula… il motore si è spento; posso solo controllare la caduta. Seguo la capsula attraverso le nubi… voglio trovare quel bastardo e finirlo…
Da minuti, o forse da anni, brancolavo nel buio. Sentivo di toccare qualcosa, ma le parti di me che venivano toccate sembravano lontanissime. Prima dei brividi, poi febbre, poi brividi ancora, e qualcosa di freddo sulla testa. Socchiusi gli occhi e vidi Jerry sopra di me, che mi teneva qualcosa di bagnato sulla testa. — Jerry — riuscii a mormorare.
Il Drac mi guardò negli occhi e sorrise. — Buono, Davidge. Buono.
La luce che illuminava la faccia di Jerry tremolò, e sentii odore di fumo. — Fuoco.
Jerry si fece da parte e indicò il centro della stanza, sul pavimento di sabbia. Girai la testa e mi resi conto che giacevo su un letto di foglie morbide. Di fronte al mio letto ce n’era un altro, e in mezzo scoppiettava un bel fuoco. — Noi fuoco abbiamo, Davidge, e legno. — Jerry indicò il soffitto, fatto di pali, coperti di larghe foglie.
Mi guardai intorno, poi lasciai ricadere la testa dolorante e richiusi gli occhi. — Dove siamo?
— Grande isola, Davidge. Ondata portato via noi. Vento e onde portato qui. Ragione avevi.
— Non… non capisco. Ne gavey. Ci saranno voluti dei giorni per arrivare qui.
Jerry annui, e lasciò cadere una specie di spugna in una conchiglia piena d’acqua. — Nove giorni. Io legato te a nasesay, poi qui su spiaggia noi arrivati.
— Nove giorni? Sono restato svenuto per nove giorni?
Jerry scosse la testa. — Diciassette. Noi arrivati otto giorni…
— Fa… otto giorni fa.
— Ae.
Diciassette giorni su Fyrine IV equivaleva a più di un mese sulla Terra. Riaprii gli occhi e guardai Jerry. Il Drac pareva eccitatissimo. — Come va tean, il tuo bambino?
Jerry si batté sulla pancia ingrossata. — Bene va, Davidge. Nasesay fatto più male di te.
Resistetti all’impulso di annuire. — Sono felice per te, davvero.
— Chiusi gli occhi e mi girai verso la parete di pali e di foglie. — Jerry?
— Ess?
— Mi hai salvato la vita.
— Ae.
— Perché?
Per un po’ Jerry non disse niente. — Davidge. Su isola tu parlato. Solitudine ora gavey. — Il Drac mi scosse un braccio. — Ecco, mangia ora.
Mi voltai e guardai una conchiglia piena di liquido fumante. — Cos’è? Brodo di pollo?
— Ess?
— Ess va? — Indicai la conchiglia, rendendomi conto per la prima volta di quanto fossi debole.
Jerry aggrottò le ciglia. — Come lumacone, ma lungo.
— Un’anguilla?
— Sì, ma su terra, gavey?
— Un serpente.
— Forsemagaripuòdarsi.
Appoggiai le labbra al bordo della conchiglia. Presi un sorso di brodo, lo inghiottii, e sentii il suo calore benefico diffondersi nello stomaco. — Buono.
— Tu custa vuoi?
— Ess?
— Custa. — Jerry prese da vicino al fuoco un pezzo di pietra quadrangolare. La guardai, la grattai con un’unghia, poi la toccai con la lingua.
— Sale!
Jerry sorrise. — Custa vuoi?
Mi misi a ridere. — Servizio completo. Certo, dammi un po’ di custa.
Jerry prese il pezzo di sale di roccia, ne staccò un angolo con una pietra, e quindi lo macinò contro un’altra pietra. Mi allungò la mano con un mucchietto di granelli bianchi sul palmo. Ne presi due pizzichi, li misi nel brodo di serpente e mescolai col dito. Poi bevvi un lungo sorso. Feci schioccare le labbra. — Favoloso!
— Buono, ne?
— Meglio che buono; favoloso. — Ne bevvi un altro sorso con grandi schiocchi di labbra e roteare di occhi.
— Favoloso, Davidge, ne?
— Ae. — Gli feci un cenno con la testa. — Credo che basti. Vorrei dormire.
— Ae, Davidge, gavey. — Jerry prese la conchiglia e la mise vicino al fuoco. Si alzò, andò fino alla porta, poi si voltò. I suoi occhi gialli mi studiarono per un istante, poi mi rivolse un cenno con la testa e uscì. Chiusi gli occhi, e lasciai che il calore del fuoco mi cullasse nel sonno.
Due giorni dopo, provai ad alzarmi, e dopo altri due Jerry mi aiutò a uscire. La capanna era situata sulla cima di un pendio che saliva dolcemente, in mezzo a un bosco di arbusti e di bassi alberi. Ai piedi del pendio, a più di otto chilometri dalla capanna, c’era il mare. Il Drac mi aveva portato a braccia fin lì. La nostra fedele nasesay si era riempita d’acqua ed era stata trasportata via dal mare poco dopo che Jerry mi aveva portato all’asciutto. Con la capsula se ne erano andati i resti delle razioni di emergenza. I Drac sono molto schizzinosi sul mangiare, ma alla fine la fame aveva indotto Jerry a provare la flora e la fauna locali… La fame e quell’impiccio umano che stava spegnendosi per mancanza di cibo. Il Drac aveva scelto come dieta una radice amidacea e insapore, una bacca che, una volta fatta seccare, produceva un infuso accettabile, e carne di serpente, oltre al sale che aveva trovato per caso. Nei giorni che seguirono, quando ebbi ripreso le forze, aggiunsi alla nostra dieta vari tipi di molluschi marini e un frutto che sembrava una via di mezzo fra una pera e una prugna.
Man mano che le giornate si facevano più fredde, io e il Drac fummo costretti ad ammettere che Fyrine IV aveva un inverno. Stabilito questo, dovevamo affrontare la possibilità che l’inverno fosse tanto rigido da impedire la raccolta di cibo e di legna. Le bacche e le radici, seccate vicino al fuoco, si conservavano bene; provammo anche a salare e ad affumicare la carne di serpente. Usando le fibre di certe piante, cucimmo insieme pelli di serpente per farci dei vestiti invernali: usavamo due strati di pelle, con della lanugine vegetale in mezzo, tenuta a posto trapuntando i due strati.
Fummo entrambi d’accordo sul fatto che la capanna non poteva bastare. Ci mettemmo tre giorni a trovare la nostra prima caverna, e altri tre prima di trovarne una adatta. L’imboccatura guardava sul mare eternamente in tempesta, ma era su una scogliera ben al di sopra delle onde. Attorno all’entrata trovammo una grande quantità di legna secca e di pietre. Raccogliemmo la legna da ardere, e con le pietre chiudemmo l’entrata, lasciando solo lo spazio per una porta. Costruimmo dei cardini con pelle di serpente e una porta con dei pali legati assieme per mezzo di fibre vegetali. La prima notte, i venti marini la fecero a pezzi. Decidemmo di tornare al sistema usato sull’isola.
Stabilimmo la nostra residenza in profondità, in una camera spaziosa, con il pavimento di sabbia. Ancora più in profondità, vi erano delle pozze di acqua, ottima da bere ma troppo fredda per farci il bagno. Nella camera con le pozze ci mettemmo le provviste. Lungo le pareti, nella zona residenziale, accatastammo la legna da ardere, e ci facemmo dei nuovi letti con pelli di serpente e lanugine. Al centro della camera costruimmo un focolare di discreta grandezza, con una pietra piatta da mettere sopra le braci per graticola. La prima notte in cui dormimmo nella nostra nuova casa, scoprii che non sentivo più il vento. Era la prima volta da che ero finito su quel dannato pianeta.
Durante le lunghe notti invernali, sedevamo vicino al fuoco facendo oggetti con le pelli di serpenti: guanti, cappelli, zaini. E parlavamo. Per rompere la monotonia, alternavamo il Drac con l’inglese. Quando venne la prima tempesta di neve, ognuno di noi se la cavava bene con la lingua dell’altro.
Parlammo del bambino di Jerry.
— Come lo chiamerai, Jerry?
— Ha già un nome. Vedi, la famiglia Jeriba ha cinque nomi. Io mi chiamo Shigan; prima di me è venuto mio padre, Gothig; prima di Gothig c’era Haesni; prima di Haesni Ty e prima di Ty Zammis. Il bambino si chiama Jeriba Zammis.
— Perché solo cinque nomi? Un bambino umano diventa adulto, può scegliere il nome che gli piace.
Il Drac mi guardò con occhi pieni di pietà. — Davidge, come devi sentirti perso. Come dovete sentirvi persi tutti voi umani.
— Persi?
Jerry annuì. — Da dove vieni, Davidge?
— Vuoi dire chi sono i miei genitori?
— Sì.
Alzai le spalle. — Li ricordo, i miei genitori.
— E i loro genitori?
— Ricordo il padre di mia madre. Quando ero piccolo andavamo a trovarlo.
— Davidge, cosa sai di questo nonno?
Mi fregai il mento. — Non ricordo bene… mi pare che si occupasse di agricoltura… non so.
— E dei suoi genitori?
Scossi la testa. — La sola cosa che ricordo è che fra i miei antenati c’erano degli Inglesi e dei Tedeschi. Gavey Inglesi e Tedeschi?
Jerry annuì. — Davidge, io potrei recitare la storia della mia famiglia a partire da uno dei colonizzatori del mio pianeta, Jeriba Ty, centonovantanove generazioni fa. Negli archivi della nostra famiglia, su Draco, ci sono le testimonianze che seguono la nostra famiglia fino al pianeta d’origine della nostra razza, Sindie, e qui indietro per parecchie generazioni fino a Jeriba Ty, il fondatore della famiglia Jeriba.
— E com’è che uno diventa un fondatore?
— Soltanto il primogenito porta avanti il nome di famiglia. I secondi, i terzi o i quarti nati devono fondare le loro famiglie.
Annuii, impressionato. — Perché solo cinque nomi! Solo per poterli ricordare facilmente?
Jerry scosse la testa. — No. Noi attribuiamo grande onore ai nomi. Sono solo cinque, e sempre gli stessi, in modo da non oscurare gli eventi che hanno contraddistinto chi li portava. Il mio nome, Shigan, è stato portato da grandi soldati, studiosi, studenti di filosofia, e molti preti. Il nome che porterà mio figlio è stato onorato da scienziati, insegnanti ed esploratori.
— Tu ricordi le attività di tutti i tuoi antenati?
Jerry annuì. — Sì, e quello che hanno fatto e dove lo fecero. Uno deve recitare i propri antenati nell’archivio di famiglia al raggiungimento dell’età adulta. Io l’ho fatto ventidue anni fa. Zammis farà lo stesso, solo che lui dovrà cominciare a recitare… — Jerry sorrise — col mio nome, Jeriba Shigan.
— Tu sai a memoria quasi duecento biografie?
— Sì.
Andai a distendermi sul mio letto. Mentre osservavo il fumo che veniva risucchiato da una fessura nel soffitto della grotta, cominciai a capire cosa intendeva Jerry quando aveva detto che dovevo sentirmi perso. Un Drac con parecchie decine di generazioni sempre davanti agli occhi sapeva chi era e a cosa doveva tener fede. — Jerry?
— Sì, Davidge?
— Me li reciteresti? — Mi voltai a guardare il Drac in tempo per vedere sul suo viso un’espressione di estrema sorpresa trasformarsi in gioia. Fu soltanto dopo molti anni che seppi di aver reso a Jerry un grande onore con quella richiesta. Fra i Drac è una manifestazione di rispetto particolare, non solo verso l’intera famiglia.
— Di fronte a voi io recito i miei antenati, io, Jeriba della famiglia Shigan, nato da Gothig, insegnante di musica. Musicista di grande merito, fra i suoi studenti si annoverano Datzizh della famiglia Nem, Perrevane della famiglia Tuscor e molti altri musicisti minori; istruito in musica alla Shimuram, Gothig si presentò agli archivi nell’anno 11.051 e parlò del suo genitore Haesni, il fabbricante di navi…
Mentre ascoltavo la recitazione cantilenante di Jerry, le biografie dei suoi antenati, che cominciavano con la morte e finivano con l’ingresso nell’età adulta, provai un senso di smarrimento temporale, come se fossi capace di toccare il passato. Battaglie, imperi costruiti e distrutti, scoperte e grandi imprese… una cavalcata attraverso duemila anni di storia, percepiti come una continuità viva e ben definita.
Facciamo il confronto: Di fronte a voi io recito i miei antenati, io, Willis dei Davidge, nato da Sybil la casalinga e da Nathan, ingegnere civile di seconda classe, nato dal nonno, il quale probabilmente aveva qualcosa a che fare con l’agricoltura, nato chissà da chi… Al diavolo, non poteva dire neanche quello: era mio fratello maggiore a portare avanti il nome della famiglia, non io.
Mentre lo ascoltavo, decisi che mi sarei fatto insegnare da Jerry la storia della sua famiglia. Parlammo della guerra.
— È stato un bel trucco quello di attirarmi nell’atmosfera per poi speronarmi.
Jerry si strinse nelle spalle. — I piloti Drac sono i migliori. Si sa.
Inarcai le sopracciglia. — È per questo che ti ho bruciato la coda, eh?
Jerry alzò le spalle, aggrottò le ciglia, e continuò a cucire pelli di serpente. — Perché i terrestri vogliono invadere questa parte della Galassia, Davidge? Abbiamo avuto migliaia di anni di pace prima del vostro arrivo.
— Ma siete stati voi ad invadere questa zona. Anche noi eravamo in pace. Che cosa ci fate qui?
— Ci stabiliamo su nuovi pianeti. È la tradizione Drac. Siamo esploratori e fondatori.
— E bravo, faccia di rospo, e noi chi ti credi che siamo? Delle donne di casa? Noi umani abbiamo scoperto la propulsione interstellare da meno di duecento anni, ma abbiamo colonizzato il doppio dei pianeti che avete colonizzato voi…
Jerry alzò un dito. — Proprio così! Voi umani vi diffondete come un’epidemia. Ne abbiamo abbastanza di voi!
— E invece siamo qui e intendiamo restarci! Sentiamo, cosa avete intenzione di fare?
— Lo vedi cosa abbiamo intenzione di fare, Irkmaan: combattiamo!
— Puah! Tu lo chiami un combattimento quella scaramuccia? Accidenti, Jerry, non farmi ridere, con quelle vostre bagnarole…
— Ah, Davidge! È per questo che te ne stai qui a masticare carne di serpente!
Tirai fuori il pezzo di carne dura che avevo in bocca e lo puntai verso Jerry. — Mi pare che anche il tuo fiato puzzi di serpente, Drac.
Jerry sbuffò e voltò le spalle al fuoco. Mi sentii uno stupido: primo, perché non potevamo risolvere noi due una contesa che funestava cento pianeti da più di un secolo. Secondo, perché volevo che Jerry controllasse la mia recitazione. Aveva mandato a memoria più di cento generazioni. Il Drac si era messo di sbieco rispetto al fuoco, e la luce era sufficiente per mostrare che stava cucendo qualcosa.
— Jerry, cosa stai facendo?
— Non ho niente da dirti, Davidge.
— Su, non fare così. Dimmi cos’è.
Jerry voltò la testa per guardarmi, poi prese un vestitino di pelle di serpente. — Per Zammis. — Jerry sorrise. Io scossi la testa e mi misi a ridere.
Parlammo di filosofia.
— Tu hai studiato Shizumaat, Jerry; perché non mi dici qualcosa dei suoi insegnamenti?
Jerry aggrottò le ciglia. — No, Davidge.
— Perché? È un segreto, o qualcosa del genere?
Jerry scosse la testa. — No, ma lo onoriamo troppo per parlarne. Mi fregai il mento. — Vuoi dire per parlarne in generale, o per parlarne con un umano?
— Non con gli umani, Davidge. Con te.
— Perché?
Jerry sollevò la testa e strinse gli occhi. — Non ti ricordi più quello che mi hai detto, sull’isola?
Mi grattai la testa. Mi ricordo vagamente di aver detto qualcosa sulle abitudini culinarie di Shizumaat. Spalancai le braccia. — Ma Jerry, ero infuriato. Non puoi ritenermi responsabile per quello che ho detto.
— E invece sì.
— Cambierebbe qualcosa se mi scusassi?
— No.
Mi trattenni dal dire qualcosa di offensivo, e ripensai a quel giorno, in cui io e Jerry eravamo pronti a farci la pelle a vicenda. Mi ricordai di un particolare, e dovetti fare uno sforzo per non sorridere. — Mi spiegherai gli insegnamenti di Shizumaat, se io ti perdono… per quello che hai detto di Topolino? — Chinai la testa fingendo reverenza, ma in realtà per non farmi vedere a ridere.
Jerry mi guardò con aria contrita. — Mi sono sempre sentito in colpa per quella cosa, Davidge. Se mi perdoni, ti parlerò di Shizumaat.
— Ti perdono, Jerry.
— Un’altra cosa.
— Cosa?
— Tu devi spiegarmi gli insegnamenti di Topolino.
— Sì,… cercherò di fare del mio meglio.
Parlammo di Zammis.
— Jerry, cosa vuoi che faccia da grande?
Il Drac alzò le spalle. — Zammis deve fare onore al nome che porta. È il massimo che posso chiedere.
— Zammis sceglierà quello che vorrà?
— Sì.
— Ma c’è qualcosa che ti piacerebbe che facesse?
Jerry annuì. — Sì, c’è.
— E cos’è?
— Che un giorno o l’altro se ne andasse da questo schifoso pianeta.
Annuii. — Amen.
— Amen.
L’inverno non accennava a finire. Io e Jerry cominciammo a chiederci se per caso non eravamo capitati all’inizio di un’era glaciale. Fuori dalla caverna, tutto era coperto da uno spesso strato di ghiaccio; il freddo e il vento ininterrotto rendevano l’avventurarsi fuori una sfida alla morte, per caduta o per congelamento. Tuttavia, per mutuo accordo, uscivano entrambi per fare i nostri bisogni. C’erano parecchie camere isolate nella profondità della caverna, ma avevamo paura di inquinare la nostra riserva d’acqua; per non parlare dell’aria. Il rischio più grave uscendo, era quello di calarsi le braghe mentre soffiava un vento talmente gelido da gelarci il fiato prima che potessimo soffiarlo fuori dalla maschera che c’eravamo fabbricati con la tela delle nostre tute. Imparammo a non perdere tempo.
Una mattina, Jerry era fuori per un bisogno urgente, mentre io preparavo una pasta di radici secche e di acqua per fare delle frittelle. Sentii Jerry chiamarmi dall’entrata. — Davidge!
— Cosa c’è?
— Vieni subito, Davidge!
Una nave! Doveva essere una nave! Appoggiai sulla sabbia la conchiglia che mi serviva da recipiente, mi infilai guanti e cappello, e corsi verso il passaggio. Prima di uscire mi allacciai sulla bocca la maschera. Jerry, bardato come me, era sulla soglia. — Cosa succede?
Jerry si fece da parte. — Guarda!
La luce del sole. Il cielo azzurro e la luce del sole. Lontano, sul mare, si stavano accumulando nuove nuvole, ma sopra di noi il cielo era sereno. Non potevamo guardare direttamente il sole, ma voltammo le facce ai suoi raggi e li sentimmo scaldarci la pelle. La luce si rifletteva abbagliante sulle rocce e sugli alberi coperti di ghiaccio. — È meraviglioso.
— Sì. — Jerry mi prese per la manica. — Davidge, sai cosa vuol dire?
— Cosa?
— Possiamo fare dei segnali di fuoco, la notte. In una notte serena un grosso fuoco potrebbe essere avvistato dallo spazio, ne?
Guardai Jerry, poi ancora il cielo. — Non saprei. Se il fuoco fosse grande abbastanza, e la notte serena, e se qualcuno guardasse da questa Parte… — Crollai la testa. — Sempre supponendo che ci sia qualcuno in orbita. — Cominciai a sentirmi le dita intirizzite. — È meglio che rientriamo.
— Davidge, è una possibilità!
— E cosa useremo per fare il fuoco? — Indicai con il braccio gli alberi attorno e sopra la caverna. — Hanno sopra almeno quindici centimetri di ghiaccio.
— Nella caverna…
— La nostra legna? — scossi la testa. — Che ne sappiamo di quanto durerà ancora questo inverno? Sei sicuro che possiamo sprecare legname?
— È una possibilità, Davidge!
Più che una possibilità, era un rischio. Alzai le spalle. — Perché no?
Passammo le ore seguenti a trasportare fuori un quarto delle nostre preziose riserve. Quando finimmo, e molto prima che arrivasse la notte, sul cielo era tornata a stendersi una cortina di nubi, grigia e uniforme. Ogni notte, da allora, a più riprese, scrutammo il cielo sperando di vedere le stelle. Durante il giorno, dovevamo passare parecchie ore a battere sulla pila di legna per liberarla dal ghiaccio. Ma ci dava speranza. Finché, un giorno, la legna nella caverna finì, e dovemmo cominciare a prelevarla dal mucchio preparato per il segnale.
Quella notte, per la prima volta, il Drac sembrò completamente sconfitto. Sedeva di fronte al fuoco, fissando le fiamme. Infilò una mano sotto la giacca di pelle, e tirò fuori un piccolo cubo d’oro appeso al collo con una catena. Strinse il tubo fra le mani, chiuse gli occhi, e cominciò a mormorare sotto voce in drac. Lo osservai dal mio letto finché non ebbe finito. Il Drac sospirò, fece un cenno col capo e si rimise il cubo sotto la giacca.
— Che cos’è?
Jerry mi guardò, aggrottò le ciglia e si toccò il davanti della giacca. — Questo? È il mio Talman… quello che voi chiamate Bibbia.
— La Bibbia è un libro. Con delle pagine, che si leggono.
Jerry tirò fuori il cubo, mormorò una frase in drac, poi aprì una piccola serratura. Dal primo cubo ne uscì un altro, pure d’oro. Il Drac me lo porse. — Trattalo con grande cura, Davidge.
Mi alzai a sedere, presi il cubo e lo esaminai alla luce del fuoco. Tre quadrati di metallo dorato, con delle cerniere, formavano le copertine e la costa di un libro grande due centimetri e mezzo. Aprii il libro. Sulle pagine c’erano due colonne di punti, di linee e di scarabocchi. — È drac?
— Certo.
— Non so leggerlo.
Jerry alzò le sopracciglia. — Parli il drac così bene, che mi ero dimenticato… vuoi che ti insegni?
— A leggere questo?
— E perché no? Hai un appuntamento urgente?
— No. — Appoggiai un dito al bordo e cercai di girare le pagine. Ne sollevai almeno cinquanta insieme. — Non riesco a separare le pagine.
Jerry indicò un piccolo rigonfiamento alla sommità della costa. — Tira fuori l’ago. Serve a girare le pagine.
Tirai fuori un ago, lo appoggiai sulla pagine e questa si sollevò e girò. — Chi ha scritto il Talman, Jerry?
— Molti. Tutti grandi maestri.
— Shizumaat?
Jerry annuì. — Shizumaat è uno.
Chiusi il libro e lo tenni sul palmo della mano. — Jerry, perché l’hai tirato fuori adesso?
— Ne avevo bisogno. — Il Drac spalancò le braccia. — Forse invecchieremo e moriremo in questo posto. Forse non ci troveranno mai. L’ho capito oggi, mentre portavamo dentro la legna. — Jerry si mise una mano sulla pancia. — Zammis nascerà qui. Il Talman mi aiuta ad accettare ciò che non posso mutare.
— Quanto manca?
Jerry sorrise. — Poco.
Guardai il piccolo libro. — Mi piacerebbe che mi insegnassi a leggerlo, Jerry.
Il Drac si levò dal collo la scatola con la catena e me la porse. — Devi tenere il Talman qui dentro.
Presi la scatola d’oro e la guardai per un momento. Poi scossi la testa. — Non posso, Jerry. È troppo importante per te. E se lo perdessi?
— Non lo perderai. Tienilo mentre impari. Lo scolaro deve fare così.
Mi misi la catenella intorno al collo. — Mi fai un grande onore.
— Sempre meno di quello che tu fai a me imparando a memoria l’albero genealogico Jeriba. La tua recitazione è precisa e commovente. — Jerry prese dei carboni dal fuoco e andò a una delle pareti. Quella notte imparai le trentun lettere dell’alfabeto Drac, e altre nove lettere nella scrittura formale.
La legna finì. Jerry era molto grosso, e stava molto male, nei giorni che precedettero l’apparizione di Zammis. Riusciva a stento ad uscire, con il mio aiuto, per i suoi bisogni. Così la raccolta della legna, che consisteva nel prendere a bastonate gli alberi per liberarli dal ghiaccio, ricadde su di me, come pure il far da mangiare.
In una giornata particolarmente tempestosa, mi accorsi che il ghiaccio sugli alberi era più sottile. Da qualche parte, dovevamo aver girato l’angolo dell’inverno, e ci stavamo dirigendo verso la primavera. Durante tutta la bastonatura dell’albero mi sentii meglio, e immaginavo che anche Jerry avrebbe accolto con gioia la notizia. L’inverno lo stava abbattendo molto.
Stavo trasportando una bracciata di legna nella caverna, quando udii un grido. Mi guardai intorno, raggelato. Non vedevo altro che il mare e il ghiaccio intorno a me. Poi ancora il grido. — Davidge! — Era Jerry. Lasciai cadere la legna e corsi lungo il sentiero che scendeva verso la caverna. Jerry urlò ancora; io scivolai e rotolai fino alla cornice su cui si apriva l’ingresso della caverna. Mi precipitai dentro, e raggiunsi la camera. Jerry si contorceva sul letto, con le dita che scavavano nella sabbia.
Mi inginocchiai vicino al Drac. — Sono qui, Jerry. Cosa c’è? Stai male?
— Davidge! — Il Drac roteò gli occhi senza vedere niente. Boccheggiò, poi la voce gli esplose in un grido.
— Jerry! Sono io. — Lo scossi per la spalla. — Sono io, Jerry! Davidge!
Jerry voltò la testa dalla mia parte, fece una smorfia, poi mi afferrò per il polso con la forza del dolore. — Davidge… Zammis… qualcosa non va!
— Cosa? Cosa posso fare?
Jerry gridò ancora, poi la testa gli ricadde sul letto. Il Drac si riprese e mi tirò la testa vicino alle labbra. — Davidge, devi giurare.
— Cosa devo giurare, Jerry?
— Zammis… su Draco. Di presentarti agli archivi di famiglia. Fallo.
— Cosa dici? Parli come se dovessi morire.
— Sto morendo, Davidge. Zammis è la duecentesima generazione… molto importante. Presenta mio figlio, Davidge! Giuralo!
Mi asciugai la faccia dal sudore con la mano libera. — Non morirai, Jerry. Forza!
— Basta! Guarda in faccia la realtà, Davidge! Sto morendo! Tu devi insegnare la genealogia Jeriba a Zammis… e il libro, il Talmen, gavey?
— Smettila! — Il panico mi stava addosso quasi come una presenza fisica. — Smettila di parlare così. Non morirai, Jerry. Forza, combatti, kizlode, bastardo…
Jerry urlò. Respirava debolmente, e stava perdendo conoscenza. — Davidge…
— Come? — Mi resi conto che singhiozzavo come un bambino.
— Davidge, devi aiutare Zammis a uscire.
— Cosa… come? Cosa diavolo stai dicendo?
Jerry voltò la faccia verso la parete. — Sollevami la giacca.
— Cosa?
— Sollevami la giacca, Davidge.
Sollevai la giacca di pelle, scoprendogli la pancia gonfia. La piega che aveva in mezzo era rosso vivo, e ne usciva un liquido chiaro. — Cosa… cosa devo fare?
Jerry respirò rapidamente, poi trattenne il fiato. — Aprila. Devi aprirla, Davidge!
— No!
— Fallo, o Zammis muore!
— E che mi importa del tuo maledetto bambino, Jerry. Cosa devo fare per salvare te?
— Aprila… — mormorò il Drac. — Prenditi cura del mio bambino, Irkmaan. Presenta Zammis agli archivi Jeriba. Giuramelo.
— Oh, Jerry…
— Giuralo!
Annuii, mentre grosse lacrime calde mi rotolavano giù dalle guancie. — Lo giuro… — Jerry mi lasciò andare il polso e chiuse gli occhi. Mi chinai sul Drac, come instupidito. No. No, no!
Aprila! Devi aprirla, Davidge!
Allungai una mano e toccai la piega sulla pancia di Jerry. Sentii la vita, lì sotto, che lottava per uscire dalla prigione senza aria del ventre. La odiai; odiai quella dannata cosa più di quanto avessi mai odiato in vita mia. I suoi sforzi si fecero più deboli, poi cessarono.
Presenta Zammis agli archivi Jeriba. Giuramelo…
Lo giuro…
Allungai l’altra mano, infilai i pollici nella piega e tirai leggermente. Tirai con più forza, poi strappai la pancia di Jerry furiosamente. Dalla piega uscì un fiotto di liquido chiaro, che mi inzuppò la giacca. Potevo vedere la forma di Zammis, immersa nel liquido, immobile.
Vomitai. Quando non mi restò più niente nello stomaco, infilai le mani nella pancia e tirai su il bambino. Mi pulii la bocca sulla spalla e l’appoggiai su quella di Zammis, tenendogli aperte le labbra con le dita di una mano. Gli respirai nei polmoni più volte. Lui tossi. Poi pianse. Legai i due cordoni ombelicali con delle fibre, poi li tagliai. Zammis era libero dalla carne morta del suo genitore.
Sollevai la pietra sulla testa, poi la calai con tutte le mie forze. Frammenti di ghiaccio volarono da tutte le parti, mettendo a nudo la terra scura. Sollevai di nuovo la pietra, la calai, e liberai così un’altra pietra. La presi e la portai sul corpo mezzo sotterrato del Drac. — Il Drac — mormorai. Bene. Chiamalo Drac. Chiamalo faccia di rospo.
Il nemico. Chiamalo in qualunque modo, basta non risvegliare il dolore.
Guardai la pila di rocce che avevo raccolto, e decisi che erano abbastanza. Mi inginocchiai vicino alla fossa. Mentre ammucchiavo le pietre, incurante del nevischio che mi si gelava sulla giacca, dovetti lottare contro le lacrime. Battei le mani l’una contro l’altra, per riattivare la circolazione. La primavera stava arrivando, ma era ancora pericoloso restare troppo all’aperto. E ci avevo messo un bel po’ per scavare la tomba al Drac. Presi un’altra pietra e la misi a posto.
Mentre l’appoggiavo sulla coperta di pelle, mi accorsi che il Drac era già gelato. Sistemai in fretta le ultime pietre e mi alzai.
Il vento mi fece barcollare, e per poco non scivolai sul ghiaccio. Guardai verso il mare in tempesta, mi strinsi intorno al corpo la giacca, poi guardai la pila di rocce. Dovrei dire qualcosa. Non si sotterra uno, e poi si va a mangiare come se niente fosse. Dovrei dire qualcosa. Ma cosa? Non ero religioso, e neppure il Drac lo era stato. La sua filosofia, riguardo alla morte, si accordava con il mio ripudio informale delle delizie islamiche, del Valhalla pagano e del paradiso giudeo-cristiano. La morte è la morte; finis. Buoni per i vermi… Eppure, dovrei dire qualcosa.
Infilai una mano sotto la giacca e strinsi il cubo d’oro del Talman. Sentii gli spigoli attraverso i guanti; chiusi gli occhi e ripensai alle parole dei grandi filosofi Drac. Ma non c’era niente fra quello che avevano scritto di adatto a un momento come questo.
Il Talman era un libro sulla vita. Talma significa vita, e di questo si occupa la filosofia Drac. La morte non li interessa. La morte è un fatto: la fine della vita. Il Talman non aveva parole da suggerirmi. Il vento mi sferzava, facendomi rabbrividire. Già cominciavo a non sentirmi più le dita, e i piedi mi facevano male. Eppure dovevo dire qualcosa. Ma le sole parole a cui potevo pensare avrebbero aperto i cancelli del dolore, della consapevolezza che il Drac se n’era andato. Eppure… eppure dovrei dire qualcosa.
— Jerry, io… — Non avevo parole. Voltai le spalle alla tomba, con le lacrime che si mescolavano al nevischio.
Nel calore e nel silenzio della caverna mi sedetti sul materasso, appoggiando la schiena alla parete. Cercai di perdermi fra le luci e le ombre che il fuoco gettava sulla parete di fronte. Delle immagini si formavano, poi svanivano prima che la mia mente potesse vederci qualcosa. Quand’ero bambino avevo l’abitudine di guardare le nuvole, scoprendo in esse facce, castelli, animali, draghi e giganti. Era un mondo irreale, qualcosa che aggiungeva un po’ di meraviglia e di avventura nel mondo banale di un ragazzo della classe media. Tutto quello che riuscivo a vedere sulla parete della caverna erano immagini dell’inferno: fiamme che consumavano grottesche rappresentazioni di anime dannate. Mi misi a ridere, pensandoci. Si pensa all’inferno come a un luogo infuocato, con a capo un sadico ghignante vestito di rosso. Fyrine IV mi aveva insegnato questo: che l’inferno è solitudine, fame, e freddo senza fine.
Sentii un lamento, e scrutai nel buio, verso il piccolo materasso in fondo alla caverna, quello che Jerry aveva preparato per Zammis. Si lamentò ancora. Forse voleva qualcosa. Ebbi un momento di panico. Cosa mangia un neonato Drac? I Drac non sono mammiferi. Durante l’addestramento, tutto quello che ci avevano insegnato era come riconoscere i Drac… e come ammazzarli. Cominciavo ad avere paura. — Cosa diavolo uso per pannolini?
Un altro lamento. Mi misi in piedi, e andai al suo fianco. Mi inginocchiai. Da un fagotto costituito dalla vecchia tuta di Jerry, spuntavano due braccine tozze, con tre dita. Presi il fagotto, lo portai vicino al fuoco e mi sedetti su una roccia, tenendolo in grembo. Lo aprii cautamente. Gli occhi di Zammis brillavano, gialli sotto le sopracciglia gialle, pesanti di sonno. Dalla faccia, quasi senza naso, ai denti, al colore, Zammis era in tutto e per tutto una miniatura di Jerry, tranne che per il grasso. Zammis nuotava letteralmente nel grasso. Lo girai e vidi con sollievo che non si era sporcato.
Lo guardai in faccia. — Vuoi qualcosa da mangiare?
— Guh.
Le mascelle erano pronte, e ne dedussi che i Drac mangiavano cibi solidi fin dal primo giorno di vita. Presi un pezzo di carne di serpente e le appoggiai alle labbra del bambino. Zammis girò la testa. — Su, mangia. Non troverai niente di meglio, qui.
Gli infilai di nuovo la carne fra le labbra. Zammis allungò un braccio e lo spinse via. Alzai le spalle. — Be’, si vede che non hai ancora fame abbastanza.
— Guh meh! — Agitò la testa, e con la manina mi strinse un dito, lamentandosi.
— Non vuoi mangiare, non devi essere pulito, e allora cosa vuoi? Kos va nu?
Zammis fece una smorfia e mi tirò il dito. Con l’altra mano annaspò verso il mio petto. Lo presi in braccio per sistemare la tuta, e lui mi afferrò con le mani la giacca e si tirò contro di me. Lo tenni stretto, e lui mi appoggiò la guancia sul petto. Dopo un attimo, si era addormentato. — Be’…che mi venga…
Prima della scomparsa di Jerry, non mi ero mai reso conto di quanto fossi vicino alla pazzia. La mia solitudine era come un cancro, che io nutrivo di odio: odio per il pianeta, col suo freddo che non finiva mai, i venti che non finivano mai, quell’isolamento che non finiva mai; odio Per quel bambino giallo, con il suo disperato bisogno di cure, di cibo, di un affetto che non gli potevo dare. E odiavo me stesso. Mi scoprivo a fare cose che mi spaventavano e mi disgustavano. Per rompere il muro soffocante della solitudine, parlavo, gridavo, cantavo; lanciavo maledizioni e frasi senza senso, o grugniti.
Aveva gli occhi aperti. Agitò le braccia e fece dei versi. Presi una grossa pietra, gli andai vicino e la tenni sospesa su di lui. — Se la lasciassi cadere, dove andresti a finire tu? — Mi sentii in gola una risata, e gettai via la pietra. — E perché dovrei sporcare la caverna? Fuori. Basta che ti metta fuori un minuto e moriresti. Hai capito? Moriresti!
Lui agitò le mani nell’aria, chiuse gli occhi e scoppiò a piangere. — Perché non mangi? Perché non fai la cacca? Sai solo piangere? — Lui si mise a piangere ancora più forte. — Bah! Dovrei prendere quella pietra e farla finita. Ecco cosa dovrei fare… — Mi interruppi, con un senso di repulsione. Andai al mio materasso, presi guanti e cappello, e mi preparai a uscire.
Sentii il vento ancora prima di arrivare all’entrata della caverna. Una volta fuori, mi fermai e guardai il cielo e il mare: un panorama di neri, di bianchi, di grigi e di grigi. Una folata di vento mi fece barcollare e mi rigettò verso l’ingresso. Ripresi l’equilibrio, andai fino all’orlo del dirupo e scossi il pugno verso il mare. — Avanti, soffia! Soffia, kizlode figlio di puttana! Non mi hai ancora ammazzato!
Serrai gli occhi, arrossati dal vento, poi li riaprii e guardai in basso. C’erano quaranta metri fino alla cornice inferiore, ma se prendevo la rincorsa e saltavo, poteva superarla. Scossi la testa, rivolto al mare. — Non ho intenzione di farti un favore! Se mi vuoi morto, dovrai farlo con le tue mani.
Mi guardai alle spalle, sopra la caverna. Il cielo si stava oscurando, e fra poche ore la notte sarebbe calata. Presi il sentiero che conduceva ai bosco.
Mi accucciai vicino alla tomba del Drac e studiai le rocce che avevo accumulato, già fuse assieme da uno strato di ghiaccio. — Jerry, cosa devo fare?
Il Drac sedeva vicino al fuoco. Eravamo tutt’e due intenti a cucire.
— Sai, Jerry — dissi sollevando il Talman. — Queste robe le ho già sentite. Mi aspettavo qualcosa di nuovo.
Il Drac mise giù il lavoro e mi osservò per un momento. Poi scosse la testa e riprese a cucire. — Non sei una creatura molto profonda, Davidge.
— Cosa vorresti dire?
Jerry sollevò una mano. — Davidge, qui fuori c’è un universo, un universo di vita, di oggetti, di avvenimenti. Ci sono differenze, ma è tutto contenuto nello stesso universo, e tutti noi dobbiamo obbedire alle stesse leggi universali. Ci avevi mai pensato?
— No.
— È appunto questo che volevo dire, Davidge. Non sei molto profondo.
Sbuffai. — Ti ho detto che le ho già sentite queste cose. Questo vuol dire che gli umani sono profondi quanto i Drac.
Jerry rise. — Insisti sempre nell’intendere le mie affermazioni in maniera razzista. Quello che ho detto si applica a te, non alla razza umana…
Sputai sul terreno gelato. — Voi Drac credete di essere molto furbi. — Il vento rinforzò, e sentii il sapore della salsedine. Stava arrivando una tempesta. Il cielo aveva assunto quella curiosa sfumatura che mi ricordava il blu della mezzanotte, piuttosto che il nero. Un pezzettino di ghiaccio mi si infilò sotto il colletto.
— Che c’è di male se sono quello che sono? Non c’è mica bisogno che tutti quanti nell’universo facciano i filosofi, faccia di rospo! — C’erano milioni, miliardi di esseri come me. Forse di più. — Che differenza fa se medito sull’esistenza oppure no? Esisto, e tanto mi basta.
— Davidge, tu non conosci neppure i tuoi ascendenti al di là dei tuoi genitori, e adesso dici che ti rifiuti di conoscere quello che puoi sull’universo. Come potrai sapere qual è il tuo posto nell’esistenza, Davidge? Dove sei? Chi sei?
Scossi la testa, guardando la tomba, poi mi voltai verso il mare. Fra un’ora o anche meno, sarebbe stato troppo buio per vedere le creste delle onde. — Io sono io, ecco chi sono. — Ma ero io quello che aveva minacciato Zammis con la pietra, un bambino indifeso? Mi sentii gelare le viscere. Era come se la solitudine avesse messo artigli e zanne, e stesse dilaniando le poche parti ancora sane della mia mente. Voltai le spalle alla tomba, chiusi gli occhi, poi li riaprii. Sono un pilota di caccia, Jerry. Non è abbastanza?
Questo è quello che fai, Davidge; non quello che sei.
Mi inginocchiai vicino alla tomba e strinsi fra le mani le pietre coperte di ghiaccio. — Sta’ zitto, Drac! Sei morto! — Mi fermai, rendendomi conto che le parole che avevo sentito erano tratte dal Talman, e adattate alla mia situazione. Mi accasciai sulle rocce, poi, sotto la sferza del vento, mi rialzai. — Jerry, Zammis non vuol mangiare. Sono tre giorni ormai. Cosa devo fare? Perché non mi hai detto niente sui neonati Drac prima di… — Mi coprii la faccia con le mani. — Calma, ragazzo. Fatti forza, e tutto andrà bene. — Il vento mi soffiava contro la schiena. Abbassai le mani e tornai alla caverna. Alla fine lo scoprii all’imboccatura della caverna, che puntava dritto di fuori. Ne avevo abbastanza. Fabbricai una bardatura di pelli di serpente, con un guinzaglio dello stesso materiale che legai a una sporgenza della roccia. Zammis continuava a ficcarsi dappertutto, ma almeno sapevo dove trovarlo.
Quattro giorni dopo aver imparato a camminare, volle mangiare. I piccoli Drac sono probabilmente i bambini più discreti e comodi dell’universo. Vivono del proprio grasso per circa tre o quattro settimane terrestri, e per tutto quel tempo non sporcano. Dopo che hanno imparato a camminare, e possono quindi arrivare a un posto adatto ai loro bisogni, allora vogliono il cibo. Mostrai una volta a Zammis la cassettina che avevo preparato per lui, e non dovetti più farlo. Dopo cinque o sei lezioni, Zammis era capace di pulirsi da solo. Osservando il piccolo Drac che cresceva, cominciai a capire quei piloti della mia squadra che mostravano a tutti quelli che capitavano loro a tiro innumerevoli fotografie di brutti bambini, accompagnate ognuna da una spiegazione di mezz’ora. Prima che il ghiaccio si sciogliesse, Zammis aveva cominciato a parlare. Gli insegnai a chiamarmi zio.
In mancanza di un termine migliore, chiamai primavera la stagione in cui il ghiaccio si scioglieva. Ma ci sarebbe voluto ancora molto tempo prima che gli alberi mostrassero del verde, e che i serpenti si avventurassero fuori dalle loro tane. Il cielo continuava a essere coperto da una cortina di nubi scure e minacciose, ogni tanto nevicava, e la neve di notte si trasformava in ghiaccio. Ma il giorno dopo, il ghiaccio si scioglieva, e il calore dell’aria penetrava per un altro millimetro nel suolo.
Mi resi conto che era ora di cominciare a raccogliere la legna. Io e Jerry, lavorando assieme, non ne avevamo raccolta abbastanza, l’anno prima. La breve estate avrei dovuto passarla a mettere da parte il cibo. Speravo di costruire una porta vera e propria all’ingresso della caverna, e mi ripromisi di escogitare un sistema per liberarci dai nostri rifiuti senza dover uscire. Fare i propri bisogni all’aperto, nel mezzo dell’inverno, poteva essere pericoloso. La mia mente era piena di progetti, mentre mi stendevo sul materasso, osservando il fumo che saliva attraverso la fessura del soffitto. Zammis era sul retro della caverna, a giocare con delle pietre. Mi addormentai, e venni svegliato dal piccolo che mi tirava per un braccio.
— Zio?
— Eh?
— Zio, guarda.
Mi voltai su un fianco. Zammis teneva una mano alzata, con le dita aperte. — Cosa c’è, Zammis?
— Guarda. — Si toccò a una a una le dita. — Uno, due, tre.
— E allora?
— Guarda. — Mi prese la mano e mi fece allargare le dita. — Uno, due, tre, quattro, cinque!
Annuii. — Bravo, sai contare fino a cinque.
Il Drac aggrottò le ciglia e fece un gesto di impazienza con i piccoli pugni. — Guarda. — Mi prese la mano e vi mise sopra la sua. Con l’altra, indicò prima una delle sue dita, poi una delle mie. — Uno, uno. — I suoi occhi gialli mi fissarono per vedere se capivo.
— Sì.
Il bambino indicò ancora. — Due, due. — Mi guardò, poi tornò a indicare sulla mano. — Tre, tre. — Afferrò le due dita che mi rimanevano. — Quattro, cinque! — Lasciò cadere la mia mano, e indicò il fianco della sua. — Quattro cinque?
Scossi la testa. Zammis, a meno di quattro mesi, aveva individuato una delle differenze fra i Drac e gli uomini. Un bambino umano ci avrebbe messe cinque, sei, forse sette anni prima di cominciare a fare domande del genere. Sospirai. — Zammis.
— Sì, zio?
— Zammis, tu sei un Drac. I Drac hanno solo tre dita per mano. — Alzai la mano e mossi le dita. — Io sono umano, e ne ho cinque.
Giuro che mi sembrò di vedere i suoi occhi riempirsi di lacrime. Alzò le mani, le guardò, poi scosse la testa. — Crescono quattro e cinque?
Mi alzai e fissai il bambino. — Vedi, Zammis, io e te siamo diversi… esseri di tipo diverso, capisci?
Zammis scosse la testa. — Crescono quattro e cinque?
— No. Tu sei un Drac. — Mi puntai un dito contro il petto. — Io sono un uomo. — In quel modo non sarei approdato a molto. — Il tuo genitore, quello da cui sei nato, era un Drac, capisci?
Zammis aggrottò le ciglia. — Quale Drac?
Sentii la tentazione di ricorrere al vecchio espediente di dire: Capirai quando sarai più grande. Scossi la testa. — I Drac hanno tre dita per mano. Il tuo genitore aveva tre dita per mano. — Mi fregai la barba. — Il mio genitore era un uomo e aveva cinque dita per mano. Ecco perché io ho cinque dita.
Zammis si inginocchiò sulla sabbia e si studiò le dita. Mi guardò, poi si guardò le dita, poi mi guardò ancora. — Quale genitore?
Mi resi conto che Zammis doveva avere una specie di crisi di identità. Io ero la sola persona che avesse mai conosciuto, e avevo cinque dita per mano. — Un genitore è… quello che… — Mi grattai ancora una volta la barba. — Senti, noi tutti veniamo da qualche parte. Io avevo una madre e un padre… sono due tipi diversi di umani… che mi hanno dato la vita; mi hanno fatto, capisci?
Zammis mi diede un’occhiata che sembrava voler dire: Questo ha qualche rotella fuori posto. Alzai le spalle. — È difficile da spiegare.
Zammis si indicò il petto. — Mio padre? Mia madre?
Allargai le braccia, me le misi in grembo, mi morsicchiai le labbra, mi grattai la barba, insomma, cercai di prendere tempo. Zammis non mi staccò un attimo gli occhi di dosso. — Senti, Zammis, tu non hai un padre e una madre. Io sono un uomo e ce li ho. Tu sei un Drac e hai un solo genitore… capito?
Zammis scosse la testa. Mi guardò, poi si indicò il petto. — Drac.
— Giusto.
Zammis indicò me. — Umano.
— Bravo.
Zammis abbassò la mano. — Da dove vengono i Drac?
Buon Dio! Adesso mi toccava spiegare la riproduzione ermafroditica a un bambino di quattro mesi! — Zammis… — Alzai le braccia, poi le lasciai cadere. — Senti, lo vedi che io sono molto più grande di te?
— Sì, zio.
— Bene. — Mi passai le dita fra i capelli, cercando di guadagnare tempo e di trovare l’ispirazione. — Il tuo genitore era grande, come me. Si chiamava… Jeriba Shigan. — Era strano come fosse doloroso solo pronunciare quel nome. — Jeriba Shigan era come te. Aveva solo tre dita per mano. Tu sei cresciuto nella pancia. — Gli battei col dito sulla pancia. — Capito?
Zammis rise, tenendosi lo stomaco. — Zio, come crescono qui i Drac?
Rimisi le gambe sul materasso e mi distesi. Come nascono i piccoli Drac? Guardai il piccolo, e vidi che pendeva dalle mie labbra. Feci una smorfia e gli dissi la verità. — Che mi venga un accidente se lo so. — Trenta secondi dopo, Zammis era tornato a giocare con le sue pietre.
Per l’estate, avevo insegnato a Zammis come catturare i lunghi serpenti grigi, e come affumicare la carne. Si sedeva ai bordi di una pozza di fango, con gli occhi gialli fissi sui buchi nel terreno, aspettando che uno degli occupanti delle tane mettesse fuori la testa. Il vento poteva soffiare, ma Zammis non si muoveva. Poi appariva una testa piatta, triangolare, con gli occhietti blu. Il serpente controllava la pozza, si girava, controllava la riva, poi il cielo. Usciva ancora un po’ dal buco, e ricontrollava da capo. Spesso il serpente fissava Zammis direttamente negli occhi, ma il Drac pareva scolpito nella pietra. Zammis non si muoveva finché il serpente non era uscito tanto da non poter rientrare per la coda. Allora con una mossa fulminea lo afferrava con tutt’e due le mani appena sotto la testa. I serpenti non avevano denti, e non erano velenosi, ma erano così grossi e vigorosi che Zammis certe volte finiva nella pozza di fango.
Le pelli venivano poi stese a seccare sui tronchi d’albero, messi in uno spiazzo vicino all’entrata della caverna, sotto una sporgenza al riparo dai venti marini. Circa due terzi delle pelli si conservavano; le altre marcivano.
Vicino alla conceria, c’era la camera per affumicare la carne: una caverna a cui appendevamo i pezzi di carne; poi, in un pozzo scavato nel pavimento, accendevamo un fuoco di rami verdi e chiudevamo l’ingresso con pietre e fango.
— Zio, perché la carne non va a male dopo essere stata affumicata? Ci pensai su. — Non so bene, però so che si conserva.
— Com’è che lo sai?
Alzai le spalle. — Lo so e basta. Forse l’ho letto da qualche parte.
— Cos’è letto?
— Leggere. Come quando mi siedo e leggo il Talman.
— Il Talman dice perché la carne non va a male?
— No. Volevo dire che devo averlo letto su qualche altro libro.
— Noi abbiamo altri libri?
Scossi la testa. — Volevo dire, prima di venire su questo pianeta.
— Perché sei venuto su questo pianeta?
— Te l’ho già detto. Il tuo genitore ed io siamo naufragati qui durante una battaglia.
— Perché gli uomini e i Drac combattono?
— È una faccenda complicata. — Feci dei gesti vaghi con le mani. La tesi umana era che i Drac avevano invaso il nostro spazio. La tesi dei Drac era che gli umani avevano invaso il loro spazio. La verità? — Vedi, Zammis, è tutto per avere nuovi pianeti da colonizzare. Tutt’e due le razze stanno espandendosi, e tutt’e due hanno la tradizione di colonizzare. Immagino che abbiamo colonizzato a vicenda lo spazio degli altri. Capito?
Zammis annuì, poi per fortuna non chiese altro, immerso nei propri pensieri. La cosa che soprattutto imparai da lui, era che c’erano moltissime domande per cui non avevo risposta. Però mi sentivo soddisfatto per aver spiegato a Zammis la guerra, superando in questo modo l’ostacolo della carne affumicata. — Zio?
— Sì, Zammis?
— Cos’è un pianeta?
Quando l’estate fredda e umida finì, avevamo la caverna piena di legna e cibo. Risolta questa questione, mi concentrai sul problema di costruire dei servizi igenici interni, utilizzando le pozze d’acqua in fondo alla caverna. La vasca da bagno non era un problema. Lasciando cadere delle pietre scaldate sul fuoco in una pozza, l’acqua si scaldava fino a una temperatura sopportabile, perfino gradevole. Dopo aver fatto il bagno, l’acqua sporca poteva essere estratta per mezzo di un sifone fatto di canne simili a bambù. La vasca a questo punto poteva essere riempita di nuovo usando la pozza superiore. Il problema era quello di dover scaricare l’acqua. Parecchie delle camere avevano dei buchi nel pavimento. I primi tre che provammo scaricavano nella camera principale, e l’acqua finiva in una depressione vicino all’entrata. L’inverno prima, io e Jerry avevamo pensato di utilizzare uno dei buchi come water, ma dal momento che non sapevamo dove sarebbero finiti i rifiuti, avevamo lasciato perdere.
Il quarto buco che io e Zammis provammo, scaricava sotto l’entrata della caverna, sulla parete di roccia. Non era l’ideale, ma sempre meglio che soddisfare i bisogni naturali nel bel mezzo di una tempesta di neve. Attrezzammo il buco come scarico per la vasca da bagno e il water.
Dopo aver scaldato l’acqua per il nostro primo bagno, mi tolsi l’abito di pelli, provai l’acqua col piede ed entrai. — Fantastico! — Mi voltai verso Zammis, che era ancora mezzo vestito. — Vieni, Zammis, l’acqua è perfetta. — Zammis mi fissava con la bocca aperta. — Che c’è?
Il bambino indicò con la mano. — Zio… che cos’è quello?
Abbassai lo sguardo. — Oh. — Scossi la testa, e guardai il piccolo Drac. — Te l’ho già spiegato, Zammis, io sono un umano!
— Ma a che cosa serve?
Mi sedetti nella vasca togliendo alla vista l’oggetto della discussione. — Serve per eliminare i rifiuti liquidi… fra le altre cose. Adesso entra e lavati.
Zammis si tolse il vestito, guardò il proprio apparato, che era liscio, poi entrò nella vasca. Si immerse fino al collo, studiandomi coi suoi occhi gialli. — Zio?
— Sì?
— Quali altre cose?
Glielo dissi. Per la prima volta, mi sembrò che il Drac non fosse sicuro se gli stavo dicendo o no la verità. Anzi, mi convinsi che era giunto alla conclusione che gli mentivo… probabilmente perché era vero.
L’inverno cominciò con una spruzzata di neve accompagnata da una leggera brezza. Portai Zammis nel boschetto sopra la caverna. Giunti di fronte alla tomba di Jerry lo presi per mano. Zammis si strinse nella giacca per ripararsi dal vento, chinò la testa, poi si voltò a guardarmi in faccia. — Zio, questa è la tomba del mio genitore?
Annuii. — Sì.
Zammis guardò la tomba, poi scosse la testa. — Zio, come dovrei sentirmi?
— Non capisco, Zammis.
Il bambino fece un cenno verso la tomba. — Vedo che tu sei triste a essere qui. Credo che tu voglia che io mi sento allo stesso modo, è vero?
Aggrottai le ciglia, poi scossi la testa. — No. Non voglio che tu ti senta triste. Volevo solo che tu sapessi dov’è.
— Posso andare ora?
— Certo. La sai la strada per tornare alla caverna?
— Sì. Non vorrei che il sapone mi bruciasse un’altra volta.
Guardai il bambino correre fra gli alberi nudi, poi mi voltai verso la tomba. — Be’, Jerry, cosa ne pensi di tuo figlio? Zammis stava usando della cenere per pulire le conchiglie dal grasso, e ha messo una conchiglia sul fuoco con dell’acqua per togliere del cibo che si era bruciato. Grasso e cenere. E così abbiamo fatto il sapone. Il primo che Zammis ha preparato, per poco non mi ha scuoiato, ma sta migliorando… Guardai il cielo, poi il mare. Sull’orizzonte, si stavano accumulando nuvoloni neri e bassi. — Vedi? Sai cosa vuol dire, vero? La prima tempesta di neve. — Il vento cominciò a soffiare più forte. Mi accucciai vicino alla tomba per sistemare una pietra che era rotolata via dalla pila. — Zammis è un bravo bambino, Jerry. Volevo odiarlo… dopo che sei morto. Volevo odiarlo. — Rimisi a posto la pietra, e tornai a guardare il mare. — Non so come faremo ad andarcene da questo pianeta, Jerry… — Con la coda dell’occhio percepii un movimento. Mi girai e sopra le cime degli alberi, contro il cielo grigio, vidi un puntino nero che si allontanava. Lo seguii con lo sguardo finché non sparì fra le nuvole.
Ascoltai, sperando di sentire il rumore dei razzi, ma il cuore mi batteva così forte che tutto quello che riuscii a sentire fu il vento. Era una nave? Mi alzai, feci qualche passo nella direzione in cui era sparito il puntino, poi mi fermai. Girandomi, vidi che le pietre della tomba erano già ricoperte da un sottile strato di neve. Alzai le spalle, e mi avviai verso la caverna. — Probabilmente era solo un uccello.
Zammis era seduto sul suo materasso, intento a cucire pelli di serpente con un ago di osso. Mi distesi sul mio letto, osservando il fumo che saliva per la fessura. Era un uccello? O una nave? Accidenti, non riuscivo a togliermelo dalla mente. Avevo rimossa dai miei pensieri la possibilità di andarmene da quel pianeta, l’avevo sotterrata e nascosta per tutta l’estate. Ed ecco che era tornata. Camminare sotto il sole, indossare vestiti decenti, avere il riscaldamento centrale e mangiare cibi preparati da un cuoco, trovarsi di nuovo… fra la gente.
Mi girai su un fianco e guardai la parete vicino al materasso. Gente. Gente umana. Chiusi gli occhi e inghiottii. Ragazze umane. Donne. Delle immagini mi passarono davanti agli occhi: facce, corpi, coppie che ridevano, il ballo dopo l’addestramento., come si chiamava? Dolora? Dora?
Scossi la testa, mi girai di nuovo e mi misi a sedere, di fronte al fuoco. Perché avevo visto quella cosa? Ero riuscito a seppellirle, tutti quei ricordi, a dimenticarle…
— Zio?
Alzai gli occhi. Pelle gialla, occhi gialli, faccia di rospo senza naso.
— Cosa?
— C’è qualcosa che non va?
Qualcosa che non va! — No. Mi sembrava di aver visto una cosa, oggi. Ma probabilmente non era niente. — Presi un pezzo di carne dalla griglia sul fuoco. Ci soffiai sopra per raffreddarla e cominciai a masticare.
— Che aspetto aveva?
— Non so. Da come si muoveva, ho creduto che fosse una nave. Ma è sparita così in fretta, che non ho potuto vedere bene. Forse era un uccello.
— Uccello?
Lo guardai. Zammis non aveva mai visto un uccello. E neanch’io, su Fyrine IV. — Un animale che vola.
Zammis annuì. — Zio, quando raccoglievamo legna nel bosco, ho visto anch’io qualcosa volare.
— Eh? Perché non me lo hai detto?
— Volevo dirtelo, ma me ne sono dimenticato.
— Dimenticato! Da che parte andava?
Zammis indicò verso il fondo della caverna. — Da quella parte, in direzione opposta al mare. — Zammis mise giù il suo lavoro di cucito.
— Perché non andiamo a vedere dov’è andato?
Scossi la testa. — L’inverno sta per cominciare. Tu non sai com’è. Moriremmo in pochi giorni.
Zammis riprese il suo lavoro. Fare il viaggio in inverno ci avrebbe ucciso. Ma in primavera sarebbe stato diverso. Potevamo sopravvivere, con una doppia imbottitura nei vestiti, e una tenda. Dovevamo fabbricare una tenda. Zammis e io potevamo passare l’inverno a prepararla, e a fare degli zaini. Poi ci servivano degli stivali robusti. Dovevo pensarci…
È straordinario come una scintilla di speranza possa accendere un fuoco che consuma tutta la disperazione. Era una nave? Non lo sapevo. E se lo era, stava decollando o atterrando? Non lo sapevo. Se stava decollando, avremmo preso la direzione sbagliata. Ma quella opposta, significava attraversare il mare. Non importa. All’arrivo della primavera, avremmo attraversato il bosco, poi si sarebbe visto…
L’inverno sembrò passare in fretta con Zammis impegnato a fabbricare la tenda, e io che cercavo di riscoprire l’arte del calzolaio. Tracciai i contorni dei miei piedi e di quelli di Zammis su della pelle di serpente. Dopo qualche esperimento, scoprii che facendola bollire insieme a un certo frutto, la pelle diventava morbida ed elastica. Mettendone parecchi strati l’uno sopra l’altro con un peso, e facendoli seccare, si otteneva una suola dura e flessibile. Quando ebbi finito gli stivali di Zammis, lui ne aveva bisogno di un paio nuovi.
— Sono troppo piccoli, zio.
— Come sarebbe a dire troppo piccoli?
— Mi fanno male. Ho le dita piegate.
Mi chinai e tastai la punta degli stivali. — Non capisco. Ho preso le misure solo venti, venticinque giorni fa. Sei sicuro di non esserti mosso mentre le prendevo?
Zammis scosse la testa.
— No che non mi sono mosso — disse.
Aggrottai la fronte, e mi alzai. — Alzati, Zammis. — Il Drac si alzò, e io gli andai vicino. Con la testa mi arrivava a metà del petto. Altri sessanta centimetri, e sarebbe stato alto come Jerry. — Togliteli. Ne farò un paio più grandi. Cerca di non crescere così in fretta.
Zammis montò la tenda dentro la caverna, e cominciò a strofinare del grasso contro la pelle per renderla impermeabile. Era cresciuto ancora, e io avevo deciso di aspettare a fargli gli stivali finché non fossi stato sicuro della misura. Cercai di fare una previsione, misurandogli i piedi ogni dieci giorni, e calcolando la misura che avrebbero dovuto avere in primavera. Secondo i miei calcoli, avrebbe raggiunto le dimensioni di un’astronave da trasporto. Era chiaro che prima della fine dell’inverno, avrebbe completato la crescita. Gli stivali di Jerry erano andati a pezzi prima che Zammis nascesse, ma avevo conservato i pezzi. Utilizzai le vecchie suole per prendere le misure, e sperai il meglio.
Ero occupato a fabbricare i nuovi stivali, Zammis lavorava alla tenda. Il Drac mi guardò.
— Zio?
— Sì?
— L’esistenza è il dato primario?
Alzai le spalle. — Così dice Shizumaat. Io non ho nessuna obiezione.
— Ma zio, come facciamo a sapere se l’esistenza è reale?
Interruppi il lavoro, lo guardai, scossi la testa, tornai a occuparmi degli stivali. — Credimi sulla parola.
Il Drac fece una smorfia. — Ma zio, questa non è conoscenza, è fede.
Sospirai, pensando al mio primo anno all’Università delle Nazioni: un gruppetto di adolescenti, in un appartamento ammobiliato, che passavano il loro tempo a fare esperimenti con l’alcol, le polveri e la filosofia. Zammis aveva meno di un anno terrestre, e stava già diventando il tipo dell’intellettuale noioso. — Cosa c’è che non va nella fede?
Zammis fece una risatina di scherno. — Andiamo, zio, la fede?
— Qualche volta è di aiuto, in questa spirale di neve e di gelo.
— Spirale?
Mi grattai la testa. — Questa spirale mortale: la vita. Shakespeare, credo.
Zammis aggrottò le ciglia. — Non c’è nel Talman.
— Era un umano.
Zammis si alzò, e si venne a sedere dall’altra parte del fuoco, di fronte a me. — Era un filosofo, come Mistan e Shizumaat?
— No. Scriveva opere teatrali… delle storie recitate.
Zammis si fregò il mento. — Ricordi qualcos’altro di Shakespeare?
Alzai un dito. — «Essere o non essere, questo è il dilemma».
Il Drac spalancò la bocca, poi annuì energicamente. — Sì, sì! Essere o non essere; questo è il dilemma! — Allargò le braccia. — Come facciamo a sapere se il vento soffia, fuori dalla caverna, se non lo vediamo? Il mare è sempre in tempesta quando noi non siamo lì a guardarlo?
Annuii. — Sì.
— Ma zio, come facciamo a saperlo?
Lo guardai. — Zammis, ho una domanda da farti: è vera o falsa la seguente affermazione: Quello che dico in questo momento è falso.
Zammis sbatté le palpebre. — Se è falso, allora l’affermazione è vera. Ma… se è vera… l’affermazione è falsa, ma… — Sbatté ancora le palpebre, poi tornò a fregare grasso nella tenda. — Ci penserò, zio.
— Fallo, Zammis, fallo.
Il Drac ci pensò per una decina di minuti, poi si voltò. — L’affermazione è falsa.
Sorrisi. — Ma questo è quanto dice l’affermazione, quindi è vera, ma… — Lasciai la frase in sospeso, sentendomi molto compiaciuto.
— No, zio. L’affermazione è priva di significato, nel suo contesto. — Alzai le spalle. — Vedi, zio, l’affermazione presuppone l’esistenza di una verità che non può esprimere un giudizio su se stessa, in mancanza di altri punti di riferimento. La logica di Lurrvena è molto chiara su questo punto, nel Talman, e se equipariamo mancanza di significato con falsità…
Sospirai. — Già, certo…
— Vedi, zio, per prima cosa è necessario stabilire un contesto nel quale un’affermazione abbia un senso.
Mi chinai in avanti, aggrottai le ciglia e mi grattai la barba. — Capisco. Vuoi dire che stavo mettendo Cartesio davanti ai buoi?
Zammis mi diede una occhiata perplessa, che si fece ancora più perplessa quando mi vide rotolare sul materasso ridendo come un matto.
— Zio, perché la famiglia Jeriba ha solo cinque nomi? Tu hai detto che le famiglie umane hanno molti nomi.
Annuii. — I cinque nomi della famiglia Jeriba sono etichette a cui coloro che le portano devono aggiungere fatti. I fatti sono importanti, non i nomi.
— Gothig è il parente di Shigan, come Shigan è mio parente.
— Naturalmente. L’hai imparato dalla recitazione.
Zammis aggrottò le ciglia. — Allora dovrò chiamare mio figlio Ty, quando diventerò genitore.
— Sì. E Ty dovrà chiamare suo figlio Haesni. C’è qualcosa che non va?
— A me piacerebbe chiamare mio figlio Davidge.
Scossi, e scossi la testa. — Il nome di Ty è stato portato da grandi banchieri, mercanti, inventori e… be’, la sai la recitazione. Il nome Davidge non è stato portato da nessuno di importante. Pensa a quello che ci perderebbe Ty a non essere Ty.
Zammis ci pensò un po’, poi annuì. — Zio, credi che Gothig sia vivo?
— Per quel che ne so io, sì.
— Com’è Gothig?
Ripensai a quello che mi aveva detto Jerry del suo genitore. — Insegnava musica, ed è molto forte. Jerry… Shigan diceva che il suo genitore poteva piegare delle sbarre di ferro con le dita. Gothig è anche una persona molto onorata. Immagino che in questo momento sia anche molto triste. Penserà che la famiglia Jeriba sia finita.
Zammis aggrottò le ciglia. — Zio, dobbiamo arrivare a Draco. Dobbiamo dire a Gothig che la famiglia continua.
— Ci arriveremo.
Il ghiaccio dell’inverno cominciò ad assottigliarsi. La tenda, gli zaini e gli stivali erano pronti. Stavamo dando il tocco finale ai nostri nuovi abiti. Come Jerry mi aveva dato il Talman perché lo studiassi, così ora il cubo d’oro era appeso al collo di Zammis. Il Drac tirava fuori il piccolo libro e lo studiava per ore.
— Zio?
— Sì?
— Perché i Drac parlano e scrivono in una lingua, e gli uomini in un’altra?
Risi. — Zammis, gli uomini scrivono e parlano in molte lingue. L’inglese è solo una delle tante.
— E come fanno a capirsi fra di loro, gli uomini?
Alzai le spalle. — Non sempre ci riescono. Oppure usano degli interpreti, gente che sa due lingue.
— Tu ed io parliamo sia inglese sia Drac. Allora siamo interpreti.
— Potremmo esserlo, se si trovasse un uomo e un Drac che volessero parlarsi. Ricordati che c’è in corso una guerra.
— Ma come potrà finire la guerra, se non parlano?
— Immagino che alla fine parleranno.
Zammis sorrise. — Mi piacerebbe fare l’interprete, e aiutare a por fine alla guerra. — Il Drac mise da parte il lavoro di cucito e si allungò sul suo nuovo materasso. Quello vecchio adesso lo usava come cuscino. — Zio, credi che troveremo qualcuno oltre il bosco?
— Lo spero.
— Se sarà così, verrai con me su Draco?
— Ho promesso a tuo padre che l’avrei fatto.
— Voglio dire dopo. Dopo che avrò fatto la mia recitazione, cosa farai?
Guardai il fuoco. — Non lo so. — Alzai le spalle. — La guerra potrebbe impedirci di raggiungere Draco, per un po’.
— E dopo?
— Immagino che tornerò sotto le armi.
Zammis si alzò su un gomito. — Continuerai a fare il pilota da caccia?
— Certo. È la sola cosa che so fare.
— E ucciderai i Drac?
Misi giù il mio lavoro e guardai Zammis. Molte cose erano cambiate da quando io e Jerry ci eravamo presi a botte… più di quante avessi pensato. Scossi la testa. — No. Probabilmente non farò più il pilota… non nell’esercito. Forse troverò lavoro in una compagnia civile. Forse l’esercito non mi vorrà neanche.
Zammis si mise a sedere; restò immobile per un momento poi venne da me e si inginocchiò sulla sabbia. — Zio, non voglio lasciarti.
— Non fare lo sciocco. Tornerai fra quelli della tua razza. Tuo nonno, Gothig, i parenti di Shigan, i loro figli… ti dimenticherai di me.
— Tu ti dimenticherai di me?
Guardai quegli occhi gialli, poi allungai una mano e gli toccai la guancia. — No, non ti dimenticherò. Ma ricordati di questo, Zammis: tu sei un Drac e io sono un umano, ed è così che si divide questa parte dell’universo.
Zammis mi prese la mano, allargò le dita e la studiò. — Qualunque cosa succeda, zio, non ti dimenticherò mai.
Il ghiaccio si era sciolto. Io e il Drac, con gli zaini sulle spalle, stavamo di fronte alla tomba, sotto una pioggia rada, sferzata dal vento. Zammis era alto come me, cioè un po’ più alto di Jerry. Con mio grande sollievo, gli stivali gli andavano bene. Zammis si sistemò meglio lo zaino, poi voltò le spalle alla tomba e guardò il mare. Seguii il suo sguardo, e osservai i cavalloni infrangersi sulle rocce. Guardai il Drac. — A cosa stai pensando?
Zammis guardò a terra, poi guardò me. — Zio, non ci avevo mai pensato prima, ma… mi mancherà questo posto.
Mi misi a ridere. — Che sciocchezze! Questo posto? — Gli diedi una pacca sulle spalle. — E perché dovresti sentirne la mancanza?
Zammis guardò il mare. — Ho imparato molte cose qui. Tu mi hai insegnato molte cose qui, zio. Sono vissuto qui.
— È solo l’inizio della tua vita, Zammis. Ti aspettano moltissimi altri anni. — Feci un cenno verso la tomba. — Dì addio.
Zammis si voltò verso la tomba, si inginocchiò vicino e cominciò a togliere le pietre. Dopo qualche minuto, aveva portato alla luce la mano di uno scheletro con tre dita. Si mise a piangere. — Mi dispiace, zio, ma dovevo farlo. Finora per me non era stato altro che un cumulo di rocce. — Rimise a posto le pietre, poi si alzò.
Indicai con la testa il bosco. — Vai avanti. Ti raggiungerò fra un minuto.
— Sì zio.
Zammis si allontanò verso gli alberi nudi. Io guardai la tomba. — Cosa te ne pare di Zammis, Jerry? È diventato più alto di te. Immagino che la carne di serpente gli faccia bene. — Mi chinai, presi un sasso e lo aggiunsi al cumulo. — Ormai ci siamo. O arriveremo su Draco, o moriremo. — Mi alzai e guardai il mare. — Penso di avere imparato anch’io qualcosa, qui. Mancherà anche a me questo posto, in un certo senso. — Mi sistemai lo zaino sulle spalle, e guardai per l’ultima volta la tomba. — Ehdevva sahn, Jeriba Shigan. Addio, Jerry.
Mi voltai, e seguii Zammis nel bosco.
I giorni che seguirono furono pieni di scoperte meravigliose per Zammis. Per me, il cielo era sempre lo stesso, grigio cupo, e le poche varianti che incontravamo nella flora e nella fauna, non erano niente di straordinario. Una volta superato il bosco, ci trovammo di fronte un lieve pendio, che continuò a salire per una giornata di marcia; poi davanti a noi apparve una distesa piatta, senza fine. Era coperta da un’erba color porpora, che ci arrivava alle caviglie e che lasciava il colore sugli stivali. Di notte faceva ancora troppo freddo per camminare, e ce ne stavamo chiusi nella tenda. Le pelli ingrassate e i vestiti funzionavano a dovere, e ci riparavano adeguatamente dalla pioggia che non smetteva quasi mai di cadere.
Eravamo in viaggio da quasi due delle lunghe settimane di Fyrine IV, quando sentimmo un boato sopra le nostre teste. In un attimo la nave era già sparita dietro l’orizzonte. Ma non ebbi nessun dubbio sul fatto che stesse atterrando.
— Zio! Ci avrà visti?
Scossi la testa. — Non credo proprio. Ma stava atterrando. Non hai sentito? Il campo dev’essere da qualche parte, davanti a noi.
— Zio?
— Muoviamoci! Cosa c’è?
— Era una nave umana o Drac?
Mi fermai di colpo. Non ci avevo neanche pensato. — Su, andiamo. Non importa. In qualsiasi modo, tu arriverai su Draco. Sei un civile, e l’esercito terrestre non potrà farti niente; se invece sono Drac, sei a posto.
Cominciammo a camminare. — Ma zio, se è una nave Drac, cosa succederà di te?
Alzai le spalle. — Mi faranno prigioniero. I Drac dicono di attenersi alle leggi di guerra interplanetarie, perciò non devo preoccuparmi. — Bella consolazione. Il problema era di sapere se preferivo essere prigioniero di guerra dei Drac, o un abitante permanente di Fyrine IV. Ma a questo avevo dato una risposta da un pezzo. — Avanti, mettiamoci di buon passo. Non sappiamo quanto manchi ancora.
Alzare il piede; abbassarlo. Tranne che per mangiare e riposarci, non ci fermavamo mai, neanche di notte. Lo sforzo di camminare ci teneva caldi. L’orizzonte sembrava sempre lontanissimo. Parecchi giorni dopo, con i piedi intorpiditi e la mente intontita, caddi attraverso l’erba purpurea in una buca. Immediatamente, si fece buio, e avvertii un dolore acuto nella gamba destra. Sentii che stavo per svenire, e accolsi con gioia il calore e la pace dell’incoscienza.
— Zio? zio? Svegliati, ti prego, svegliati!
Sentii degli schiaffi sulla faccia, ma parevano stranamente lontani. Fu il dolore lancinante a farmi svegliare. Dovevo essermi rotto la gamba. Guardai in alto e vidi gli orli erbosi del buco. Ero seduto sull’acqua, con Zammis vicino.
— Cosa è successo?
Zammis fece un cenno verso l’alto. — Il buco era coperto da una crosta sottile di terra e piante. Deve averlo scavato l’acqua. Stai bene?
— Credo di essermi rotto una gamba. — Appoggiai la schiena alla parete fangosa. — Zammis, devi proseguire da solo.
— Non posso lasciarti, zio!
— Se trovi qualcuno, potrai mandarmi dei soccorsi.
— E se il livello dell’acqua salisse? — Zammis mi tastò la gamba, e non potei trattenere un sussulto. — Devo tirarti fuori di qui. Come faccio per la gamba?
Il ragazzo aveva ragione. Morire annegato non faceva parte dei miei piani. — Ci occorre qualcosa di rigido. Lega la gamba in modo che non si muova.
Zammis si levò lo zaino, srotolò il rotolo con la tenda, tirò fuori uno dei pali e me lo legò alla gamba con delle striscie di pelle tolte dalla tenda. Usando delle altre strisce di pelle, fece due cappi, me li infilò nelle gambe e mi issò sulle spalle. Svenni.
Sull’erba, coperto dai resti della tenda, con Zammis che mi scuoteva per un braccio. — Zio? Zio?
— Sì? — mormorai.
— Zio, io sono pronto. Qui c’è il tuo cibo, e quando piove puoi tirarti la tenda sulla faccia. Lascerò delle tracce, per poter ritrovare la strada.
Annuii. — Stai attento.
Zammis scosse la testa. — Zio, potrei portarti. Non dobbiamo separarci.
Feci segno di no. — Non potrei farcela, figliolo. Trova qualcuno e fallo venire. — Sentii un conato di vomito, e un sudore freddo mi bagnò il corpo. — Su, muoviti.
Zammis si alzò. Si mise in spalla lo zaino e cominciò a correre nella direzione seguita dalla nave. Lo guardai finché non sparì. Poi mi girai e guardai le nuvole. — Per poco non mi avete fregato, questa volta, kizlode. Ma non avete pensato al Drac… non vi siete ricordati che siamo in due… — Persi i sensi, poi li ripresi. Sentii la pioggia sul viso e mi coprii con la tenda. Pochi secondi dopo, ero ripiombato nel buio.
— Davidge? Tenente Davidge?
Aprii gli occhi e vidi una cosa che non vedevo da quattro anni terrestri: la faccia di un essere umano. — Chi siete?
La faccia, quella di un uomo giovane, con corti capelli biondi, sorrise. — Sono il capitano Steerman, ufficiale medico. Come state?
Ci pensai su un po’, e sorrisi. — Come se mi avessero imbottito di droga.
— Proprio così. Eravate piuttosto mal messo quando la squadra di esplorazione vi ha trovato.
— La squadra di esplorazione?
— Immagino che non lo sappiate. Gli Stati Uniti Terrestri e la Camera di Draco hanno istituito una commissione congiunta per la colonizzazione di nuovi pianeti. La guerra è finita.
— Finita?
— Sì.
Fu come se mi avessero tolto un peso di dosso. — Dov’è Zammis.
— Chi?
— Jeriba Zammis, il Drac che era con me.
Il dottore alzò le spalle. — Non ne so niente. Immagino che se ne siano occupati i rospi.
Rospi. Una volta l’avevo usata anch’io quella parola. Ascoltandola sulla bocca di Steerman mi sembrò estranea e repellente. — Zammis è un Drac, non un rospo.
Il dottore alzò le spalle. — Certo. Come volete. Adesso riposatevi, e fra qualche ora verrò a visitarvi di nuovo.
— Posso vederlo?
Il dottore sorrise. — Dio mio, no. State viaggiando verso la base di Delphi… e il Drac probabilmente è in viaggio per Draco. — Mi fece un cenno col capo e se ne andò. Mi sentii come perso. Guardandomi intorno, vidi che mi trovavo nell’infermeria di una nave. I letti al mio fianco erano occupati. L’uomo a destra scosse la testa e riprese a leggere una rivista. Quello sulla sinistra sembrava irritato.
— Maledetto lecca-rospi! — Si voltò su un fianco, volgendomi la schiena.
Di nuovo fra gli uomini, eppure più solo di quanto fossi mai stato. Misnuuram va siddeth, come dice Mistan nel Talman, dall’alto di una saggezza di ottocento anni fa. La solitudine è un pensiero; non qualcosa che viene fatto a qualcuno, ma qualcosa che uno fa a se stesso.
Jerry scosse la testa, e mi puntò addosso un dito giallo, mentre trovava le parole che voleva dire. — Davidge… per me la solitudine è un fastidio, una piccola cosa da evitare, se possibile, ma non da temere. Io credo che tu preferiresti la morte alla prospettiva di trovarti solo con te stesso.
Misnuuram yaa vanos misnuuram van dunos. «Chi è solo con se stesso sarà sempre solo con gli altri»: ancora Mistan. Apparentemente la frase sembra una contraddizione in termini, ma l’osservazione della realtà prova che è vera. Ero uno straniero fra i miei simili, a causa di un odio che non condividevo e di un amore che a loro pareva assurdo e perverso. «La pace dei pensieri con gli altri si verifica solo nella mente in pace con se stessa». Ancora Mistan. Infinite volte, durante il viaggio verso la base di Delphi, e poi mentre sbrigavo le pratiche per lasciare il servizio, allungavo la mano per prendere il Talman che non portavo più al collo. Cosa ne era stato di Zammis? Alle Forze Armate Terrestri la cosa non interessava, e le autorità Drac non volevano dirlo: non erano affari miei.
Per gli ex-piloti da guerra non c’era molto lavoro… soprattutto per chi non volava da quattro anni, aveva una gamba in cattivo stato ed era un lecca-rospi.
Avevo quarantottomila crediti di paga arretrata, per cui i soldi non erano un problema. Il problema era cosa fare della mia vita. Dopo aver trascorso qualche tempo alla base di Delphi presi una nave per la Terra e per parecchi mesi lavorai presso una piccola casa editrice traducendo manoscritti in Drac. Su Drac andavano matti per i western: «Su le mani naagusaat!»
«Nu Geph, sceriffo». Thang, thang! Le pistole lampeggiarono e il kizlode shaddsaat morse la thessa.
Me ne andai.
Alla fine chiamai i miei genitori. Perché non ci hai telefonato prima, Willy? Siamo stati così in pensiero… Avevo alcune cose da sistemare, papà… No, davvero… Capisco, figlio mio… dev’essere stato spaventoso… Papà, vorrei venire a casa per un po’…
Ancor prima di aver pagato la mia Dearman Electric usata, capii che stavo facendo un errore a tornare a casa. Sentivo il bisogno di una casa, ma non poteva essere quella che avevo lasciato all’età di diciotto anni. Tuttavia ci andavo, perché non avevo altro posto.
Guidavo nella notte solitaria, usando solo le vecchie strade, e il ronzio del motore era l’unico suono. Il cielo di dicembre era limpido, e potevo vedere le stelle attraverso la cupola della macchina. Cominciai a pensare a Fyrine IV, all’oceano in tempesta, ai venti incessanti. Mi fermai ai bordi della strada e spensi i fari. Dopo pochi minuti i miei occhi si abituarono all’oscurità. Uscii e chiusi la portiera. Il Kansas ha un grande cielo, e le stelle sembravano così vicine da poterle toccare. La neve mi scricchiolava sotto le scarpe. Alzai gli occhi, cercando di individuare Fyrine fra le migliaia di stelle visibili.
Fyrine si trova nella costellazione di Pegaso, ma i miei occhi non erano abbastanza esperti per distinguere il cavallo alato. Sentii un brivido e decisi di tornare in macchina. Mentre mi voltavo riconobbi una costellazione, a nord, appena sopra l’orizzonte: Draco, sospeso a testa in giù, con la coda arrotolata attorno a Ursa Minor. Eltanin, il naso del drago, è la stella natale dei Drac. Il suo secondo pianeta, Draco, era la casa di Zammis.
I fari di una macchina mi abbagliarono. La macchina si fermò, e il guidatore abbassò il finestrino. Si sentì una voce dal buio: — Avete bisogno di aiuto?
Scossi la testa. — No, grazie. — Alzai la mano. — Stavo solo guardando le stelle.
— Una bella nottata, eh?
— Sicuro.
— Proprio non avete bisogno di niente?
Scossi la testa. — Grazie… un momento. Dov’è il più vicino spazio-Porto commerciale?
— A un’ora di macchina, a Salina.
— Grazie. — Vidi una mano agitarsi dal finestrino, e la vettura ripartì. Guardai ancora una volta Eltanin, poi tornai in macchina.
Sei mesi più tardi, ero di fronte a un’antico portale di pietra intagliata, chiedendomi cosa diavolo stessi facendo.
Il viaggio verso Draco, avendo come soli compagni dei Drac nell’ultimo tratto, mi aveva dimostrato la verità delle parole di Namvaac: «Spesso la pace non è che una guerra senza battaglie.» I trattati, sulla carta, mi davano il diritto di andare sul pianeta, ma i maghi della burocrazia Drac avevano perfezionato l’arte di tirare per le lunghe molto prima che il primo uomo venisse lanciato nello spazio. Furono necessarie minacce e bustarelle, lunghi giorni passati a riempire moduli, interminabili controlli sanitari e doganali, altri moduli da compilare e ricompilare, altre bustarelle, e poi giorni e giorni di attesa…
Sulla nave passavo la maggior parte del tempo nella mia cabina, ma dal momento che i camerieri Drac si rifiutavano di servirmi, dovevo andare nella sala comune per mangiare. Sedevo da solo, ascoltando i commenti che facevano su di me gli altri passeggeri. Avevo deciso che la cosa più semplice era fingere di non capire quello che dicevano. Nessuno pensa che un umano parli Drac.
— Ma dobbiamo mangiare insieme a quello schifoso Irkmaan?
— Guarda che pelle pallida e pustolosa! E quei peli puzzolenti che ha in testa. Bah! Che puzza!
Strinsi i denti e tenni gli occhi fissi sul piatto.
— È una cosa da far impallidire il Talman che le leggi dell’universo siano così corrotte da aver prodotto una creatura simile!
Mi voltai e fissai i tre drac seduti al tavolo vicino. In Drac, dissi: — Se i tuoi antenati avessero insegnato ai kiz del villaggio ad usare i contraccettivi, ora tu non esisteresti neppure. — Tornai al mio piatto, mentre i due primi Drac costringevano con la forza il terzo a restare seduto.
Una volta su Draco, non fu un problema trovare la residenza della famiglia Jeriba. Il problema fu entrare. La proprietà era circondata da un alto muro di pietra; attraverso la cancellata potevo scorgere la grande casa che Jerry mi aveva descritto. Dissi alla guardia che volevo vedere Jeriba Zammis. La guardia mi fissò, poi entrò in un’alcova a fianco della porta. Dopo pochi momenti, dalla casa uscì un altro Drac e attraversò il prato verso il cancello. Rivolse un cenno con la testa alla guardia, poi mi fissò. Era il ritratto di Jerry.
— Siete voi l’Irkmaan che ha chiesto di vedere Jeriba Zammis?
Annuii. — Zammis deve avervi parlato di me. Sono Willis Davidge.
Il Drac mi studiò. — Io sono Estone Nev, il fratello di Jeriba Shigan. Il mio genitore, Jeriba Gothig, desidera vedervi. — Il Drac si voltò di scatto e si avviò verso la casa. Lo seguii, eccitato all’idea di rivedere Zammis. Non prestai molta attenzione all’ambiente, finché non venni introdotto in una grande stanza con il soffitto a volta. Jerry mi aveva detto che la casa aveva quattrocento anni. Non avevo difficoltà a crederlo. Quando entrai, un altro Drac si alzò e venne verso di me. Era vecchio, ma lo riconobbi.
— Voi siete Gothig, il genitore di Shigan.
Gli occhi gialli mi fissarono. — E voi chi siete, Irkmaan? — Mi porse una mano rugosa. — Cosa sapete di Jeriba Zammis, e perché parlate Drac con lo stile e l’accento di mio figlio Shigan? Cosa volete?
— Parlo Drac in questa maniera perché così Jeriba Shigan mi ha insegnato.
Il vecchio piegò la testa di fianco e strinse gli occhi. — Conoscevate mio figlio? E come?
— Non ve l’ha detto la commissione di esplorazione?
— Mi è stato comunicato che mio figlio Shigan era morto nella battaglia di Fyrine IV. Questo è stato più di sei dei nostri anni fa. A che gioco state giocando, Irkmaan?
Mi voltai verso Nev. Il Drac più giovane mi stava guardando con la stessa espressione sospettosa. Mi rivolsi a Gothig. — Shigan non è stato ucciso in battaglia. Siamo naufragati insieme sulla superficie di Fyrine IV, e lì abbiamo vissuto per un anno locale. Shigan è morto dando alla luce Jeriba Zammis. Un anno più tardi la commissione congiunta di esplorazione ci ha trovati e…
— Basta! Non voglio più saperne di questo Irkmaan! Siete qui per ottenere denaro? Volete usare la mia influenza per ottenere facilitazioni commerciali… Cosa volete?
Aggrottai le ciglia. — Dov’è Zammis?
Lacrime di rabbia bagnarono gli occhi di Gothig. — Non esiste nessun Zammis, Irkmaan! La famiglia Jeriba è finita con la morte di Shigan!
Spalancai gli occhi e scossi la testa. — Non è vero. Io lo so bene. Mi sono preso cura di Zammis. Non ve l’ha detto la commissione?
— Ditemi cosa volete, Irkmaan. Non ho tempo da perdere.
Fissai il vecchio Drac. Gothig non aveva ricevuto notizie dalla commissione. Le autorità Drac si erano prese Zammis, e il ragazzo era svanito nel nulla. Nessuno aveva detto niente a Gothig. Perché? — Io sono stato insieme a Shigan, Gothig. È così che ho imparato la vostra lingua. Quando Shigan è morto, dando alla luce Zammis, ho…
— Irkmaan, se non mi dite chiaramente quali sono le vostre intenzioni, vi farò buttare fuori da Nev. Shigan è morto nella battaglia di Fyrine IV. La flotta Drac ce ne ha dato notizie qualche giorno più tardi.
— Va bene, Gothig. Allora ditemi come faccio a conoscere la genealogia Jeriba. Volete che ve la reciti?
Gothig sbuffò. — Dite di conoscere la genealogia Jeriba?
— Sì.
— Allora recitatela.
Tirai un respiro e cominciai. Quando raggiunsi la centosettantatreesima generazione, Gothig si inginocchiò sul pavimento vicino a Nev. I due Drac rimasero così per tutte le tre ore della recitazione. Quando ebbi finito, Gothig chinò la testa e pianse. — Sì, Irkmaan, sì. Devi aver conosciuto Shigan. Sì. — Il vecchio Drac mi fissò, con gli occhi pieni di speranza. — E voi dite che Shigan ha continuato la famiglia? Che Zammis è nato?
Annuii. — Non so perché la commissione non vi abbia avvisato.
Gothig si alzò. — Lo scopriremo, Irkmaan… come vi chiamate?
— Davidge. Willis Davidge.
— Lo scopriremo, Davidge.
Gothig mi diede alloggio nella sua casa, e questa fu una fortuna, perché mi erano restati poco più di un migliaio di crediti. Dopo molte ricerche, Gothig mandò me e Nev alla Camera Centrale di Sendievu, la capitale di Draco. Scoprii che la famiglia Jeriba era piuttosto influente: le formalità burocratiche vennero ridotte al minimo. Alla fine fummo ricevuti dal rappresentante della Commissione Congiunta, un Drac che rispondeva al nome di Jozzdn Vrule. Alzò gli occhi dalla lettera che Gothig mi aveva dato e aggrottò le sopracciglia.
— Dove ve la siete procurata, Irkmaan?
— Non c’è la firma?
Il Drac guardò la lettera, poi ancora me. — La famiglia Jeriba è una delle più illustri di Draco. Avete detto che questa lettera vi è stata data da Jeriba Gothig?
— Sono sicuro di averlo detto: mi sono accorto di aver mosso le labbra…
Intervenne Nev. — Voi avete le informazioni sulla missione di Fyrine IV. Vogliamo sapere cosa è successo a Jeriba Zammis.
Jozzdn Vrule tornò a guardare la lettera. — Estone Nev, voi siete il fondatore della vostra famiglia, non è vero?
— È così.
— Volete coprire di vergogna la vostra famiglia? Perché siete con questo Irkmaan?
Nev strinse le labbra e incrociò le braccia. — Jozzdn Vrule, se intendete, in un futuro prevedibile, continuare a circolare su questo pianeta come un essere libero, forse vi converrà smettere di muovere la bocca e cominciare a cercare Jeriba Zammis.
Jozzdn Vrule abbassò gli occhi, si studiò le dita, poi restituì lo sguardo a Nev. — Molto bene, Estone Nev. Mi minacciate se non vi dico la verità. Credo che scoprirete che la verità è la minaccia più grande. — Scrisse qualcosa su un pezzo di carta, poi lo porse a Nev. — Troverete Jeriba Zammis a questo indirizzo, e maledirete il giorno in cui ve l’ho dato.
Entrammo nel manicomio con un senso di nausea. Attorno a noi, vedevamo Drac con occhi ebeti, che urlavano, sbavavano, o si comportavano come animali. Gothig ci raggiunse quando eravamo già arrivati. Il direttore del manicomio mi lanciò un’occhiataccia e scosse la testa rivolto a Gothig. Al di là di questa stanza non vi è altro che dolore e pena. — Gothig prese il direttore per il bavero del camice. — Stammi a sentire, insetto: se Jeriba Zammis si trova fra queste mura, fammelo vedere! Altrimenti ti schiaccerò con tutta la forza della famiglia Jeriba!
Il direttore storse le labbra, poi annuì. — Va bene, va bene, arrogante Kazzmidth! Abbiamo cercato di proteggere la reputazione dei Jeriba. Abbiamo cercato! Adesso vedrete da voi. — Il direttore scosse la testa e strinse le labbra. — Sì, lo vedrete da voi. — Scrisse qualcosa su un pezzo di carta e lo diede a Nev. — Dandovi questo, io perderò il posto, ma prendetelo! Prendetelo, e andate a vedere l’essere che voi chiamate Jeriba Zammis. Andate a vederlo e piangete!
Jeriba Zammis sedeva su una panchina di pietra, fra gli alberi, gli occhi fissi a terra. Non sbatteva mai le palpebre, e teneva le mani immobili. Gothig mi guardò aggrottando le ciglia, ma io pensavo solo a Zammis. Mi avvicinai. — Zammis, mi riconosci?
Il Drac districò i suoi pensieri da un labirinto senza fine e alzò gli occhi gialli. Non vi scorsi alcun segno di riconoscimento. — Chi sei?
Mi inginocchiai al suo fianco lo presi per le braccia e lo scossi. — Accidenti, Zammis, non mi riconosci? Sono tuo zio. Ti ricordi? Zio Davidge.
Il Drac oscillò sulla panchina, e scosse la testa. Alzò un braccio, per chiamare un infermiere. — Voglio tornare nella mia stanza. Per favore, fatemi tornare nella mia stanza.
Mi alzai e lo presi per il pigiama da ospedale. — Zammis, sono io!
Gli occhi gialli, spenti e senza vita, mi fissarono. L’infermiere mi mise una mano sulla spalla. — Lascialo andare, Irkmaan.
— Zammis! — Mi rivolsi a Gothig e Nev. — Dite qualcosa!
L’infermiere prese di tasca un manganello e se lo batté sul palmo della mano. — Lascialo andare, Irkmaan.
Gothig si fece avanti. — Spiegatemi cose questa faccenda!
L’infermiere guardò Gothig, Nev, me poi Zammis. — Questo qui… questa creatura, è arrivato professando il suo amore, amore dico, per gli uomini! Non è una perversione da poco, questa, Jeriba Gothig. Il governo voleva proteggervi da uno scandalo del genere. Vorreste gettare nel fango la reputazione della vostra famiglia?
Guardai Zammis. — Che cosa gli avete fatto, kizlode figli di puttana? L’elettroshock? L’avete drogato? L’avete fatto diventare pazzo?
L’infermiere mi rivolse una smorfia di derisione. — Tu non capisci, Irkmaan. Questo qui non sarebbe mai stato felice come Irkmaan vul… amico degli umani. Stiamo rendendogli possibile il ritorno nella società Drac. È forse un male?
Guardai Zammis e scossi la testa. Mi ricordavo fin troppo bene di come ero stato trattato dai miei compagni terrestri. — No, non credo che sia un male… non lo so.
L’infermiere si rivolse a Gothig. — Vi prego di capire, Jeriba Gothig. Non potevamo infliggere questa disgrazia alla famiglia Jeriba. Vostro nipote sta quasi bene, e presto inizierà un programma di rieducazione. Fra meno di due anni avrete un nipote degno di portare avanti la famiglia Jeriba. È forse un male?
Gothig si limitò a scuotere la testa. Io mi inginocchiai di fronte a Zammis e lo guardai negli occhi. Gli presi la destra fra le mie due mani.
— Zammis?
Zammis abbassò gli occhi, mosse la sinistra, mi prese una mano e mi fece allargare le dita. Una alla volta, indicò le mie dita, poi mi guardò negli occhi, poi fissò ancora la mano. — Sì… — Zammis indicò ancora.
— Uno, due, tre, quattro, cinque! — Mi guardò negli occhi. — Quattro cinque!
Annuii — Sì, sì.
Zammis si appoggiò la mia mano alla guancia. — Zio… zio, te l’avevo detto che non ti avrei mai dimenticato.
Non contai mai gli anni che passarono. Mi era ricresciuta la barba, quando mi inginocchiai vicino alla tomba del mio amico Jeriba Shigan. Vicino c’era la tomba di Gothig, vecchia di quattro anni. Rimisi a posto qualche pietra, ne aggiunsi qualche altra. Mi strinsi nella giacca di pelle di serpente, per proteggermi dal vento, e mi sedetti vicino alla tomba, guardando il mare. I cavalloni correvano sempre verso la spiaggia, sotto la cortina nerogrigia di nuvole. Presto sarebbe arrivato il ghiaccio. Mi guardai le mani rugose, poi ancora la tomba.
— Non potevo restare nella colonia con loro, Jerry. Non fraintendermi: è un bel posto. Proprio bello. Ma continuavo a guardare l’oceano dalla finestra, e a pensare alla caverna. In un certo senso sono solo, ma non è brutto. So chi sono e cosa sono, Jerry, e questo è l’importante, vero?
Sentii un rumore. Mi chinai in avanti, appoggiai le mani sulle ginocchia e mi alzai. Dall’insediamento stava arrivando un Drac con un bambino fra le braccia.
Mi fregai la barba. — Allora, Ty, è questo il tuo primo figlio?
Il Drac annuì. — Mi farebbe piacere, zio, se tu gli insegnassi quello che deve imparare: la genealogia, il Talman; e tutto sulla vita di Fyrine IV, il nostro pianeta che si chiama Amicizia.
Presi il fagottino fra le braccia. Due braccine tozze, con tre dita si agitarono nell’aria, poi mi afferrarono la giacca. — Sì, Ty, è proprio un Jeriba. E come sta Zammis, il tuo genitore?
Ty alzò le spalle. — Benissimo. Ti saluta.
— Salutalo da parte mia. Zammis dovrebbe uscire da quel guscio ad aria condizionata, e venire a vivere nella caverna. Gli farebbe bene.
Ty sorrise. — Glielo dirò, zio.
Mi battei il pollice sul petto. — Guarda me! Ti sembro ammalato?
— No zio.
— Dì a Zammis di mandare fuori dai piedi quel dottore e di tornare a vivere nella caverna, capito?
— Si zio. — Ty sorrise. — Hai bisogno di qualcosa?
Mi grattai il collo e feci segno di sì. — Carta igienica. Un paio di pacchi; e magari un paio di bottiglie di whisky… no, lascia stare il whisky. Aspetterò che il piccolo Haesni compia un anno. Solo la carta igienica.
Ty si inchinò. — Sì, zio, e che il mattino ti trovi sempre bene.
Feci un gesto impaziente con la mano. — Certo, certo. Non dimenticarti la carta igienica.
Ty si inchinò ancora. — No, zio.
Ty si voltò e si inoltrò nel bosco, verso la colonia.
Gothig aveva venduto tutto, ed era emigrato con tutta la famiglia, e le famiglie collaterali, su Fyrine IV. Io ero stato con loro per un anno, poi ero andato a vivere nella caverna. Raccoglievo la legna e affumicavo la carne di serpente per resitere durante l’inverno. Zammis mi aveva dato il piccolo Ty per allevarlo nella caverna, e adesso Ty mi aveva dato Haesni. — Guardai il neonato. — Tu sarai chiamato Gothig, e poi… — Alzai gli occhi al cielo, e sentii le lacrime che si asciugavano sulle guance — … e il figlio di Gothig si chiamerà Shigan. — Mi avviai verso il sentiero che portava alla grotta.