Carlos Ruiz Zafón

LE LUCI DI SETTEMBRE

Traduzione di Bruno Arpaia

MONDADORI

Copyright © Carlos Ruiz Zafón 1995.

©2011 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano.

Titolo dell'opera originale: Las luces de septiembre.

I edizione maggio 2011.

ISBN 978-88-04-61023-6.


Nota dell'autore

Caro lettore,

Le luci di settembre è il mio terzo romanzo e fu pubblicato per la prima volta in Spagna nel 1996.

Quanti hanno già letto i miei ultimi romanzi, L'ombra del vento e Il gioco dell'angelo, forse non sanno che i primi quattro che ho scritto furono originariamente pubblicati nella narrativa per ragazzi.

Nonostante fossero destinati soprattutto a lettori giovani, la mia speranza era di coinvolgere persone di ogni età.

Nello scrivere quelle pagine ho cercato di creare il genere di narrativa che avrei apprezzato da ragazzo, ma che avrebbe continuato a interessarmi a ventitré anni, o a quaranta, o a ottantatré.

Per lungo tempo i diritti di questi libri sono stati "intrappolati" in una disputa legale, ma adesso tali romanzi possono finalmente raggiungere i lettori di tutto il mondo. Sin dalla prima pubblicazione questi lavori hanno trovato benevola accoglienza da parte di giovani e meno giovani. Mi piace credere che il racconto trascenda qualsiasi limite di età e spero che coloro che hanno apprezzato i miei romanzi per adulti saranno tentati di esplorare queste storie di magia, mistero e avventura. Infine, per tutti i nuovi lettori, mi auguro che anche questi vi siano graditi, adesso che siete in procinto di iniziare la vostra personale avventura nell'universo dei libri.

Buon viaggio,

Carlos Ruiz Zafón.

febbraio 2010.


LE LUCI DI SETTEMBRE

Cara Irene,

le luci di settembre mi hanno insegnato a ricordare i tuoi passi che svanivano nella marea. Sapevo già al ora che la zampata dell'inverno non avrebbe tardato a cancellare il miraggio dell'ultima estate che trascorremmo insieme a Baia Azzurra. Ti sorprenderà scoprire quanto poco tutto sia cambiato da al ora. La torre del faro si erge sempre come una sentinel a nella bruma, e la strada che costeggia la Spiaggia dell'Inglese è ormai solo un pal ido sentiero che si snoda verso il nul a tra la sabbia.

Le rovine di Cravenmoore si intravedono oltre gli alberi del bosco, silenziose e avvolte in un manto di oscurità. Nelle sempre meno frequenti occasioni in cui mi avventuro al largo sul a barca a vela, posso ancora scorgere i vetri incrinati dei finestroni dell'ala ovest che bril ano come fantasmagorici segnali nella nebbia. A volte, stregato dal a memoria di quei giorni in cui al cadere della sera solcavamo la baia di ritorno verso il porto, mi sembra di rivedere le luci che tremolano nell'oscurità. Ma so che ormai lassù non c'è nessuno. Nessuno. Ti chiederai cosa ne è stato della Casa del Capo. Ebbene, è sempre lì, isolata, a fronteggiare l'oceano infinito dal a sommità del capo. Lo scorso inverno un temporale ha demolito quel che restava del piccolo pontile sul a spiaggia.

Un facoltoso gioiel iere arrivato da qualche città senza nome era tentato di comprarla per una cifra irrisoria, ma i venti di ponente e l'impeto delle onde sul a scogliera si sono assunti il compito di dissuaderlo. Il salmastro ha fatto breccia nel legno bianco. Il viottolo segreto che conduceva al a laguna ora è una giungla impenetrabile, fitta di arbusti selvatici e di rami caduti.

Qualche pomeriggio, quando il lavoro al molo me lo consente, prendo la bicicletta e vado fino al capo per contemplare il crepuscolo dal a veranda sospesa sul a scogliera: soltanto io e uno stormo di gabbiani che sembrano essersi aggiudicati il ruolo di nuovi inquilini senza passare da qualche notaio. Da lì si può ancora vedere la luna che disegna una ghirlanda d'argento verso la Grotta dei Pipistrelli mentre sale sul 'orizzonte.

Ricordo che una volta ti ho parlato di questa grotta e ti ho raccontato la favolosa leggenda di un sinistro pirata corso la cui nave ne è stata inghiottita in una notte del 1746.

Ho mentito. Non c'è mai stato nessun contrabbandiere né bucaniere attaccabrighe che si sia avventurato nelle tenebre di quella grotta. In mia difesa posso dire che è stata l'unica bugia che hai sentito dal e mie labbra. Anche se, probabilmente, lo hai sospettato subito.

Stamattina, mentre liberavo le reti impigliate nella scogliera, è successo un'altra volta. Per un attimo ho creduto di scorgerti sul a veranda della Casa del Capo, mentre guardavi in silenzio verso l'orizzonte, come ti piaceva fare.

Quando i gabbiani si sono alzati in volo, ho visto che non c'era nessuno. Più oltre, cavalcando sul a nebbia, si ergeva Mont Saint-Michel, come un'isola fuggitiva arenata nella marea.

A volte penso che se ne sono andati tutti in qualche luogo lontano da Baia Azzurra e che io sono rimasto intrappolato nel tempo, sperando invano che la marea purpurea di settembre mi restituisca qualcosa di più dei ricordi. Non ci fare caso. Il mare ha questa capacità; restituisce tutto dopo un po' di tempo, specialmente i ricordi. Credo che, se conto questa, sono ormai cento le lettere che ti ho spedito al 'ultimo tuo indirizzo di Parigi che sono riuscito a procurarmi. A volte mi chiedo se ne hai ricevuta qualcuna, se ti ricordi ancora di me e di quel 'alba sul a Spiaggia dell'Inglese. Forse è così, o forse la vita ti ha portato lontano da qui, lontano da tutti i ricordi della guerra. La vita era molto più semplice al ora, ricordi?

Cosa dico? Certo che no. Comincio a pensare che sono soltanto io, povero stupido, a vivere ancora del ricordo di ciascuno di quei giorni del 1937, quando eri ancora qui, accanto a me..


1. Il cielo sopra Parigi

Parigi, 1936.

Quanti ricordano la notte in cui morì Armand Sauvelle giurano che un lampo purpureo attraversò la volta del cielo, tracciando una scia di cenere ardente che si perdeva all'orizzonte; un bagliore che sua figlia Irene non poté mai vedere, ma che avrebbe stregato i suoi sogni per molti anni.

Era una fredda mattina invernale, e i vetri della stanza numero quattordici dell'ospedale Saint-George erano ricoperti da una sottile pellicola di ghiaccio che disegnava spettrali acquerelli della città nelle tenebre dorate dell'alba.

La fiamma di Armand Sauvelle si spense in silenzio, quasi senza un sospiro. Sua moglie Simone e sua figlia Irene sollevarono lo sguardo quando i primi bagliori che incrinavano la linea della notte tracciarono aghi di luce lungo tutta la stanza. Dorian, il figlio minore, dormiva su una sedia. Un silenzio impressionante invase la sala. Non fu necessario scambiare nemmeno una parola per capire quello che era accaduto. Dopo sei mesi di sofferenza, il nero fantasma di una malattia, il cui nome Armand Sauvelle non era mai stato in grado di pronunciare, gli aveva strappato la vita. Tutto qui. Questo fu l'inizio dell'anno peggiore che la famiglia Sauvelle avrebbe ricordato.

Armand Sauvelle si portò nella tomba la sua magia e la sua risata contagiosa, ma i suoi numerosi debiti non lo accompagnarono nell'ultimo viaggio. Ben presto, una corte di creditori e ogni sorta di avvoltoi con finanziera e titolo onorifico presero l'abitudine di recarsi a casa Sauvelle, in boulevard Haussmann. Le fredde visite di cortesia si trasformarono in velate minacce. E queste, con il tempo, in pignoramenti. Scuole di prestigio e vestiti di impeccabile fattura furono sostituiti da lavori saltuari e da abiti più modesti per Irene e Dorian. Era l'inizio della vertiginosa discesa dei Sauvelle nel mondo reale.

Tuttavia, la parte peggiore del viaggio toccò a Simone.

Riprendere il lavoro di maestra non bastava a far fronte al torrente di debiti che divorava le sue scarse risorse. Da ogni angolo spuntava un nuovo documento firmato da Armand, una nuova cambiale non pagata, un nuovo buco nero senza fondo. .

Fu allora che il piccolo Dorian cominciò a sospettare che la metà degli abitanti di Parigi fosse composta da avvocati e contabili, una specie di topi che abitavano in superficie. Fu sempre allora che Irene, all'insaputa della madre, accettò un lavoro in una sala da ballo. Ballava con i soldati, poco più che adolescenti spaventati, per pochi spiccioli (spiccioli che, all'alba, metteva nella cassetta custodita da Simone sotto l'acquaio).

Allo stesso modo, i Sauvelle scoprirono che l'elenco di quanti si dichiaravano loro amici e benefattori si dissolveva come la brina all'alba. Nonostante tutto, arrivata l'estate, Henri Leconte, un vecchio amico di Armand Sauvelle, offrì alla famiglia la possibilità di sistemarsi nel piccolo appartamento sopra il negozio di articoli da disegno che gestiva a Montparnasse. Il pagamento dell'affitto lo lasciava a tempi migliori, in cambio dell'aiuto di Dorian come fattorino, dal momento che le sue ginocchia non erano più quelle di una volta. Simone non trovò mai parole sufficienti per ringraziare la bontà del vecchio Leconte. E mai il commerciante le chiese. In un mondo di topi si erano imbattuti in un angelo.

Quando i primi giorni dell'inverno fecero capolino, Irene compì quattordici anni, che le pesarono come se fossero ventiquattro. Quel giorno, spese i soldi guadagnati nella sala da ballo per comprare una torta e festeggiare il suo compleanno con Simone e Dorian. L'assenza di Armand incombeva su di loro come un'ombra opprimente. Insieme spensero le candeline della torta nell'angusto soggiorno dell'appartamento di Montparnasse, pregando che, con le fiamme, si spegnesse lo spettro della sfortuna che li aveva perseguitati in quei mesi. Per una volta il loro desiderio non fu ignorato. Ancora non lo sapevano, ma quell'anno di tenebre stava giungendo al termine.

Qualche settimana più tardi, una luce di speranza si accese insperatamente all'orizzonte della famiglia Sauvelle. Grazie alle arti di monsieur Leconte e alla sua rete di conoscenze, comparve la promessa di un buon impiego per Simone in un piccolo paese sulla costa, Baia Azzurra, lontano dalla grigia nebbia di Parigi, lontano dai tristi ricordi degli ultimi giorni di Armand Sauvelle. Sembrava che un facoltoso inventore e fabbricante di giocattoli, un certo Lazarus Jann, avesse bisogno di una governante che si prendesse cura della sua residenza nel bosco di Cravenmoore.

L'inventore viveva nell'immensa dimora, contigua alla sua vecchia fabbrica di giocattoli ormai chiusa, con la sola compagnia della moglie Alexandra, gravemente malata e prostrata da vent'anni in una stanza della grande casa. Lo stipendio era generoso, e inoltre Lazarus Jann offriva loro l'opportunità di sistemarsi nella Casa del Capo, una modesta residenza costruita sulle scogliere alla punta del capo, dall'altro lato del bosco di Cravenmoore.

A metà giugno del 1937, monsieur Leconte salutò la famiglia Sauvelle dal binario sei della stazione di Austerlitz. Simone e i suoi figli salirono su un treno che li avrebbe portati verso la costa della Normandia. Mentre guardava perdersi ogni traccia del treno, il vecchio Leconte sorrise tra sé e, per un attimo, ebbe il presentimento che la storia dei Sauvelle, la loro vera storia, fosse appena iniziata.

2. Geografia e anatomia

Normandia, estate del 1937.

Nel primo giorno alla Casa del Capo, Irene e la madre cercarono di mettere un po' d'ordine in quella che sarebbe stata la loro dimora. Nel frattempo, Dorian scopriva la sua nuova passione: la geografia o, più esattamente, disegnare mappe. Fornito di matite e di un quaderno che gli aveva regalato Henri Leconte alla partenza, il figlio minore di Simone Sauvelle si ritirò in un piccolo santuario tra gli scogli, una posizione privilegiata dalla quale si godeva una vista spettacolare.

Il paese e il suo modesto molo di pescatori si trovavano al centro della grande baia. Verso est si estendeva una spiaggia infinita di sabbia bianca, un deserto di perle di fronte al mare, conosciuta come la Spiaggia dell'Inglese. Più in là, la punta del capo si protendeva verso l'acqua come un artiglio affilato.

La nuova casa dei Sauvelle si trovava sulla sua estremità, che separava Baia Azzurra dall'ampio golfo che i locali chiamavano Baia Nera, per le sue acque buie e profonde. Al largo, tra la nebbia evanescente, Dorian riusciva a scorgere l'isolotto del faro, a mezzo miglio dalla costa. La torre del faro si ergeva oscura e misteriosa, confondendosi tra le brume. Se volgeva lo sguardo verso terra, Dorian poteva vedere la sorella Irene e la madre nella veranda della Casa del Capo.

La loro nuova dimora era una casa a due piani di legno bianco, incastonata fra gli scogli: una terrazza sospesa nel vuoto. Oltre la casa si estendeva il bosco e, sopra le cime degli alberi, si intravedeva la maestosa residenza di Lazarus Jann, Cravenmoore.

Cravenmoore somigliava piuttosto a un castello, alla fantasia di una cattedrale, frutto di un'immaginazione stravagante e tormentata. Un labirinto di archi, sordini, torri e cupole componeva il suo tetto irregolare. La costruzione aveva una pianta a croce dalla quale si dipartivano le diverse ali.

Dorian osservò attentamente il sinistro profilo della magione di Lazarus Jann. Un esercito di gargolle e angeli scolpiti nella pietra stava di guardia ai fregi della facciata come uno stormo di spettri raggelati in attesa della notte. Mentre chiudeva il quaderno e si apprestava a tornare alla Casa del Capo, Dorian si chiese che genere di persona poteva scegliere di abitare in un posto simile. Non avrebbe tardato molto a scoprirlo: quella sera erano invitati a cena a Cravenmoore.

Una gentilezza del loro benefattore, Lazarus Jann. La nuova stanza di Irene era orientata a nordovest.

Dalla finestra poteva vedere l'isolotto del faro e le chiazze di luce che il sole disegnava sull'oceano, lagune d'argento incendiato. Dopo aver trascorso mesi chiusa nell'angusto appartamento di Parigi, possedere una stanza tutta per sé le pareva un lusso quasi offensivo. La possibilità di chiudere la porta, di godere di uno spazio riservato alla sua intimità era una sensazione inebriante.

Mentre contemplava il sole a ponente tingere di rame il mare, Irene affrontò il dilemma di quali abiti sfoggiare per la sua prima cena con Lazarus Jann. Le era rimasta solo una piccola parte di quello che era stato il suo ricco guardaroba. All'idea di essere ricevuta nella grande casa di Cravenmoore, tutti i suoi vestiti le sembravano stracci di cui vergognarsi. Dopo essersi provata gli unici due abiti che sarebbero potuti andare bene per una simile occasione, Irene si rese conto dell'esistenza di un nuovo problema che non aveva valutato.

Da quando aveva compiuto tredici anni, il suo corpo sembrava impegnato a riempirsi in alcuni punti e ad assottigliarsi in altri. Ora, vicina ai quindici, mentre si guardava allo specchio, i capricci della natura si erano fatti più che mai evidenti. La nuova silhouette curvilinea non coincideva con il taglio severo del suo polveroso guardaroba.

Un festone di riflessi scarlatti si allungava su Baia Azzurra quando, poco prima del tramonto, Simone Sauvelle bussò piano alla porta.

«Avanti.»


Sua madre si chiuse la porta alle spalle e fece una rapida radiografia della situazione. Tutti i vestiti di Irene erano appoggiati sul letto. La figlia, vestita di una semplice camicetta bianca, contemplava dalla finestra le luci lontane delle navi nel canale. Simone osservò il corpo slanciato di Irene e sorrise tra sé.

«Il tempo passa e non ce ne rendiamo conto, eh?»

«Non me ne entra nemmeno uno. Mi dispiace» rispose Irene. «Ci ho provato.»

Simone si avvicinò alla finestra e si mise accanto alla figlia. Le luci del paese al centro della baia disegnavano acquerelli di luce sull'acqua. Per un istante, entrambe contemplarono l'impressionante spettacolo del crepuscolo su Baia Azzurra. Simone accarezzò il viso della figlia e sorrise.

«Credo che questo posto ci piacerà. Tu che ne dici?» chiese.

«E noi? Piaceremo a lui?»

«A Lazarus?»

Irene annuì.

«Siamo una famiglia affascinante. Ci adorerà» rispose Simone.

«Sei sicura?»

«Meglio che sia così, ragazzina.»

Irene le indicò i vestiti.

«Provane uno dei miei» sorrise Simone. «Credo che ti staranno meglio che a me.»

Irene arrossì leggermente.

«Esagerata» rimproverò la madre. «Tempo al tempo.»

Lo sguardo che Dorian rivolse alla sorella quando la vide apparire ai piedi delle scale, con indosso un abito della madre, avrebbe vinto un concorso. Irene fissò i suoi occhi verdi in quelli di Dorian e, alzando minacciosa l'indice, gli diede un velato avvertimento:

«Nemmeno una parola.»

Dorian, muto, annuì, incapace di distogliere gli occhi da quella sconosciuta che parlava con la stessa voce di sua sorella Irene e sfoggiava il suo stesso volto. Simone colse la sua espressione e trattenne un sorriso. Poi, con solenne serietà, posò una mano sulla spalla del ragazzo e si mise di fronte a lui per aggiustargli il papillon viola, eredità del padre.

«Vivi circondato da donne, figlio mio. Ti ci abituerai.»

Dorian annuì di nuovo, fra il rassegnato e il terrorizzato. Quando l'orologio della parete annunciò le otto, erano tutti inguainati nei loro abiti più eleganti, pronti per il grande appuntamento. Per il resto, morti di paura.

Una tenue brezza soffiava dal mare e agitava le fronde degli alberi che circondavano Cravenmoore. Il fruscio invisibile delle foglie accompagnava l'eco dei passi di Simone e dei suoi figli sul sentiero che attraversava il bosco, un vero e proprio tunnel scavato in una selva scura e impenetrabile. Il pallido volto della luna lottava per attraversare il sudario di ombre che avvolgeva la foresta. Il canto degli uccelli appollaiati in cima a quei giganti centenari componeva un'inquietante litania.

«Questo posto mi dà i brividi» commentò Irene.

«Sciocchezze» si affrettò a zittirla la madre. «È semplicemente un bosco. Forza.»

Dorian, dalla sua posizione di retroguardia, osservava in silenzio le ombre della foresta. L'oscurità creava sagome sinistre e catapultava la sua immaginazione a stanare decine di creature diaboliche in agguato.

«Alla luce del giorno questi non sono che cespugli e alberi» precisò Simone Sauvelle, riducendo in polvere l'effimero incantesimo con cui Dorian si stava trastullando.

Pochi minuti dopo, alla fine di una traversata notturna che a Irene sembrò interminabile, l'imponente e spigolosa sagoma di Cravenmoore si ritagliò di fronte a loro come un castello delle favole che emergeva dalla nebbia. Fasci di luce dorata tremolavano dietro le grandi finestre dell'immensa residenza di Lazarus Jann. Un bosco di gargolle si stagliava contro il cielo. Poco oltre si poteva distinguere la fabbrica di giocattoli annessa alla casa.

Oltrepassata la foresta, Simone e i figli si fermarono a contemplare l'impressionante mole della residenza dell'inventore di giocattoli. In quel momento, un uccello simile a un corvo emerse dalla boscaglia, battendo le ali, e tracciò una curiosa traiettoria sul giardino che circondava Cravenmoore, poi volò in circolo su una delle fontane di pietra e andò a posarsi ai piedi di Dorian. Quando le sue ali smisero di battere, il corvo si stese su un fianco e si abbandonò a un lento dondolio finché non restò immobile. Il ragazzo si inginocchiò e allungò la mano verso l'animale.

«Stai attento» lo ammonì Irene.

Dorian, ignorando il consiglio, accarezzò le piume del corvo. L'uccello non diede segni di vita. Il bambino lo prese tra le mani e gli distese le ali. Una smorfia di perplessità gli oscurò il viso. Qualche attimo dopo si girò verso Irene e Simone.

«È di legno» mormorò. «È una macchina.»

I tre si scambiarono uno sguardo in silenzio.

Simone sospirò e raccomandò ai figli:

«Cerchiamo di fare una buona impressione. D'accordo?»

I ragazzi annuirono. Dorian rimise a terra l'uccello di legno. Simone Sauvelle sorrise debolmente e, al suo cenno di approvazione, i tre cominciarono a salire lungo la scalinata di marmo bianco che serpeggiava verso il grande portone di bronzo, oltre il quale si celava il mondo segreto di Lazarus Jann.

Le porte di Cravenmoore si aprirono davanti a loro prima che bussassero con lo strano batacchio di bronzo che raffigurava il volto di un angelo.

Dall'interno della casa si irradiava un intenso alone di luce dorata. Una sagoma immobile si stagliava in quel chiarore. La figura prese improvvisamente vita e inclinò la testa, mentre si sentiva un leggero ticchettio meccanico. Il volto affiorò alla luce. Occhi privi di vita, semplici sfere di vetro incastrate in una maschera senza altra espressione se non un raccapricciante sorriso, li guardavano.

Dorian deglutì. Irene e la madre, più impressionabili, fecero un passo indietro. La sagoma tese una mano verso di loro e restò di nuovo immobile.

«Spero che Christian non vi abbia spaventati. È una vecchia e goffa creazione.»

I Sauvelle si voltarono verso la voce che proveniva dai piedi della scalinata. Un viso amabile, prossimo a un'invidiabile maturità, sorrideva non senza una certa malizia. Gli occhi erano azzurri e brillavano sotto una gran massa di capelli argentati e pettinati con cura. Impeccabilmente vestito, con in mano un bastone di ebano policromo, l'uomo si avvicinò e si produsse in un rispettoso inchino.

«Mi chiamo Lazarus Jann e credo di dovervi delle scuse» disse.

La sua voce era calda, confortante, una di quelle voci dotate di un potere tranquillizzante e di una rara serenità. I suoi grandi occhi azzurri osservarono attentamente ciascun membro della famiglia e, alla fine, si posarono sul viso di Simone.

«Stavo facendo la mia solita passeggiata serale nel bosco e mi sono attardato. Madame Sauvelle, se non sbaglio. .»

«È un piacere, signore.»

«Per favore, mi chiami Lazarus.»

Simone annuì.

«Questa è mia figlia Irene. E questo è Dorian, il beniamino della famiglia.»

Lazarus Jann strinse sollecitamente le mani a entrambi. La sua stretta era ferma e gradevole; il sorriso contagioso.

«Bene. Per quanto riguarda Christian, non dovete assolutamente temerlo. Lo tengo come ricordo del mio primo periodo. È goffo e il suo aspetto non è amichevole, lo so.»

«È una macchina?» si affrettò a chiedere Dorian, affascinato.

Lo sguardo censorio di Simone arrivò tardi. Lazarus sorrise al ragazzo.

«Potremmo chiamarlo così. Tecnicamente, Christian è quello che definiamo un automa.»

«Lo ha costruito lei, signore?»

«Dorian» lo riprese sua madre.

Lazarus sorrise di nuovo. Evidentemente la curiosità del ragazzo non lo infastidiva affatto.

«Sì. Lui e molti altri. Questo è, o meglio era, il mio lavoro. Però credo che la cena ci attenda. Che ne dite se continuiamo a parlare di tutto questo davanti a un buon piatto e così ci conosciamo meglio?»

Il profumo di un delizioso arrosto arrivò fino a loro come un elisir incantato. Perfino una pietra avrebbe potuto leggere nei loro pensieri.

Né la sorprendente accoglienza dell'automa né l'incredibile aspetto esterno di Cravenmoore potevano far presagire ai Sauvelle l'impressione che su di loro fecero gli interni della dimora di Lazarus Jann.

Appena oltrepassarono la soglia, i tre si ritrovarono immersi in un mondo fantastico che andava molto oltre quello che la somma delle loro tre immaginazioni poteva arrivare a concepire.


Una sontuosa scalinata sembrava ascendere a spirale verso l'infinito. Alzando lo sguardo, i Sauvelle ammirarono una fuga che portava alla torre centrale di Cravenmoore, coronata da una lanterna magica che inondava di una luce livida ed evanescente l'atmosfera degli interni. Sotto questo manto di chiarore spettrale si rivelava un'interminabile galleria di creature meccaniche. Un grande orologio a parete, dotato di occhi e di una smorfia grottesca, sorrideva ai visitatori. Una ballerina avvolta in un velo trasparente girava su se stessa al centro di una sala ovale, dove ogni oggetto, ogni dettaglio, faceva parte della fauna creata da Lazarus Jann.

I pomelli delle porte erano volti sorridenti che, se girati, facevano l'occhiolino. Un grande gufo, con un magnifico piumaggio, dilatava le pupille di vetro e batteva lentamente le ali nella nebbia. Decine o forse centinaia di miniature e di giocattoli occupavano un'infinità di muri e vetrine che ci sarebbe voluta una vita per esplorare. Un cucciolo meccanico giocherellone muoveva la coda e abbaiava al passaggio di un topolino di metallo. Sospesa al soffitto invisibile, una giostra di fate, draghi e stelle danzava nel vuoto, intorno a un castello che fluttuava fra nuvole di ovatta al suono del lontano tintinnio di un carillon. .

Ovunque dirigessero lo sguardo, i Sauvelle scoprivano nuovi prodigi, nuovi marchingegni impossibili che facevano impallidire tutto ciò che avevano visto prima. Sotto gli occhi divertiti di Lazarus, i tre restarono così, prigionieri di quello stato di assoluto incantamento, per diversi minuti.

«È. . è meraviglioso» disse Irene, incapace di credere a quanto le mostravano i suoi occhi.

«Bene, questo è solo l'ingresso. Ma sono felice che vi piaccia» annuì Lazarus, guidandoli verso la grande sala da pranzo di Cravenmoore.

Dorian, a corto di parole, contemplava tutto con occhi grandi come piatti. Simone e Irene, non meno impressionate, facevano il possibile per non cadere nell'ipnotico stato di sogno indotto dalla casa.

La sala dove veniva servita la cena era all'altezza di quel che prometteva l'ingresso. Dai bicchieri ai servizi di posate, ai piatti o ai lussuosi tappeti che ricoprivano i pavimenti, tutto portava il sigillo di Lazarus Jann.

Non un solo oggetto sembrava appartenere al mondo reale, grigio e odiosamente normale che si erano lasciati alle spalle entrando in quella casa. Malgrado ciò, agli occhi di Irene non sfuggì l'immenso ritratto appeso sopra il camino, le cui fiamme sgorgavano dalle fauci di alcuni draghi. Una donna di abbagliante bellezza che indossava un abito bianco. Il potere del suo sguardo aveva oltrepassato la frontiera tra la realtà e i pennelli dell'artista. Per qualche secondo, Irene si perse in quello sguardo magico e inebriante.

«Mia moglie Alexandra. . Quando era ancora in buona salute. Giorni meravigliosi, quelli» disse la voce di Lazarus alle sue spalle, avvolta da un velo di malinconia e rassegnazione.

La serata trascorse piacevolmente alla luce delle candele. Lazarus Jann si rivelò un eccellente anfitrione che seppe subito guadagnarsi la simpatia di Dorian e Irene con battute e storie sorprendenti.

Nel corso della cena raccontò che i deliziosi piatti che stavano gustando erano opera di Hannah, una ragazza dell'età di Irene che lavorava per lui come cuoca e cameriera personale. Dopo pochi minuti, la tensione iniziale sparì e tutti parteciparono alla tranquilla conversazione che l'inventore di giocattoli sapeva condurre con abilità impercettibile. Quando iniziarono a degustare il secondo, l'arrosto di tacchino specialità di Hannah, i Sauvelle si sentivano alla presenza di un vecchio conoscente.

Simone si rasserenò avvertendo che la corrente di simpatia tra i figli e Lazarus era reciproca, e che lei stessa non era insensibile al suo fascino. Fra un aneddoto e l'altro, Lazarus fornì abbondanti spiegazioni sulla casa e sul tipo di compiti che li aspettavano. Il venerdì era la serata libera di Hannah, che la trascorreva con la sua modesta famiglia a Baia Azzurra. Ma Lazarus li informò che avrebbero avuto l'opportunità di conoscerla appena fosse tornata al lavoro. Hannah era l'unica persona, a parte Lazarus e la moglie, che viveva a Cravenmoore. Lei li avrebbe aiutati ad ambientarsi e a risolvere qualunque eventuale problema riguardante la casa. Arrivati al dolce, un'irresistibile torta di lamponi, Lazarus passò a chiarire cosa si aspettava da loro.

Nonostante fosse ormai in pensione, continuava a lavorare saltuariamente nel laboratorio di giocattoli,situato in un'ala contigua a Cravenmoore. Tanto il laboratorio quanto le camere dei piani superiori erano loro vietate. Non dovevano entrarvi per nessun motivo. Soprattutto nell'ala ovest della casa, dove si trovavano le stanze di sua moglie.

Alexandra Jann soffriva, da più di vent'anni, di una strana malattia che la costringeva al riposo assoluto a letto. La moglie di Lazarus viveva ritirata nella sua stanza al terzo piano dell'ala ovest, dove solo il marito entrava per curarla e prestarle le attenzioni di cui aveva bisogno nel suo stato precario.

L'inventore di giocattoli raccontò come la moglie, che una volta era stata una ragazza bellissima e piena di vita, avesse contratto la misteriosa malattia nel corso di un viaggio nel Centro Europa.

Il virus, che sembrava incurabile, si era impadronito di lei a poco a poco. Ben presto, non poteva quasi camminare né reggere un oggetto in mano. Nel giro di sei mesi il suo stato era peggiorato tanto da renderla un'invalida, un triste riflesso della persona che lui aveva sposato solo pochi anni prima. Un anno dopo aver contratto la malattia, la sua memoria aveva iniziato a svanire, e poche settimane più tardi era appena in grado di riconoscere il marito. Da allora aveva smesso di parlare e il suo sguardo era divenuto un pozzo senza fondo. A quell'epoca Alexandra Jann aveva ventisei anni. Da quel giorno non era più uscita da Cravenmoore.

I Sauvelle ascoltarono il triste racconto di Lazarus in rispettoso silenzio. L'inventore, ovviamente amareggiato dal ricordo e da due decenni di vita trascorsi nella solitudine e nel dolore, volle chiudere la parentesi spostando la conversazione sulla bontà della torta di Hannah. Tuttavia, la cupa amarezza del suo sguardo non passò inavvertita a Irene.

Non le costava immaginare la fuga verso il nulla di Lazarus Jann. Privato di quel che più amava, Lazarus si era rifugiato nel suo mondo di fantasia e aveva creato centinaia di esseri e oggetti con i quali riempire la profonda solitudine che lo circondava.

Ascoltando le parole dell'inventore di giocattoli, Irene capì che non avrebbe mai più potuto vedere quell'universo di debordante immaginazione che popolava Cravenmoore come una spettacolare e impressionante acrobazia del genio che l'aveva creato. Per lei, che aveva imparato a riconoscere il vuoto della perdita nella propria carne, Cravenmoore non era altro che l'oscuro riflesso del labirinto di solitudine in cui Lazarus Jann aveva vissuto gli ultimi vent'anni. Ogni abitante di quel mondo meraviglioso, ogni creazione, corrispondeva a una lacrima pianta in silenzio.

Finita la cena, Simone Sauvelle aveva capito chiaramente quali fossero i suoi compiti e le sue responsabilità nella casa. Il suo ruolo era simile a quello di una governante, un lavoro che aveva poco a che fare con il suo originario mestiere di maestra, ma che era pronta a svolgere al meglio per garantire un futuro di benessere ai figli. Simone avrebbe sovrinteso al lavoro di Hannah e dei domestici occasionali, si sarebbe fatta carico dell'amministrazione e della gestione della proprietà di Lazarus Jann, dei rapporti con fornitori e commercianti del paese, della corrispondenza, delle provviste e di garantire che niente e nessuno interferisse con la scelta dell'inventore di appartarsi dal mondo esterno. Nello stesso tempo, il suo incarico prevedeva l'acquisizione dei libri per la biblioteca di Lazarus.

A questo riguardo, il proprietario di Cravenmoore le fece capire che i suoi trascorsi di educatrice erano stati determinanti nel preferirla ad altre candidate con maggiore esperienza nel servizio. Lazarus ribadì che questo compito era fra i più importanti del suo lavoro. In cambio di queste mansioni, Simone e i suoi figli potevano abitare la Casa del Capo e ricevere uno stipendio più che ragionevole. Lazarus si sarebbe fatto carico delle spese per l'istruzione di Irene e Dorian dal successivo anno scolastico, dopo l'estate. Inoltre, si impegnava a pagare gli studi universitari di entrambi qualora avessero mostrato attitudine e volontà. Irene e Dorian, da parte loro, potevano collaborare con la madre nelle faccende che lei riteneva di assegnare loro in casa, a patto di rispettare la regola aurea: non oltrepassare i limiti stabiliti dal proprietario.

Considerando i mesi precedenti, i debiti e la miseria, a Simone Sauvelle l'offerta di Lazarus sembrava una benedizione del cielo. Baia Azzurra era un luogo paradisiaco per iniziare una nuova vita con i figli.

Il lavoro era più che accettabile e Lazarus prometteva di essere un padrone magnanimo e benevolo.

Prima o poi la sorte doveva sorriderle. Il destino aveva deciso che accadesse in quel luogo isolato e, per la prima volta dopo molto tempo, Simone era disposta ad accettare con piacere i suoi piani. Inoltre, se l'istinto non la ingannava, e in genere non succedeva, coglieva una sincera corrente di simpatia verso di lei e la sua famiglia. Non era difficile immaginare che la loro compagnia e la loro presenza a Cravenmoore potevano rappresentare un balsamo per l'immensa solitudine che sembrava circondare il proprietario.

La cena terminò con un caffè e con la promessa di Lazarus che un giorno avrebbe iniziato un Dorian completamente ammaliato ai misteri della costruzione degli automi. Gli occhi del ragazzo si accesero di entusiasmo per quell'offerta e, per un breve istante, gli sguardi di Lazarus e Simone si incontrarono fugacemente alla luce delle candele. Simone vi riconobbe le tracce di anni di solitudine, un'ombra che conosceva bene. Navi alla deriva che si incrociavano nella notte. L'inventore di giocattoli socchiuse gli occhi e si alzò in silenzio, il segnale che la serata era giunta al termine.

Li guidò fino alla porta principale, fermandosi brevemente a spiegare alcuni dei prodigi che popolavano il percorso. Dorian e Irene restavano a bocca aperta a ogni dettaglio che veniva rivelato.

Cravenmoore ospitava meraviglie sufficienti a illuminare cent'anni di stupore. Poco prima di arrivare all'ingresso, Lazarus si fermò davanti a quello che pareva un complesso meccanismo di specchi e lenti, e rivolse uno sguardo enigmatico a Dorian. Senza dire una parola, introdusse il braccio in un corridoio di specchi. Lentamente, il riflesso della sua mano si dissolse fino a diventare invisibile. Lazarus sorrise.

«Non devi credere a tutto ciò che vedi. L'immagine della realtà che ci offrono i nostri occhi è solo un'illusione, un effetto ottico» disse. «La luce è una gran bugiarda. Dammi la mano.»

Dorian ubbidì e lasciò che il fabbricante di giocattoli la guidasse attraverso il corridoio di specchi.

L'immagine della mano gli si disintegrò davanti agli occhi. Allora, con una domanda muta nello sguardo, si voltò verso Lazarus.

«Conosci le leggi dell'ottica e della luce?» gli chiese l'uomo.

Dorian fece di no con la testa. In quel momento non sapeva neppure dove fosse la sua mano destra.

«La magia è soltanto un'estensione della fisica. Come te la cavi in matematica?»

«A parte la trigonometria, così e così. .»

Lazarus sorrise.

«Cominceremo da lì. La fantasia è numeri, Dorian. È questo il trucco.»

Il ragazzo annuì, senza sapere troppo bene di cosa stesse parlando Lazarus. Alla fine l'inventore indicò la porta e li accompagnò fino alla soglia. Fu allora che Dorian, quasi casualmente, credette di vedere l'impossibile. Passando davanti a uno dei lampioni tremolanti, le sagome dei loro corpi si disegnarono sopra i muri. Tutte meno una: quella di Lazarus, la cui traccia sulla parete era invisibile, come se la sua presenza non fosse che un'illusione.

Quando si voltò, l'uomo lo osservava con attenzione. Il ragazzino deglutì. L'inventore di giocattoli gli pizzicò teneramente la guancia, scherzoso.

«Non credere a tutto quello che vedono i tuoi occhi. .»

E Dorian seguì la madre e la sorella all'esterno.

«Grazie di tutto e buona notte» concluse Simone.

«È stato un piacere. E non è una formalità» disse cordialmente Lazarus. Sorrise amabile e alzò la mano in segno di saluto.

I Sauvelle si addentrarono nel bosco poco prima di mezzanotte, di ritorno verso la Casa del Capo.

Dorian, silenzioso, era ancora sotto gli effetti della prodigiosa dimora di Lazarus Jann. Irene era persa nei suoi pensieri, lontana dal mondo. E Simone, da parte sua, respirò tranquilla e ringraziò Dio per la fortuna che aveva loro mandato.

Appena prima che la sagoma di Cravenmoore scomparisse alle sue spalle, Simone si voltò a guardarla un'ultima volta. Una sola finestra restava illuminata al secondo piano dell'ala ovest. Oltre le tende, una figura si stagliava immobile. In quel preciso momento, la luce si spense e la grande vetrata fu sommersa dalle ombre.

Rientrata nella sua stanza, Irene si tolse il vestito che le aveva prestato la madre e lo piegò accuratamente sulla sedia. Dalla camera accanto si sentivano le voci di Simone e Dorian. La ragazza spense la luce e si stese sul letto. Ombre azzurrate danzavano sul soffitto come una cavalcata di spettri ballerini nell'aurora boreale. Il sussurro delle onde che si infrangevano sugli scogli accarezzava il silenzio. Irene chiuse gli occhi e cercò inutilmente di prendere sonno.

Era difficile accettare che da quella notte non avrebbe più rivisto il suo vecchio appartamento di Parigi, né sarebbe tornata alla sala da ballo per guadagnarsi i pochi soldi che quei soldati avevano con sé.

Sapeva che le ombre della grande città non potevano raggiungerla fin lì, ma l'orma del ricordo non conosceva frontiere. Si rialzò e si avvicinò alla finestra.

La torre del faro si ergeva nell'oscurità. Concentrò lo sguardo sull'isolotto fra la nebbia incandescente.

Un riflesso fugace parve brillare nella notte, come l'ammicco di uno specchio distante. Pochi attimi dopo, il luccichio comparve di nuovo per poi svanire definitivamente. Irene aggrottò la fronte e si accorse della presenza di sua madre giù in veranda. Simone, avvolta in un pesante maglione, osservava il mare in silenzio. Senza bisogno di vedere il suo volto nel buio, Irene seppe che stava piangendo e che entrambe avrebbero faticato a prendere sonno.

In quella prima notte nella Casa del Capo, dopo quel passo iniziale verso ciò che sembrava un orizzonte di felicità, l'assenza di Armand Sauvelle si faceva più dolorosa che mai.

3. Baia Azzurra

Di tutte le albe della sua vita, nessuna sarebbe sembrata a Irene più luminosa di quella del 22 giugno 1937. Il mare risplendeva come un manto di diamanti sotto un cielo la cui trasparenza lei non avrebbe mai creduto possibile negli anni trascorsi in città. Dalla sua finestra ora si poteva vedere chiaramente l'isolotto del faro, allo stesso modo delle piccole rocce che emergevano dal centro della baia come la cresta di un drago sottomarino. La fila ordinata di case sulla passeggiata del paese, oltre la Spiaggia dell'Inglese, disegnava un acquerello danzante nella caligine che saliva dal molo dei pescatori. Se socchiudeva gli occhi, poteva vedere il paradiso secondo Monet, il pittore prediletto da suo padre.

Irene spalancò la finestra e lasciò che la brezza del mare, impregnata del profumo del salmastro, inondasse la stanza. Lo stormo di gabbiani che abitava la scogliera si voltò a guardarla con una certa curiosità. Nuovi vicini. Non lontano da loro, Irene vide Dorian già sistemato nel suo rifugio preferito tra le rocce, intento a catalogare miraggi con la testa fra le nuvole, o preso da qualunque cosa facesse nelle sue escursioni solitarie.

Irene era già concentrata su cosa indossare per uscire a godersi quella mattina rubata a qualche sogno, quando sentì una voce sconosciuta, allegra e concitata, che proveniva dal piano di sotto. Pochi secondi di attento ascolto rivelarono il timbro calmo e misurato di sua madre che conversava, o meglio, che cercava di collocare dei monosillabi tra i pochi spiragli concessi dalla sua interlocutrice.

Mentre si vestiva, Irene provò a farsi un'idea dell'aspetto di quella persona attraverso la voce. Da piccola, era stato uno dei suoi passatempi preferiti. Ascoltare una voce a occhi chiusi e cercare di immaginare a chi appartenesse: stabilire la statura, il peso, il volto, il carattere. .

Stavolta il suo istinto delineava una donna giovane, di bassa statura, nervosa e agitata, bruna e probabilmente con gli occhi scuri. E con questo ritratto in mente decise di scendere al piano inferiore con due obiettivi: saziare la fame mattutina con una buona colazione e, soprattutto, la curiosità riguardo alla proprietaria di quella voce.

Appena mise piede al pianoterra, verificò che aveva commesso un solo errore: i capelli della ragazza erano color paglia. Per il resto, centrato il bersaglio. Fu così che Irene conobbe la chiacchierona e pittoresca Hannah; semplicemente ascoltandola.

Simone Sauvelle fece il possibile per ricambiare con una deliziosa colazione la cena preparata la sera prima da Hannah per il loro incontro con Lazarus Jann. La ragazza divorava il cibo a una velocità ancora maggiore di quella con la quale parlava. Il torrente di aneddoti, pettegolezzi e storie di ogni tipo sul paese e i suoi abitanti, che sgranava come un fulmine, fece sì che dopo pochi minuti in sua compagnia Simone e Irene avessero la sensazione di conoscerla da una vita.

Tra una fetta di pane tostato e l'altra, Hannah tenne un corso accelerato sulla sua biografia. Avrebbe compiuto sedici anni a novembre; i suoi genitori avevano una casa in paese; lui pescatore, e lei panettiera, con loro viveva anche suo cugino Ismael, che aveva perso i genitori anni prima e aiutava lo zio, cioè suo padre, sulla barca. Lei ormai non andava più a scuola perché quell'arpia di Jeanne Brau, la preside della scuola statale, l'aveva bollata come un'alunna lenta e poco brillante. Comunque, Ismael le stava insegnando a leggere, e la sua conoscenza delle tabelline migliorava di giorno in giorno. Adorava il giallo e collezionava conchiglie che raccoglieva sulla Spiaggia dell'Inglese. Il suo passatempo preferito era ascoltare gli sceneggiati radiofonici e partecipare ai balli estivi nella piazza principale, quando le bande itineranti arrivavano in paese. Non usava il profumo, però le piacevano i rossetti. .

Ascoltare Hannah era un'esperienza a metà fra lo spasso e l'esaurimento. Dopo aver fatto sparire la propria colazione e tutto quello che Irene non era riuscita a finire della sua, Hannah rimase zitta per qualche secondo. Il silenzio che scese sulla casa sembrò soprannaturale. Ma, naturalmente, durò poco.

«Che ne dici se facciamo una passeggiata io e te e ti mostro il paese?» chiese Hannah, subito entusiasta alla prospettiva di fare da guida a Baia Azzurra.

Irene e la madre si scambiarono uno sguardo.

«Mi piacerebbe molto» rispose alla fine la ragazza.


Un sorriso da orecchio a orecchio si disegnò sulla faccia di Hannah.

«Non si preoccupi, madame Sauvelle. Gliela riporterò sana e salva.»

E così, Irene e la sua nuova amica uscirono di corsa dirette alla Spiaggia dell'Inglese, mentre la calma tornava lentamente nella Casa del Capo. Simone prese la sua tazza di caffè e uscì in veranda ad assaporare la tranquillità di quella mattina. Dorian la salutò dalla scogliera.

Simone ricambiò il saluto. Curioso ragazzo. Sempre solo. Non sembrava interessato ad avere amici o forse non sapeva come farsene. Perso nel suo mondo e nei suoi quaderni, solo il cielo sapeva quali pensieri occupassero la sua mente. Finito il caffè, Simone lanciò un ultimo sguardo a Hannah e alla figlia dirette in paese. Hannah continuava a parlare ininterrottamente. Chi tanto e chi così poco.

L'iniziazione della famiglia Sauvelle ai misteri e alle sottigliezze della vita di un piccolo paese della costa occupò la maggior parte di quel primo mese di luglio a Baia Azzurra. La fase iniziale, di shock culturale e di sconcerto, durò una settimana buona. Nel corso di quei giorni, la famiglia scoprì che, a eccezione del sistema metrico decimale, gli usi, le norme e le caratteristiche di Baia Azzurra non avevano niente a che fare con quelli di Parigi. In primo luogo c'era la questione dell'orario. Non sarebbe stato esagerato affermare che a Parigi ogni mille abitanti si potevano trovare altrettanti orologi, tiranni che organizzavano la vita con capriccio militare. A Baia Azzurra, invece, non c'era altra ora che quella del sole. Né altre automobili se non quelle del dottor Giraud, della gendarmeria e di Lazarus.

Nessun'altra. . La lista delle differenze era infinita. E in fondo le differenze non stavano nei numeri, ma nelle consuetudini.

Parigi era una città di sconosciuti, un luogo dove era possibile vivere per anni senza conoscere il nome della persona che abitava sullo stesso pianerottolo.

A Baia Azzurra, al contrario, era impossibile starnutire o grattarsi la punta del naso senza che la notizia avesse ampia copertura ed eco nell'intera comunità. Era un paese in cui i raffreddori facevano notizia e le notizie erano più contagiose dei raffreddori. Non esisteva un quotidiano locale, né se ne sentiva la mancanza.

Istruirli su vita, storia e miracoli della comunità fu la missione di Hannah. La velocità vertiginosa con cui la ragazza mitragliava le parole riuscì a comprimere in poche sessioni abbastanza informazioni e pettegolezzi da poter riscrivere l'enciclopedia tutta d'un fiato e senza un errore. Seppero così che Laurent Savant, il parroco del paese, organizzava campionati di immersione e di maratona, e che, oltre a tartagliare i suoi sermoni sulla pigrizia e la mancanza di esercizio, aveva percorso in bicicletta più miglia di Marco Polo. Seppero inoltre che il consiglio comunale si riuniva il martedì e il giovedì all'una per discutere delle questioni municipali, e che durante queste riunioni Ernest Dijon, virtuale sindaco a vita, la cui età sfidava quella di Matusalemme, si intratteneva a tastare maliziosamente sotto il tavolo il cuscino della poltrona, convinto di esplorare la coscia muscolosa di Antoinette Fabré, tesoriera del municipio e zitella feroce come poche.

Hannah li bersagliava con una media di dodici storie di questo calibro al minuto. Le sue conoscenze non erano estranee al fatto che la madre, Elisabet, lavorava nella panetteria locale, che faceva le veci di agenzia di informazioni, servizio di spionaggio e studio di consulenze sentimentali di Baia Azzurra.

I Sauvelle non tardarono a comprendere che l'economia del paese simpatizzava per una versione particolare del capitalismo parigino. Il forno, apparentemente, vendeva pane, ma l'età dell'informazione aveva già avuto inizio nel retrobottega. Monsieur Safont, il calzolaio, aggiustava cinture, cerniere e suole, però il suo forte, e l'attrattiva per i clienti, erano la sua doppia vita come astrologo e le sue carte astrali. .

Lo schema si ripeteva sempre. La vita sembrava tranquilla e semplice, ma allo stesso tempo aveva più pieghe di una tenda bizantina. Il segreto stava nell'abbandonarsi al ritmo particolare del paese, nell'ascoltare i suoi abitanti e nel lasciare che fossero loro a guidarli attraverso i cerimoniali che tutti i nuovi arrivati dovevano compiere prima di poter affermare di risiedere a Baia Azzurra.

Perciò, ogni volta che Simone andava in paese a ritirare la posta e i pacchi di Lazarus, passava dalla panetteria e veniva a conoscenza del passato, del presente e del futuro. Le signore di Baia Azzurra la accolsero di buon grado e non tardarono a bombardarla di domande sul suo misterioso padrone.

Lazarus conduceva una vita ritirata e raramente si faceva vedere in paese. Questo, insieme alla marea di libri che riceveva ogni settimana, lo tramutava nell'epicentro di infiniti misteri.

«Si immagini, amica mia» le confidò una volta Pascale Lelouch, la moglie del farmacista. «Un uomo solo, insomma, praticamente solo. . In quella casa, con tutti quei libri. .»


Di solito Simone annuiva sorridendo di fronte a simili sfoggi di sagacia, senza però sbottonarsi. Come aveva detto una volta il suo defunto marito, non vale va la pena perdere tempo cercando di cambiare il mondo; bastava evitare che il mondo cambiasse noi.

Stava anche imparando a rispettare le stravaganti richieste di Lazarus circa la corrispondenza. Le lettere personali dovevano essere aperte il giorno successivo al loro arrivo ed evase con sollecitudine. Le lettere commerciali o ufficiali dovevano essere aperte nello stesso giorno d'arrivo, ma non bisognava mai rispondere prima di una settimana. E, soprattutto, qualunque invio proveniente da Berlino, a nome di un tal Daniel Hoffmann, doveva essergli recapitato di persona e per nessuna ragione, in nessun caso, aperto da lei. Il motivo di tutti quei particolari non la riguardava, concluse Simone. Aveva scoperto che le piaceva vivere in quel posto e che le sembrava un ambiente abbastanza salutare per crescere i figli lontano da Parigi. In quale giorno si aprissero le lettere le risultava assolutamente e gloriosamente irrilevante.

Da parte sua, Dorian scoprì che la sua dedizione semiprofessionale alla cartografia gli lasciava perfino il tempo per farsi qualche amico tra i ragazzi del paese. A nessuno sembrava importare se la sua famiglia era nuova o no, o se era un buon nuotatore o no (non lo era, inizialmente, ma i suoi nuovi compagni si incaricarono di insegnargli a stare a galla).

Imparò che le bocce erano un'occupazione per uomini prossimi alla pensione e che abbordare ragazze era un'attività per adolescenti petulanti e divorati da febbri ormonali che attaccavano la pelle e il buon senso. Alla sua età, apparentemente, quello che uno faceva era scorrazzare in bicicletta, fantasticare e osservare il mondo, nella speranza che il mondo iniziasse a osservare lui. E la domenica pomeriggio, cinema. Fu così che Dorian scoprì un nuovo, inconfessabile amore, rispetto al quale la cartografia impallidiva come una scienza di pergamene ingiallite: Greta Garbo. Una creatura divina, di cui un solo accenno a tavola all'ora di pranzo bastava a togliergli l'appetito, nonostante fosse in fondo un'anziana di. . trent'anni.

Mentre Dorian si chiedeva se in quella fascinazione per una donna al limite della vecchiaia si potessero ravvisare i segni di una perversione, era Irene che, più di chiunque altro, affrontava l'impatto di Hannah in tutta la sua entità. L'elenco dei giovanotti non fidanzati e di piacevole compagnia era all'ordine del giorno. L'idea di Hannah era che, se dopo quindici giorni in paese Irene non cominciava a civettare languidamente con qualcuno di loro, i ragazzi avrebbero iniziato a considerarla una tipa strana.

La stessa Hannah era la prima ad ammetterlo: anche se dal punto di vista dei bicipiti il catalogo dei ragazzi poteva meritare un voto discreto, per quanto riguardava il cervello la ripartizione divina era stata scarsa e strettamente funzionale. In ogni caso, pretendenti e spasimanti non le mancavano, il che provocava la sana invidia dell'amica.

«Figlia mia, se io avessi il tuo successo, a questo punto sarei già Mata Hari» era solita dire Hannah.

Irene, rivolgendo uno sguardo al branco di ragazzi che fingevano di passare per caso, sorrideva timidamente.

«Non sono sicura che mi interessi. . Sembrano un po' sciocchi. .»

«Sciocchi?» sbottava Hannah di fronte a quello spreco di opportunità. «Se vuoi sentire qualcosa di interessante, vattene al cinema o prendi un libro!»

«Ci penserò» rideva Irene.

Hannah scuoteva la testa.

«Finirai come Ismael» sentenziava allora.

Ismael era suo cugino, aveva sedici anni e, come aveva raccontato Hannah, era stato cresciuto dalla sua famiglia alla morte dei genitori. Faceva il marinaio sulla barca dello zio, ma le sue vere passioni sembravano essere la solitudine e una barca a vela che aveva costruito con le proprie mani e battezzato con un nome che Hannah non riusciva mai a ricordare.

«Qualcosa di greco, credo. Uffa!»

«E dov'è ora?» chiese Irene.

«In mare. I mesi estivi sono buoni per i pescatori, che vengono ingaggiati per spedizioni in alto mare.

Lui e papà sono sull'Estelle. Non tornano fino ad agosto» spiegò Hannah.

«Dev'essere triste. Dover trascorrere tanto tempo in mare, da soli. .»

Hannah scrollò le spalle.

«Bisogna guadagnarsi da vivere. .»


«Non ti piace molto lavorare a Cravenmoore, vero?» azzardò Irene.

L'amica la guardò con una certa sorpresa.

«Non sono fatti miei, è chiaro» si corresse Irene.

«La domanda non mi dà fastidio» disse Hannah sorridendo. «La verità è che non mi piace troppo, no.»

«Per Lazarus?»

«No. Lazarus è gentile ed è stato molto buono con noi. Quando papà ha avuto l'incidente con le eliche, anni fa, ha pagato lui l'operazione. Se non fosse stato per Lazarus. .»

«Allora?»

«Non so. È quel posto. Le macchine. . È pieno di macchine che ti guardano in continuazione.»

«Sono solo giocattoli.»

«Prova a dormire lì una notte. Appena chiudi gli occhi, tic-tac, tic-tac. .»

Si guardarono.

«Tic-tac, tic-tac?» ripeté Irene.

Hannah le rivolse un sorriso sarcastico.

«Io sarò una fifona, però tu ti avvii a diventare una zitella.»

«Mi piacciono le zitelle» replicò Irene.

In questo modo, quasi senza accorgersene, i giorni scivolarono via dal calendario e, prima che potessero rendersene conto, arrivò agosto. E insieme vennero anche le prime piogge dell'estate, temporali passeggeri che duravano solo un paio d'ore. Simone era occupata nelle sue nuove incombenze. Irene si abituava alla vita con Hannah. E Dorian, inutile dirlo, imparava a nuotare sott'acqua mentre tracciava mappe immaginarie della geografia segreta di Greta Garbo.

Un giorno qualunque, uno di quei giorni di agosto nei quali la pioggia notturna aveva scolpito nelle nuvole castelli di ovatta sopra una lamina di azzurro splendente, Hannah e Irene decisero di fare una passeggiata sulla Spiaggia dell'Inglese. Era trascorso un mese e mezzo dall'arrivo dei Sauvelle a Baia Azzurra. E quando sembrava che non ci fosse più posto per le sorprese, queste dovevano ancora iniziare.

La luce di mezzogiorno rivelava una scia di orme lungo la linea della marea, tacche su una lamina bianca; sul mare, gli alberi delle barche lontane nel porto sfavillavano come miraggi.

Al centro di una bianca immensità di sabbia fine come polvere, Irene e Hannah si riposavano sui resti di un vecchio barcone arenato a riva, circondate da uno stormo di piccoli uccelli azzurri che sembravano avere il nido fra le dune nivee della spiaggia.

«Perché la chiamano la Spiaggia dell'Inglese?» chiese Irene, osservando la desolata estensione che andava dal paese al capo.

«Qui, in un capanno, ha vissuto per anni un vecchio pittore inglese. Il poverino aveva più debiti che pennelli. Regalava quadri alla gente del paese in cambio di cibo e vestiti. È morto tre anni fa. L'hanno seppellito qui, sulla spiaggia dove aveva passato tutta la vita» spiegò Hannah.

«Se mi lasciassero scegliere, anche a me piacerebbe essere sepolta in un posto come questo.»

«Che pensieri allegri» scherzò Hannah, non senza una sfumatura di rimprovero.

«Però non ho fretta» puntualizzò Irene, mentre il suo sguardo registrava la presenza di una piccola vela che solcava la baia a un centinaio di metri dalla costa.

«Uffa. .» mormorò l'amica. «Eccolo lì: il marinaio solitario. Non è stato capace di aspettare neppure un giorno per prendere la sua barca a vela.»

«Chi?»

«Mio padre e mio cugino sono arrivati ieri con la nave» spiegò Hannah. «Mio padre sta ancora dormendo, ma lui. . È incorreggibile.»

Irene scrutò il mare e osservò la vela che solcava la baia.

«È mio cugino Ismael. Passa metà della vita su quella barca, almeno quando non lavora con mio padre al molo. Però è un bravo ragazzo. . Vedi questo ciondolo?»

Hannah le mostrò un prezioso ciondolo che le pendeva da una catena d'oro al collo: un sole che si inabissava nel mare.

«È un regalo di Ismael. .»

«È splendido» disse Irene, osservando attentamente il gioiello.

Hannah si alzò e cacciò un urlo che fece catapultare lo stormo di uccellini all'altra estremità della spiaggia. Dopo un po', la vaga figura al timone salutò e l'imbarcazione diresse la prua verso riva.

«Soprattutto, non chiedergli della barca a vela» avvertì Hannah. «E se è lui a iniziare il discorso, non domandargli come l'ha costruita. Può parlarne per ore senza smettere.»

«È una cosa di famiglia. .»

Hannah le rivolse uno sguardo furibondo.

«Credo che ti lascerò qui sulla spiaggia, in pasto ai granchi.»

«Scusa.»

«Accetto le scuse. Ma se io ti sembro chiacchierona, aspetta di conoscere la mia madrina. Il resto della famiglia, al confronto, pare muta.»

«Sono certa che mi farà piacere conoscerla.»

«Ah» replicò Hannah, incapace di trattenere il suo sorriso sornione.

La barca a vela di Ismael superò abilmente la linea dei frangenti e la chiglia penetrò nella sabbia come un coltello. Il ragazzo si affrettò a mollare le cime e ammainò in pochi secondi la vela fino alla base dell'albero. La pratica, evidentemente, non gli mancava. Non appena mise piede a terra, Ismael rivolse a Irene un involontario sguardo dalla testa ai piedi, la cui eloquenza non era inferiore alle sue arti nautiche. Hannah, occhi sbarrati e mezza lingua di fuori in un'espressione di burla, si affrettò a fare le presentazioni; a modo suo, naturalmente.

«Ismael, questa è la mia amica Irene» annunciò amabilmente. «Però non c'è bisogno che te la mangi.»

Il ragazzo diede una gomitata alla cugina e tese la mano a Irene.

«Ciao. .»

Il breve saluto era accompagnato da un sorriso timido e sincero. Irene gli strinse la mano.

«Tranquilla, non è scemo; è il suo modo per dire che è molto felice di conoscerti e tutto il resto»

precisò Hannah.

«Mia cugina parla tanto che a volte penso che consumerà il dizionario» scherzò Ismael. «Immagino che ti abbia già raccomandato di non chiedermi niente della barca a vela. .»

«A dire il vero, no» rispose cautamente Irene.

«Già. Hannah crede che sia l'unico argomento di cui so parlare.»

«Nemmeno con le reti e il sartiame te la cavi male, però di fronte alla barca a vela, caro cugino, non c'è paragone.»

Irene assistette divertita al duello in punta di fioretto nel quale entrambi si compiacevano a sfidarsi.

Non sembrava esserci nessuna malizia o, almeno, né più né meno di quella necessaria ad aggiungere un pizzico di sale alla routine.

«Ho sentito che vi siete sistemati nella Casa del Capo» disse Ismael.

Irene si concentrò sul ragazzo e se ne fece un'idea.

Effettivamente, più o meno sedici anni; la pelle e i capelli mostravano il tempo trascorso in mare. Il fisico rivelava il duro lavoro sulle banchine, e mani e braccia erano segnate da piccole cicatrici, poco comuni tra i giovani parigini. Una cicatrice, più lunga e marcata, gli solcava la gamba destra, partendo da sopra il ginocchio fino alla caviglia. Irene si chiese dove si fosse procurato un simile trofeo. Infine si concentrò sugli occhi, l'unico tratto del suo aspetto che le sembrava fuori dal comune. Grandi e chiari, gli occhi di Ismael sembravano dipinti per celare segreti dietro uno sguardo intenso e vagamente triste.

A Irene ricordava gli sguardi dei soldati senza nome con i quali aveva ballato per tre scarsi minuti al ritmo di un'orchestra di quarta categoria, sguardi che nascondevano paura, tristezza o amarezza.

«Cara, sei in trance?» la interruppe Hannah.

«Stavo pensando che si è fatto tardi. Mia madre sarà preoccupata.»

«Tua madre sarà felice che la lasciate un'ora in pace, però vedi tu» disse Hannah.

«Posso accompagnarti con la barca, se vuoi» si offrì Ismael. «La Casa del Capo ha un piccolo molo tra gli scogli.»

Irene scambiò con Hannah un'occhiata interrogativa.

«Se dici di no, gli spezzerai il cuore. Mio cugino non inviterebbe sulla sua barca nemmeno Greta Garbo, credimi.»

«Tu non vieni?» chiese Irene, un po' imbarazzata.

«Non salirei su quel trabiccolo neanche se mi pagassero. E poi è il mio giorno libero e stasera si balla in piazza. Io, al posto tuo, ci penserei. I buoni partiti sono sulla terraferma. Te lo dice la figlia di un pescatore. Ma non so cosa sto dicendo. Muovetevi, su. E tu, marinaio, è meglio per te che la mia amica arrivi sana e salva a destinazione. Mi hai sentito?»

La barca, che a quanto pareva si chiamava Kyaneos, come recitava la scritta sullo scafo, si inoltrò in mare mentre le sue vele bianche si gonfiavano al vento e la prua solcava l'acqua in direzione del capo.

Ismael, fra una manovra e l'altra, rivolgeva timidi sorrisi alla ragazza, e si sedette al timone solo quando la barca si assestò su una rotta stabile sulla corrente. Irene, aggrappata al bordo, lasciava che le gocce spruzzate dalla brezza le bagnassero la pelle.

Intanto, il vento li sospingeva con forza, e Hannah era diventata una minuscola figura che salutava dalla riva. La rapidità con cui la vela solcava la baia e il rumore del mare contro lo scafo fecero venire a Irene voglia di ridere senza un motivo apparente.

«Prima volta?» domandò Ismael. «Su una barca a vela, voglio dire.»

Irene fece cenno di sì.

«È diverso, vero?»

Lei annuì di nuovo, sorridendo, senza riuscire a distogliere gli occhi dalla grande cicatrice che attraversava la gamba di Ismael.

«Un grongo» spiegò il ragazzo. «È una storia un po' lunga.»

Irene alzò lo sguardo e osservò la sagoma di Cravenmoore che emergeva tra le cime del bosco.

«Che significa il nome della tua barca?»

«È greco. Kyaneos: ciano» spiegò enigmaticamente Ismael.

E dato che Irene corrugava la fronte, senza capire, continuò.

«I greci utilizzavano questa parola per definire l'azzurro scuro, il colore del mare. Quando Omero parla del mare, paragona il suo colore con quello del vino scuro. La parola che usava era questa: kyaneos.»

«Vedo che sai parlare di qualcos'altro, non solo della tua barca e delle reti.»

«Ci provo.»

«Chi te lo ha insegnato?»

«A navigare? Ho imparato da solo.»

«No, dei greci. .»

«Mio padre era un appassionato di storia. Ho ancora qualcuno dei suoi libri.»

Irene rimase zitta.

«Hannah deve averti raccontato che i miei genitori sono morti.»

Lei si limitò ad annuire. L'isolotto del faro si ergeva a un paio di centinaia di metri. Irene lo guardò, affascinata.

«Il faro è chiuso da molti anni. Adesso si usa quello del porto di Baia Azzurra» le spiegò.

«Non ci va più nessuno sull'isola?» chiese Irene.

Ismael negò con la testa.

«E come mai?»

«Ti piacciono le storie di fantasmi?» ribatté per tutta risposta.

«Dipende. .»

«La gente in paese crede che l'isolotto del faro sia stregato o qualcosa del genere. Si dice che una donna sia annegata lì molto tempo fa. C'è chi vede delle luci. Insomma, ogni paese ha le sue dicerie, e questo non è da meno.»

«Luci?»

«Le luci di settembre» disse Ismael mentre oltrepassavano l'isolotto a dritta. «La leggenda, se vuoi chiamarla così, dice che una sera, a fine estate, durante un ballo in maschera in paese, la gente vide una donna mascherata prendere una barca a vela nel porto e inoltrarsi in mare. Alcuni pensano che andasse a un appuntamento segreto con l'amante sull'isolotto del faro; altri, che fuggisse da un crimine inconfessabile. . Come vedi, tutte le spiegazioni vanno bene perché, in realtà, nessuno ha mai saputo chi fosse davvero. Il suo volto era coperto da una maschera. Eppure, mentre attraversava la baia, una terribile tempesta, scatenatasi all'improvviso, trascinò la barca contro le rocce, dove si sfracellò. La misteriosa donna senza volto annegò, o almeno il suo corpo non venne mai ritrovato. Qualche giorno dopo, la marea restituì la sua maschera, che si era sbrindellata sugli scogli. Da allora la gente dice che, durante gli ultimi giorni dell'estate, all'imbrunire, si possono vedere delle luci sull'isola. .»


«Lo spirito di quella donna.

«Già. Che cerca di terminare il suo viaggio incompiuto verso l'isola. . Questo si dice.»

«Ed è vero?»

«È una storia di fantasmi. Puoi crederci o no.»

«Tu ci credi?» indagò Irene.

«Io credo solo a quello che vedo.»

«Un marinaio scettico.»

«Qualcosa del genere.»

Irene rivolse un nuovo sguardo all'isolotto. Le onde si infrangevano con forza contro le rocce. I vetri rotti della torre del faro riflettevano la luce, scomponendola in un arcobaleno spettrale che si dissolveva nella cortina d'acqua che s'innalzava dai frangenti.

«Ci sei stato qualche volta?» chiese.

«Sull'isolotto?»

Ismael cazzò la scotta e, con un colpo di timone, la barca si inclinò a babordo, puntando la prua verso il capo e tagliando la corrente che proveniva dal canale.

«Forse ti farebbe piacere andare a visitare l'isolotto» propose.

«Si può?»

«Tutto si può fare. Si tratta solo di osare» rispose Ismael con un sorriso di sfida.

Irene sostenne il suo sguardo.

«Quando?»

«Sabato prossimo. Con la mia barca.»

«Da soli?»

«Da soli. Ma se hai paura. .»

«Non ho paura» tagliò corto Irene.

«Allora, a sabato. Passo a prenderti al molo a metà mattina.»

Irene spostò lo sguardo verso la costa. La Casa del Capo si stagliava sulla scogliera. Dorian, dalla veranda, li osservava senza nascondere la sua curiosità.

«Mio fratello Dorian. Forse ti fa piacere salire a conoscere mia madre. .»

«Non sono bravo nelle presentazioni familiari.»

«Un altro giorno, allora.»

La barca a vela entrò nella piccola baia naturale riparata tra gli scogli ai piedi della Casa del Capo. Con abilità consumata, Ismael ammainò la vela e fece in modo che l'inerzia stessa della corrente portasse lo scafo fino al molo. Allora afferrò una cima e saltò a terra per ormeggiare. Una volta assicurata la barca, tese la mano a Irene.

«Omero era notoriamente cieco. Come poteva sapere di che colore era il mare?» chiese la ragazza.

Ismael le prese la mano e con un forte strattone la sollevò sul pontile.

«Una ragione in più per credere solo a quello che vedi» rispose il ragazzo, tenendole ancora la mano.

A Irene tornarono in mente le parole di Lazarus nel corso della prima sera a Cravenmoore.

«A volte gli occhi ingannano» sottolineò.

«Non me.»

«Grazie per il passaggio.»

Ismael annuì, lasciandole lentamente la mano.

«A sabato.»

«A sabato.»

Ismael saltò sulla barca, mollò la cima e lasciò che la corrente lo allontanasse dal pontile mentre issava di nuovo la vela. Il vento lo portò fino all'ingresso della cala e, dopo pochi secondi, il Kyaneos si addentrò nella baia cavalcando le onde.

Irene rimase sul pontile a guardare la vela bianca che rimpiccioliva nell'immensità del mare. A un certo punto si accorse che aveva ancora il sorriso stampato in faccia e che un formicolio sospetto le percorreva le mani. Allora seppe che quella sarebbe stata una settimana molto, molto lunga.

4. Segreti e ombre

A Baia Azzurra il calendario distingueva solo due periodi: l'estate e il resto dell'anno. In estate la gente del luogo triplicava il suo orario di lavoro per rifornire i paesi costieri dei dintorni che ospitavano stabilimenti balneari, turisti e gente venuta dalla città in cerca di spiagge, sole e noia a pagamento.

Panettieri, artigiani, sarte, carpentieri, muratori e ogni sorta di mestieri dipendevano dai tre lunghi mesi nei quali il sole sorrideva sulla costa della Normandia.

Durante quelle tredici o quattordici settimane, gli abitanti di Baia Azzurra si trasformavano in formiche laboriose, per poter poltrire languidamente il resto dell'anno come modeste cicale. E se alcuni giorni erano molto intensi, si trattava dei primi di agosto, quando la domanda di prodotto locale cresceva da zero all'infinito.

Una delle poche eccezioni a questa regola era Christian Hupert. Lui, come gli altri proprietari di barche da pesca del paese, pativa il destino della formica dodici mesi all'anno. Queste riflessioni occupavano la mente del maturo pescatore tutte le estati, nelle stesse date, mentre vedeva il paese intero dispiegare le vele intorno a lui. Allora pensava di aver sbagliato mestiere e che sarebbe stato molto più saggio interrompere la tradizione di sette generazioni e diventare albergatore, commerciante o quel che fosse. Forse così sua figlia Hannah non avrebbe dovuto trascorrere la settimana servendo a Cravenmoore, e magari il pescatore avrebbe potuto vedere la faccia della moglie più di trenta minuti al giorno, quindici all'alba e quindici al tramonto.

Ismael osservò lo zio mentre lavoravano insieme per riparare la pompa di sentina della barca. Il viso meditabondo del pescatore tradiva i suoi pensieri.

«Potresti aprire un'officina nautica» osservò Ismael.

Lo zio rispose con un grugnito o qualcosa di simile.

«Oppure vendere la barca e investire nel negozio di monsieur Didier. Sono sei anni che non la smette di insistere» continuò il ragazzo.

Lo zio interruppe il lavoro e osservò il nipote. I tredici anni nei quali gli aveva fatto da padre non erano riusciti a cancellare ciò che più temeva e adorava nel ragazzo: l'ostinata e totale somiglianza con il suo defunto padre, compresa la tendenza a esprimere la sua opinione quando nessuno gli aveva chiesto consiglio.

«Forse dovresti essere tu a farlo» rispose Christian.

«Io ormai vado per i cinquanta. Non si cambia lavoro alla mia età.»

«E allora, perché ti lamenti?»

«E chi non si lamenta?»

Ismael si strinse nelle spalle. Entrambi si concentrarono nuovamente sulla pompa di sentina.

«Va bene. Non dirò neppure una parola in più» mormorò Ismael.

«Non avremo questa fortuna. Rinforza quel tensore.»

«Questo tensore non ha speranza. Dovremmo sostituire la pompa. Un giorno ci prenderemo un bello spavento.»

Hupert sfoggiò il suo sorriso preferito, riservato agli stimatori del mercato, alle autorità del porto e ai sempliciotti di ogni categoria.

«Questa pompa apparteneva a mio padre. E prima a mio nonno. E prima di lui. .»

«Proprio a questo mi riferivo» lo interruppe Ismael.

«Probabilmente sarebbe più utile in un museo che qui.»

«Amen.»

«Ho ragione. E tu lo sai.»

Fare arrabbiare lo zio era, con l'eventuale eccezione di andare in barca a vela, una delle sue occupazioni preferite.

«Non penso di continuare a discutere dell'argomento. Punto. Fine. Terminato.»

Nel caso fosse stato poco chiaro, Hupert sottolineò la sua sentenza con un giro di chiave energica e decisa.

Improvvisamente si sentì un cigolio sospetto all'interno della pompa. Hupert sorrise al ragazzo. Due secondi dopo, il fermo del tensore che aveva appena assicurato venne catapultato con una traiettoria parabolica sulle loro teste, seguito da quello che sembrava un pistone, un set completo di dadi e chincaglieria non meglio identificata.

Zio e nipote seguirono l'evoluzione della ferraglia fin quando atterrò, con poca discrezione, sulla coperta dell'imbarcazione vicina, il barcone di Gerard Picaud. Picaud, un vecchio pugile con la costituzione di un toro e il cervello di un crostaceo, esaminò i pezzi e, subito dopo, scrutò il cielo.

Hupert e Ismael si scambiarono uno sguardo.

«Non credo che noteremo la differenza» suggerì Ismael.

«Quando vorrò la tua opinione. .»

«La chiederai. D'accordo. A proposito, mi domandavo se ti scoccia che mi prenda il prossimo sabato libero. Vorrei fare qualche riparazione alla barca a vela. .»

«Queste riparazioni sono per caso bionde, sul metro e settanta e con gli occhi verdi?» buttò lì Hupert.

Il pescatore sorrise maliziosamente al nipote.

«Le notizie corrono veloci» disse Ismael.

«Se dipendono da tua cugina, volano, caro nipote. Qual è il nome della dama?»

«Irene.»

«Capisco.»

«Non c'è niente da capire.»

«Tempo al tempo.»

«È carina, tutto qui.»

«È carina, tutto qui» ripeté Hupert, imitando la voce fredda e indifferente del nipote.

«Non fa niente. Non è una buona idea. Sabato lavorerò» tagliò corto Ismael.

«Be', c'è da pulire la sentina. C'è del pesce putrido da settimane e puzza in modo schifoso.»

«Perfetto.»

Hupert scoppiò a ridere.

«Sei testardo come tuo padre. Ti piace quella ragazza o no?»

«Seee.»

«Non usare monosillabi con me, Romeo. Ho il triplo dei tuoi anni. Ti piace o no?»

Il giovane si strinse nelle spalle. Le guance gli erano arrossite come pesche mature. Alla fine si lasciò sfuggire un mormorio incomprensibile.

«Traduci» insisté lo zio.

«Ho detto di sì. Credo di sì. La conosco appena.»

«Bene, è più di quanto potessi dire io di tua zia la prima volta che la vidi. E chiamo il cielo a testimone che è una santa.»

«Com'era da giovane?»

«Non cominciamo o ti faccio passare il sabato in sentina» minacciò Hupert.

Ismael annuì e continuò a raccogliere gli attrezzi.

Lo zio si pulì il grasso dalle mani mentre lo guardava di sottecchi. L'ultima ragazza per la quale aveva mostrato interesse era stata una certa Laura, la figlia di un piazzista di Bordeaux, e da allora erano trascorsi quasi due anni. L'unico amore del nipote, al di là della sua impenetrabile intimità, pareva essere il mare. E la solitudine. La ragazza doveva avere qualcosa di speciale.

«Avrai la sentina pulita prima di venerdì» annunciò Ismael.

«È tutta tua.»

Quando al tramonto zio e nipote saltarono sul molo, di ritorno a casa, il loro vicino Picaud continuava a esaminare i misteriosi pezzi, cercando di stabilire se quell'estate sarebbero piovuti bulloni o se il cielo tentava di mandargli qualche segnale.

In agosto i Sauvelle avevano già la sensazione di vivere a Baia Azzurra almeno da un anno. Chi non li conosceva era ormai informato delle loro faccende grazie alla parlantina di Hannah e di sua madre, Elisabet Hupert. Per uno strano fenomeno, a metà strada fra il pettegolezzo e la magia, le notizie arrivavano nella panetteria dove lei lavorava prima che si verificassero. Né la radio né i giornali potevano competere con il negozio di Elisabet Hupert.

Croissant e notizie fresche, dall'alba al tramonto. Così, il venerdì, gli unici abitanti di Baia Azzurra che non erano al corrente del presunto colpo di fulmine tra Ismael Hupert e la neoarrivata, Irene Sauvelle, erano i pesci e gli stessi interessati. Poco importava se tra i due fosse già successo qualcosa o se sarebbe successo. La breve traversata in barca dalla Spiaggia dell'Inglese alla Casa del Capo era già entrata a far parte degli annali di quell'estate del 1937.

In effetti, le prime settimane di agosto a Baia Azzurra trascorsero a grande velocità. Simone era riuscita finalmente a disegnare una mappa mentale di Cravenmoore. La lista di tutte le attività urgenti per la gestione della casa era infinita. Già solo avere a che fare con i fornitori in paese, tenere in ordine i pagamenti e la contabilità e curare la corrispondenza di Lazarus bastava a occupare tutto il suo tempo, detratti i minuti che impiegava per respirare e dormire.

Dorian, armato di una bicicletta che Lazarus aveva voluto regalargli in segno di benvenuto, si trasformò nel suo piccione viaggiatore: in pochi giorni il ragazzo conosceva ogni pietra e ogni buca della strada per la Spiaggia dell'Inglese.

Così, tutte le mattine Simone iniziava la giornata evadendo la corrispondenza in uscita e dividendo meticolosamente quella ricevuta, come Lazarus le aveva spiegato. Un piccolo memorandum, giusto un foglietto ripiegato, le consentiva di tenere a portata di mano un breve elenco di tutte le bizzarrie di Lazarus. Ricordava ancora il suo terzo giorno, quando era stata sul punto di aprire involontariamente una delle lettere inviate da Berlino da quel Daniel Hoffmann. La memoria le era venuta in soccorso all'ultimo istante.

Le lettere di Hoffmann arrivavano di solito ogni nove giorni, con precisione quasi matematica. Le buste di pergamena erano sempre sigillate, con un blasone a forma di "D". Ben presto Simone si abituò a separarle dal resto e ignorò la stranezza della cosa.

Durante la prima settimana di agosto, tuttavia, accadde qualcosa che risvegliò nuovamente la sua curiosità per l'intrigante corrispondenza del signor Hoffmann.

Simone era entrata di prima mattina nello studio di Lazarus per lasciargli sulla scrivania una serie di fatture e pagamenti che erano arrivati. Preferiva farlo nelle prime ore del giorno, prima che ci andasse anche l'inventore di giocattoli, per evitare di interromperlo e importunarlo più tardi. Il defunto Armand aveva l'abitudine di iniziare la giornata controllando pagamenti e fatture. Finché aveva potuto.

Il fatto è che, quella mattina, entrando nello studio, Simone avvertì nell'aria un odore di tabacco, il che faceva supporre che Lazarus vi fosse rimasto fino a tardi la notte precedente. Stava lasciando i documenti sulla scrivania quando vide qualcosa nel camino, ancora fumante tra le braci dell'alba.

Incuriosita, si avvicinò e cercò di capire, con l'aiuto dell'attizzatoio, di cosa si trattasse. A prima vista sembrava un fascio di fogli rilegati, non ancora divorati del tutto dalle fiamme. Era sul punto di uscire dalla stanza quando, tra le braci, distinse chiaramente il sigillo di ceralacca sulla carta. Lettere. Lazarus aveva gettato nel fuoco le lettere di Daniel Hoffmann per distruggerle. Qualunque fosse il motivo, si disse Simone, non era affar suo. Lasciò l'attizzatoio e uscì dallo studio decisa a non curiosare mai più nelle faccende personali del suo datore di lavoro.

Il ticchettio della pioggia che batteva sui vetri svegliò Hannah. Era mezzanotte. La stanza era immersa in un'oscurità azzurrata e la luce della tempesta lontana sul mare disegnava intorno a lei illusioni d'ombre. Il tintinnio di uno degli orologi parlanti di Lazarus risuonava meccanicamente dalla parete: dal volto sorridente, gli occhi guardavano da un lato e dall'altro, senza sosta. Hannah sospirò. Detestava trascorrere la notte a Cravenmoore.

Di giorno, la casa di Lazarus Jann le appariva come un interminabile museo di prodigi e meraviglie.

Invece, scesa la notte, le centinaia di creature meccaniche, i volti delle maschere e degli automi si trasformavano in una fauna spettrale che non dormiva mai, sempre attenta e vigile nel buio della casa, senza smettere di sorridere, senza smettere di guardare da nessuna parte.

Lazarus dormiva in una delle stanze dell'ala ovest contigua a quella della moglie. All'infuori di loro due e della stessa Hannah, la casa era abitata unicamente dalle decine di creazioni dell'inventore di giocattoli, in ogni corridoio, in ogni stanza. Nel silenzio dell'alba, Hannah poteva sentire l'eco delle loro viscere meccaniche. A volte, quando il sonno le sfuggiva, rimaneva ore a immaginarle immobili, con gli occhi di vetro che brillavano nell'oscurità.

Era appena riuscita ad appisolarsi quando sentì per la prima volta quel rumore, dei colpi regolari smorzati dalla pioggia. Hannah si alzò e attraversò la stanza fino alla soglia di luce della finestra. La giungla di torri, archi, tetti angolati di Cravenmoore giaceva sotto il manto del temporale. Dai musi da lupo dei doccioni scorrevano nel vuoto fiumi di acqua nera.

Come odiava quel posto. .

Sentì di nuovo il rumore e rivolse lo sguardo verso la fila di finestre dell'ala ovest. Il vento sembrava averne spalancato una al secondo piano. Le tende ondeggiavano nella pioggia e le imposte continuavano a sbattere. La ragazza maledisse il proprio destino. La sola idea di uscire nel corridoio e attraversare la casa fino all'ala ovest le gelava il sangue. Prima che la paura la dissuadesse dal suo dovere,si infilò vestaglia e pantofole. Non c'era luce, così prese uno dei candelabri e accese le candele. Il loro chiarore ramato disegnò intorno a lei un alone spettrale. Hannah appoggiò la mano sul freddo pomello della porta e deglutì.

Lontano, le imposte di quella stanza buia continuavano a sbattere. La aspettavano. Si chiuse alle spalle la porta e si trovò di fronte la fuga infinita del corridoio che si addentrava nell'oscurità. Sollevò il candelabro e si avviò, fiancheggiando le sagome sospese nel vuoto dei giocattoli in letargo di Lazarus.

Hannah cercò di concentrare lo sguardo davanti a sé e affrettò il passo. Il secondo piano ospitava molti dei vecchi automi di Lazarus, creature che si muovevano goffamente, dai lineamenti spesso grotteschi e a volte minacciosi.

Quasi tutti erano chiusi in vetrine di cristallo, dentro le quali prendevano vita all'improvviso, senza preavviso, rispondendo al comando di qualche ingranaggio interno che li risvegliava a caso dal loro sonno meccanico.

Hannah passò davanti a Madame Sarou, l'indovina che mescolava con mani incartapecorite le carte dei tarocchi, ne sceglieva una e la mostrava allo spettatore. Malgrado tutti i suoi sforzi, la ragazzina non poté evitare di guardare l'effigie spettrale di quella gitana scolpita nel legno. Gli occhi della zingara si aprirono e le sue mani le allungarono una carta. Hannah deglutì. La carta mostrava la figura di un diavolo rosso avvolto nelle fiamme.

Alcuni metri più in là, il torso dell'uomo delle maschere oscillava da una parte all'altra. L'automa sfogliava in continuazione il suo volto invisibile, scoprendo ogni volta una maschera diversa. Hannah distolse lo sguardo e si affrettò. Aveva attraversato quel corridoio centinaia di volte alla luce del sole.

Erano solo macchine senza vita e non meritavano la sua attenzione; tanto meno la sua paura. Con questo pensiero tranquillizzante in testa, giunse alla fine del corridoio che portava all'ala ovest. La piccola orchestra in miniatura del Maestro Firetti riposava in un angolo. Con una moneta, le figure della banda interpretavano una particolare versione della Marcia alla turca di Mozart.

Hannah si fermò davanti all'ultima porta del corridoio, un'enorme tavola di rovere intagliato. Ciascuna delle porte di Cravenmoore possedeva un diverso bassorilievo, intagliato nel legno, che rappresentava favole celebri: i fratelli Grimm immortalati in geroglifici di raffinata ebanisteria. Agli occhi della ragazza, tuttavia, le incisioni risultavano semplicemente sinistre. Non era mai entrata in quella stanza: una delle tante camere della casa in cui non aveva messo piede. E non lo avrebbe fatto se non fosse stato necessario. La finestra sbatteva al di là della porta. Il fiato gelido della notte si infiltrava tra le giunture, accarezzandole i piedi. Hannah rivolse un ultimo sguardo al lungo corridoio alle sue spalle. I volti dell'orchestra scrutavano le ombre. Si udiva chiaramente il rumore dell'acqua e della pioggia, come se mille piccoli ragni corressero sui tetti di Cravenmoore. La ragazza inspirò a fondo e, appoggiando la mano sul pomello, entrò nella stanza.

Una ventata di aria ghiacciata la investì, chiuse con violenza la porta alle sue spalle e spense le candele.

Le tende di voile ondeggiavano, zuppe di pioggia, come sudari al vento. Hannah s'inoltrò di qualche passo nella stanza e andò a chiudere la finestra, assicurando la maniglia che il vento aveva allentato. Si tastò nella tasca della vestaglia con dita tremanti e prese i fiammiferi per riaccendere le candele.

L'oscurità che la circondava prese vita davanti alle fiamme danzanti del candelabro. Il loro chiarore rivelava quella che le parve la stanza di un bambino. Un piccolo letto accanto a uno scrittoio. Libri e vestiti infantili sistemati su una sedia. Un paio di scarpe perfettamente allineate sotto il letto. Un minuscolo crocifisso che pendeva da una delle sbarre della spalliera.

Hannah avanzò di qualche passo. C'era qualcosa di strano, qualcosa di sconcertante che non riusciva a decifrare in quegli oggetti e quei mobili. I suoi occhi esplorarono di nuovo quella stanza infantile.

Non c'erano bambini a Cravenmoore. Non c'erano mai stati. Che senso aveva quella camera?

All'improvviso, l'idea le venne in mente. Ora capiva cosa l'aveva disorientata all'inizio. Non era l'ordine. Neppure il lindore. Era qualcosa di così elementare, di così semplice, che era difficile anche soffermarsi a pensarlo. Quella era la stanza di un bambino. Però mancava qualcosa. . Giocattoli. Non c'era neppure un giocattolo in tutta la stanza.

Hannah sollevò il candelabro e scoprì qualcos'altro sulle pareti. Fogli di carta. Ritagli di giornale. Posò il candelabro sullo scrittoio e si avvicinò. Un mosaico di vecchi ritagli e di fotografie ricopriva la parete.

Il volto pallido di una donna dominava un ritratto; i suoi lineamenti erano duri, spigolosi, e i suoi occhi neri irradiavano un'aura minacciosa. Lo stesso volto compariva in altre immagini. Hannah si soffermò su un ritratto della donna misteriosa con un bambino in braccio.

Il suo sguardo corse lungo il muro e fu attratto dai pezzi di vecchi giornali, i cui titoli non sembravano avere nessun rapporto fra loro. Notizie su un terribile incendio in una fabbrica di Parigi e sulla scomparsa di un certo Hoffmann nella tragedia. La traccia ossessiva di quella presenza sembrava impregnare l'intera collezione di ritagli, allineati come lapidi sui muri di un cimitero di memorie e ricordi. E al centro, circondata da decine di altri pezzi illeggibili, la prima pagina di un giornale datato 1890. Su di essa, il viso di un bambino. I suoi occhi erano pieni di terrore, gli occhi di un animale bastonato. La forza di quell'immagine la colpì con violenza.

Lo sguardo di quel bambino di soli sei o sette anni sembrava essere stato testimone di un orrore a stento comprensibile. Hannah sentì freddo, un freddo intenso che le nasceva da dentro. I suoi occhi cercarono di decifrare il testo quasi illeggibile che accompagnava l'immagine. "Un bambino di otto anni è stato ritrovato dopo sette giorni trascorsi in una cantina, abbandonato, al buio" si leggeva nella didascalia della foto. Hannah osservò un'altra volta il viso del piccolo. C'era qualcosa di vagamente familiare nei suoi lineamenti, forse negli occhi. .

In quel preciso istante, a Hannah sembrò di sentire l'eco di una voce, una voce che sussurrava alle sue spalle. Si voltò, ma dietro di lei non c'era nessuno. La ragazza si lasciò sfuggire un sospiro. I fasci vaporosi che emanavano dalle candele catturavano nell'aria migliaia di particelle di polvere e spargevano attorno una caligine purpurea. Hannah si avvicinò al davanzale di una delle finestre e con le dita aprì un varco nel velo di condensa che offuscava il vetro. Il bosco era immerso nella nebbia. Le luci dello studio di Lazarus, all'estremità dell'ala ovest, erano accese, e la sua sagoma si stagliava nel caldo alone dorato che tremolava dietro le tende. Una lama di luce attraversò il varco nella condensa e fu come se tendesse un filo di chiarore per tutta la lunghezza della stanza.

Questa volta la voce risuonò più vicina e distinta. Sussurrava il suo nome. Hannah si voltò verso la stanza in penombra e per la prima volta si accorse del brillio emanato da una boccetta di vetro. La boccetta, nera come ossidiana, era custodita in una minuscola nicchia nella parete, circondata da riflessi spettrali.

La ragazza si avvicinò lentamente e la studiò. A prima vista somigliava a un flacone di profumo, ma non aveva mai visto un esemplare di tale bellezza, né un oggetto di vetro con incisioni tanto elaborate.

Da un tappo a forma di prisma si irradiava un arcobaleno. Hannah provò un desiderio irrefrenabile di toccare quell'oggetto e di accarezzare con le dita le linee perfette del cristallo. Con estrema attenzione, lo prese tra le mani. Pesava più di quanto si aspettasse, e il cristallo risultò gelido al tatto, quasi doloroso a contatto con la pelle. Lo portò all'altezza degli occhi per vedere cosa c'era dentro: quello che i suoi occhi poterono intuire fu solo un nerume impenetrabile. Tuttavia, in controluce, ebbe l'impressione che qualcosa all'interno si muovesse. Un denso liquido nero, forse un profumo. .

Le dita tremanti afferrarono il tappo di vetro intarsiato. Qualcosa si agitò nella boccetta. Per un istante, Hannah esitò. Ma la perfezione di quell'oggetto sembrava promettere la fragranza più inebriante che si potesse immaginare. Fece girare lentamente il tappo. Il nerume nella boccetta si agitò di nuovo, ma ormai lei non ci faceva caso. Alla fine il tappo cedette. Un rumore indescrivibile, come il sibilo di un gas sotto pressione, invase la stanza. In meno di un secondo, dalla boccetta si sparse nell'aria una massa nera, come una macchia d'inchiostro in uno stagno.

Hannah sentì le mani tremarle e quella voce sussurrante che l'avvolgeva. Quando guardò di nuovo la boccetta, si accorse che il vetro era trasparente: qualunque cosa avesse contenuto, grazie a lei era riuscito a liberarsi. La ragazza rimise a posto la boccetta. Avvertì una fredda corrente d'aria percorrere la stanza, spegnendo una dopo l'altra le candele. Mentre l'oscurità si faceva largo nella camera, nel buio divenne visibile una nuova presenza. Una sagoma indistinguibile si espandeva sulle pareti colorandole di tenebre. Un'ombra.

Hannah retrocesse adagio verso la porta. Le mani tremanti si posarono sul freddo pomello alle sue spalle. Lo girò lentamente senza distogliere gli occhi dall'oscurità e si preparò a uscire dalla stanza in tutta fretta. Qualcosa avanzava verso di lei, poteva sentirlo. La ragazza stava tirando il pomello per richiudere la stanza quando uno dei bassorilievi della porta si agganciò alla catenina che portava al collo.

In quello stesso momento un rumore grave e spaventoso risuonò dietro di lei, il sibilo di un grande serpente. Hannah sentì lacrime di terrore scivolarle lungo le guance. La catenina si spezzò e la giovane sentì il ciondolo cadere nel buio. Liberata dalla presa, Hannah affrontò il tunnel di ombre che si apriva davanti a lei. A una delle estremità, la porta che conduceva alla scala dell'ala posteriore era aperta. Si sentì di nuovo il sibilo spettrale. Più vicino. Hannah corse verso la scala. Pochi attimi dopo, identificò il rumore della maniglia che iniziava a girare nella penombra. Stavolta il panico le strappò un urlo, e la ragazza si lanciò giù per le scale.

La discesa verso il piano inferiore le parve infinita. Hannah saltava gli scalini a tre a tre, ansimando e cercando di non perdere l'equilibrio. Quando arrivò alla porta che immetteva nella parte posteriore del giardino di Cravenmoore, caviglie e ginocchia erano coperte di lividi, ma quasi non avvertiva il dolore.

L'adrenalina aveva acceso una miccia nelle sue vene e la spingeva a continuare la corsa. La porta, che non veniva mai utilizzata, era chiusa. Hannah ruppe il vetro con un gomito e la forzò dall'esterno. Non si accorse del taglio sul braccio finché non arrivò tra le ombre del giardino.

Corse verso il limitare del bosco mentre l'aria fresca della notte le accarezzava i vestiti fradici di sudore, facendoli aderire al corpo. Prima di inoltrarsi nel sentiero che attraversava il bosco di Cravenmoore, Hannah si voltò verso la casa aspettandosi di vedere il suo inseguitore tra le ombre del giardino.

Non c'era traccia dell'apparizione. Respirò a fondo. L'aria fredda le bruciava la gola e le conficcava nei polmoni un punteruolo incandescente. Era pronta a riprendere la corsa quando scorse quella sagoma appiccicata alla facciata di Cravenmoore. Un volto corporeo emerse dal buio, e l'ombra scese strisciando tra i doccioni come un gigantesco ragno.

Hannah si lanciò nel labirinto di oscurità che attraversava il bosco. Ora la luna sorrideva nelle radure e tingeva di azzurro la nebbia. Il vento amplificava le voci sibilanti di migliaia di foglie attorno a lei. Gli alberi erano appostati al suo passaggio come spettri pietrificati, i loro rami le tendevano un mantello di artigli minacciosi. E allora corse disperatamente verso la luce che la guidava alla fine di quel fantasmagorico tunnel, una porta sul chiarore che pareva allontanarsi quanto più lei si sforzava di raggiungerla.

Un fragore nella macchia invase il bosco. L'ombra stava attraversando la vegetazione, travolgendo quanto ostacolava il suo percorso, una trivella assassina che si faceva strada verso di lei. Un grido le si strozzò in gola. I rami e la boscaglia le avevano provocato decine di graffi sulle mani, sulle braccia, sul viso. La fatica le colpiva l'anima come un maglio che annebbiava i suoi sensi e le sussurrava di arrendersi alla stanchezza, di stendersi ad aspettare. . Ma doveva proseguire. Doveva fuggire da lì.

Ancora pochi metri e avrebbe raggiunto la strada che portava in paese. Lì avrebbe incontrato qualche macchina, qualcuno che l'avrebbe raccolta e aiutata. La salvezza era solo a pochi secondi, oltre il limite del bosco.

Le luci lontane di un'automobile che costeggiava la Spiaggia dell'Inglese spazzarono le tenebre della vegetazione. Hannah si alzò e lanciò un grido d'aiuto. Alle sue spalle una tromba d'aria sembrò attraversare la boscaglia e salire tra i rami degli alberi. Hannah sollevò lo sguardo verso la cupola di fronde che offuscavano la luna. Lentamente, l'ombra si dispiegò.

Lei si lasciò sfuggire solo un ultimo gemito. Colando come una pioggia di catrame, l'ombra si abbatteva dall'alto su Hannah. La ragazza chiuse gli occhi ed evocò il viso di sua madre, sorridente e ciarliera. Poco dopo, sentì sul volto il freddo alito dell'ombra.

5. Un castello tra le brume

La barca a vela di Ismael affiorò puntuale dal velo di caligine che accarezzava la superficie della baia.

Irene e la madre, tranquillamente sedute in veranda a bere un caffellatte, si scambiarono uno sguardo.

«Non c'è bisogno che ti dica. .» cominciò Simone.

«Non c'è bisogno che me lo dica. .» le rispose Irene.

«Quando è stata l'ultima volta che io e te abbiamo parlato di uomini?» chiese sua madre.

«Quando ho compiuto sette anni e il nostro vicino Claude mi ha convinto a dargli la mia gonna in cambio dei suoi pantaloni.»

«Bello spettacolo.»

«Mamma, aveva solo cinque anni.»

«Se sono così a cinque anni, figurati a quindici.»

«Sedici.»

Simone sospirò. Sedici anni. Mio Dio. Sua figlia progettava di fuggire con un vecchio lupo di mare.


«Allora stiamo parlando di un adulto.»

«Ha solo un anno e qualcosa più di me. E allora?»

«Tu sei una bambina.»

Irene sorrise paziente alla madre. Simone Sauvelle non aveva futuro come sergente.

«Tranquilla, mamma. So quello che faccio.»

«Proprio questo mi fa paura.»

La barca a vela attraversò la piccola imboccatura della cala. Ismael salutò dalla barca. Simone osservava il ragazzo con un sopracciglio sollevato, in segno di allarme.

«Perché non sale, così me lo presenti?»

«Mamma. .»

Simone annuì. Comunque, non aveva sperato che un sotterfugio del genere funzionasse.

«C'è qualcosa che posso dirti?» propose, ormai in ritirata.

«Augurami una bella giornata.»

Senza aspettare risposta, Irene corse verso il pontile.

Simone vide la figlia prendere la mano di quell'estraneo (che, ai suoi occhi sospettosi, del ragazzo aveva ben poco) e saltare a bordo della barca. Quando Irene si voltò a salutarla, la madre si sforzò di sorridere e ricambiò il saluto. Li vide partire diretti alla baia sotto un sole splendente e sereno. Dalla balaustra della veranda, un gabbiano, forse un'altra madre in crisi, la guardava con rassegnazione.

«Non è giusto» disse al gabbiano. «Quando nascono, nessuno ti spiega che finiranno per fare come te alla loro età.»

L'uccello, indifferente a quelle considerazioni, seguì l'esempio di Irene e volò via. Simone sorrise della propria ingenuità e si preparò a tornare a Cravenmoore. Il lavoro guarisce tutto, si disse.

Dopo pochi minuti di traversata, la riva lontana divenne solo una linea bianca tracciata fra cielo e terra. Il vento dell'est gonfiava le vele del Kyaneos e la prua della barca si apriva il varco in un manto cristallino di riflessi verdi, attraverso il quale si poteva vedere il fondale. Irene, la cui unica precedente esperienza a bordo di una barca era stata la breve traversata di due giorni prima, ammirava a bocca aperta l'ipnotica bellezza della baia da quell'inedita prospettiva.

La Casa del Capo si era ridotta a un tassello bianco tra gli scogli, e le facciate dai colori sgargianti del paese brillavano tra i riflessi che salivano dal mare. In lontananza, la coda di un temporale cavalcava l'orizzonte. Irene chiuse gli occhi e si mise in ascolto del rumore del mare che la circondava. Quando li riaprì, tutto era ancora lì. Era vero.

Una volta stabilita la rotta, a Ismael non restava molto altro da fare se non guardare Irene, che sembrava vittima di un incantesimo marino. Con metodo scientifico, iniziò a osservarla a partire dalle caviglie pallide, salendo lentamente e scrupolosamente fino al punto in cui la gonna nascondeva con inusitata impertinenza la parte superiore delle cosce della ragazza. Allora procedette a soppesare l'aggraziata proporzione del suo busto slanciato. Questa operazione si prolungò per un tempo indefinito, finché, inaspettatamente, i suoi occhi si posarono su quelli di Irene, e Ismael capì che la sua ispezione non era passata inosservata.

«A cosa stai pensando?» domandò lei.

«Al vento» mentì impeccabilmente Ismael. «Sta cambiando e si sposta verso sud. Succede quando c'è tempesta. Ho pensato che prima potrebbe piacerti doppiare il capo. Il panorama è spettacolare.»

«Quale panorama?» chiese Irene con aria innocente.

Stavolta non c'erano dubbi, pensò Ismael: la ragazza lo stava prendendo per i fondelli. Ignorando l'ironia della sua passeggera, portò la barca a vela verso il limite della corrente che costeggiava la scogliera a un miglio dal capo. Appena superato quel limite, Irene poté contemplare l'immensità della grande spiaggia deserta e selvaggia che si estendeva fino alle nebbioline che avvolgevano Mont Saint-Michel, un castello che svettava fra le brume.

«Questa è la Baia Nera» spiegò Ismael. «La chiamano così perché le sue acque sono molto più profonde di quelle di Baia Azzurra, che alla fine è solo una striscia di sabbia di sette o otto metri di larghezza. Una darsena.»

Quella terminologia marinaresca a Irene sembrava cinese, ma la strepitosa bellezza del posto le faceva venire la pelle d'oca. Il suo sguardo incontrò quello che sembrava un vuoto nella roccia, delle fauci spalancate sul mare.


«Questa è la laguna» disse Ismael. «È come un ovale chiuso alle correnti e collegato al mare da una stretta apertura. Dall'altro lato c'è la Grotta dei Pipistrelli. È quel tunnel che entra nella roccia, lo vedi?

Sembra che nel 1746 una tempesta vi fece naufragare un galeone pirata. I resti della nave, e dei pirati, sono ancora lì.»

Irene lo guardò scettica. Ismael poteva essere un bravo capitano, ma in quanto a mentire era un semplice mozzo.

«È la verità» ribadì lui. «A volte ci vado a fare i tuffi. La grotta si addentra nella roccia e non finisce mai.»

«Mi ci porterai?» chiese Irene, fingendo di credere all'assurda storia del vascello fantasma.

Ismael arrossì leggermente. Quella domanda faceva presagire una continuità. Un impegno. In una parola, pericolo.

«Ci sono i pipistrelli. Da cui il nome. .» la avvertì il ragazzo, incapace di trovare un argomento più adatto a dissuaderla.

«Adoro i pipistrelli. Topolini volanti» rimarcò lei, decisa a prenderlo ancora in giro.

«Quando vuoi» cedette Ismael.

Irene gli sorrise dolcemente. Quel sorriso disorientò del tutto Ismael. Per qualche secondo non seppe più se il vento soffiava da nord o se la chiglia era una specialità dolciaria. E la cosa peggiore era che la ragazza sembrava accorgersene. Era il momento di un cambio di rotta. Con un colpo di timone, Ismael virò quasi in cerchio mentre faceva passare la randa, inclinando la barca al punto che Irene sentì il mare accarezzarle la pelle. Una lingua di freddo. La ragazza urlò tra le risate. Ismael le sorrise. Non sapeva ancora bene cosa trovasse in lei, ma di una cosa era certo: non poteva toglierle gli occhi di dosso.

«Rotta verso il faro» annunciò.

Pochi attimi dopo, cavalcando la corrente e con l'invisibile mano del vento alle spalle, il Kyaneos scivolò come una freccia sul mare. Ismael sentì Irene aggrapparsi alla sua mano. La barca a vela vibrava come se toccasse appena l'acqua. Una scia di spuma bianca disegnava ghirlande al suo passaggio. Irene guardò Ismael e si accorse che anche lui la guardava. Per un momento i suoi occhi si persero in quelli di lei, e Irene sentì il ragazzo stringerle dolcemente la mano. Il mondo non era mai stato così lontano.

Quello stesso giorno, a metà mattina, Simone Sauvelle varcò la soglia della biblioteca personale di Lazarus Jann, che occupava un'immensa sala ovale nel cuore di Cravenmoore. Un universo infinito di libri saliva in una babilonica spirale verso un lucernario di vetro dipinto. Migliaia di mondi sconosciuti e misteriosi si incontravano in quella imponente cattedrale di libri. Per qualche secondo Simone ammirò a bocca aperta lo spettacolo, lo sguardo intrappolato nella nebbia evanescente che danzava salendo verso la volta. Ci mise un paio di minuti ad accorgersi che non era sola.

Una sagoma elegantemente vestita era seduta a una scrivania illuminata da un raggio di luce che cadeva in verticale dal lucernario. Sentendo i suoi passi, Lazarus si voltò e, chiudendo il libro che stava consultando, un vecchio tomo dall'aspetto centenario rilegato in pelle nera, le sorrise amabilmente. Un sorriso caldo e contagioso.

«Ah, madame Sauvelle. Benvenuta nel mio piccolo rifugio» disse alzandosi.

«Non volevo interromperla. .»

«Al contrario, mi fa piacere che lo abbia fatto» rispose Lazarus. «Desideravo parlare con lei di un ordine di libri che voglio fare alla ditta Arthur Francher. .»

«Arthur Francher, a Londra?»

Il volto di Lazarus si illuminò.

«La conosce?»

«Mio marito comprava spesso dei libri lì durante i suoi viaggi. Burlington Arcade.»

«Sapevo che non avrei potuto scegliere una persona più qualificata di lei per questo lavoro» disse Lazarus, facendo arrossire Simone.

«Che ne dice se parliamo davanti a una tazza di caffè?» la invitò.

Simone annuì timidamente. Lazarus sorrise di nuovo e rimise al suo posto il grosso libro che aveva in mano, fra altre centinaia di volumi simili.

Simone lo guardò e non poté fare a meno di leggere il titolo inciso a mano sul volume. Una sola parola, sconosciuta e incomprensibile: Doppelgänger.

Poco prima di mezzogiorno, Irene avvistò a prua l'isolotto del faro. Ismael decise di girarci attorno per iniziare la manovra di avvicinamento e attraccare in una piccola insenatura dell'isolotto, roccioso e selvaggio. A quel punto Irene, grazie alle spiegazioni di Ismael, sapeva già qualcosa di arti nautiche e di fisica elementare del vento. Così, seguendo le sue istruzioni, riuscirono a tenere a bada la spinta della corrente e a intrufolarsi nel corridoio di scogli che portava al vecchio pontile del faro.

L'isolotto era solo un pezzo di roccia desolata che emergeva dalla baia. Ci abitava una nutrita colonia di gabbiani. Alcuni osservarono gli intrusi con una certa curiosità. Gli altri si alzarono in volo. Passando, Irene riuscì a scorgere vecchi capanni di legno rovinati da decenni di temporali e dall'incuria. Il faro in sé era una torre slanciata, coronata da una lanterna prismatica, che sormontava una piccola casa di un solo piano, la vecchia abitazione del custode.

«Oltre a me, ai gabbiani e a qualche granchio, qui non viene nessuno da anni» disse Ismael.

«Senza contare il fantasma del vascello pirata» scherzò Irene.

Il ragazzo condusse la barca a vela fino al pontile e saltò a terra per assicurare la cima di prua. Irene seguì il suo esempio. Appena il Kyaneos fu ben ormeggiato, Ismael prese un cesto di provviste preparato per lui dalla zia, convinta che non ci fosse nessuna possibilità di conquistare una signorina con lo stomaco vuoto e che bisognasse soddisfare gli istinti per ordine di priorità.

«Vieni. Se ti piacciono le storie di fantasmi, questo ti interesserà. .»

Ismael aprì la porta della casa del faro e fece segno a Irene di precederlo. La ragazza entrò nella vecchia abitazione ed ebbe la sensazione di essere tornata indietro nel tempo di due decenni. Tutto era rimasto intatto, avvolto da una cappa di nebbia prodotta, anno dopo anno, dall'umidità. Decine di libri, oggetti e mobili erano immutati, come se un fantasma si fosse portato via di notte il guardiano del faro.

Irene guardò Ismael, affascinata.

«Aspetta di vedere il faro» disse lui.

La prese per mano e la condusse fino alla scala che saliva a spirale verso la torre. Irene si sentiva come un'intrusa che invadeva quel luogo sospeso nel tempo e, insieme, come un'avventuriera sul punto di svelare uno strano mistero.

«Cosa è successo al guardiano?»

Ismael impiegò un po' di tempo a rispondere.

«Una notte salì sulla sua barca e lasciò l'isolotto. Non si prese neppure la briga di raccogliere le sue cose.»

«Perché avrebbe fatto una cosa del genere?»

«Non l'ha mai spiegato» rispose Ismael.

«E tu perché credi che lo abbia fatto?»

«Per paura.»

Irene deglutì e si guardò alle spalle, aspettandosi di vedere da un momento all'altro lo spettro di quella donna annegata che saliva come un demone di luce lungo la scala a chiocciola, con gli artigli protesi verso di lei, il volto bianco come porcellana e due cerchi neri intorno agli occhi saettanti.

«Non c'è nessuno qui, Irene. Solo tu e io» disse Ismael.

La ragazza annuì senza molta convinzione.

«Solo gabbiani e granchi, eh?»

«Esatto.»

La scala sbucava sulla piattaforma del faro, una torre di vedetta sull'isolotto dalla quale si poteva contemplare tutta Baia Azzurra. Uscirono entrambi all'esterno. La brezza fresca e la luce splendente facevano svanire tutti gli echi spettrali evocati dall'interno del faro. Irene respirò a fondo e si lasciò stregare dallo spettacolo che si poteva godere soltanto da lì.

«Grazie per avermi portata» sussurrò.

Ismael annuì, distogliendo nervosamente lo sguardo.

«Ti va di mangiare qualcosa? Io sto morendo di fame» annunciò.

Così, si sedettero entrambi all'estremità della piattaforma del faro e, con le gambe penzoloni nel vuoto, fecero onore ai manicaretti che la cesta nascondeva. Nessuno dei due aveva davvero molto appetito, però mangiare teneva occupate le mani e la mente.

In lontananza, Baia Azzurra dormiva sotto il sole pomeridiano, indifferente a quanto accadeva su quell'isolotto appartato dal mondo.

Tre tazze di caffè e un'eternità più tardi, Simone era ancora in compagnia di Lazarus, ignara del passare del tempo. Quella che era iniziata come una semplice chiacchierata amichevole si era tramutata in una lunga e profonda conversazione su libri, viaggi e vecchi ricordi. Dopo appena poche ore, la donna aveva la sensazione di conoscere Lazarus da tutta la vita. Per la prima volta da mesi si sorprese a dissotterrare ricordi dolorosi degli ultimi giorni di vita di Armand, e nel farlo provò una benefica sensazione di sollievo. Lazarus ascoltava con attenzione e in rispettoso silenzio. Sapeva quando cambiare discorso o quando lasciar fluire liberamente la memoria.

Le costava pensare a Lazarus come al suo datore di lavoro. Ai suoi occhi, l'inventore di giocattoli assomigliava più a un amico, un buon amico. Via via che il pomeriggio avanzava, Simone comprese, tra il rimorso e una vergogna quasi infantile, che in altre circostanze, in un'altra vita, quella straordinaria intesa tra loro avrebbe forse potuto essere il seme di qualcos'altro. L'ombra della vedovanza e i ricordi fluttuavano dentro di lei come la scia di un temporale; nello stesso modo in cui la presenza invisibile della moglie malata di Lazarus saturava l'atmosfera di Cravenmoore. Testimoni invisibili nell'oscurità.

Le bastarono alcune ore di semplice conversazione per leggere negli occhi dell'inventore di giocattoli i suoi stessi pensieri. Ma vi lesse anche che il legame con la moglie sarebbe stato eterno e che il futuro riservava loro niente più di un'amicizia. Una profonda amicizia. Un ponte invisibile si alzò tra due mondi che si sapevano separati da oceani di ricordi.

Una luce aurea che annunciava il crepuscolo invase lo studio di Lazarus e tese fra i due una rete di riflessi dorati. Lazarus e Simone si guardarono in silenzio.

«Posso farle una domanda personale, Lazarus?»

«Certamente.»

«Per quale motivo è diventato un inventore di giocattoli? Il mio defunto marito era ingegnere, e di un certo talento. Ma il suo lavoro rivela un talento rivoluzionario. E non esagero; lei lo sa meglio di me.

Perché i giocattoli?»

Lazarus sorrise in silenzio

«Non è obbligato a rispondermi» aggiunse Simone.

L'uomo si alzò e camminò lentamente fino al davanzale della finestra. La luce dorata tinse la sua sagoma.

«È una lunga storia» cominciò. «Quando ero ancora bambino, la mia famiglia viveva nell'antico quartiere di Les Gobelins, a Parigi. Probabilmente lei conosce la zona, un rione povero e imbruttito da vecchi edifici bui e insalubri. Una cittadella spettrale e grigia, dalle strade anguste e miserevoli. In quei giorni, se possibile, la situazione era persino più degradata di quello che lei può ricordare. Noi occupavamo un piccolo appartamento in un vetusto immobile di rue des Gobelins. Parte della facciata era puntellata per le minacce di crolli, ma nessuna delle famiglie che occupavano il palazzo era in condizione di trasferirsi in una casa migliore. Come riuscivamo a vivere lì i miei tre fratelli, io, i miei genitori e lo zio Luc mi sembra ancora un mistero. Ma sto divagando. .

«Ero un ragazzo solitario. Lo sono sempre stato. La maggior parte dei ragazzi della strada erano interessati a cose che mi annoiavano e, d'altra parte, le cose che interessavano me non suscitavano la curiosità di nessuno di quelli che conoscevo. Avevo imparato a leggere: un miracolo; e i miei amici perlopiù erano libri. Questo sarebbe stato un motivo di preoccupazione per mia madre se non avesse avuto altri problemi più gravi in casa: lei ha sempre creduto nell'idea che un'infanzia sana consistesse nello scorrazzare per strada, imparando a imitare gli usi e i costumi di chi ci circondava.

«Mio padre si limitava ad aspettare che io e i miei fratelli fossimo abbastanza grandi da portare un po'

di soldi in famiglia. Altri non erano così fortunati. Nella nostra scala viveva un ragazzo della mia età che si chiamava Jean Neville. Jean e la madre, vedova, erano reclusi in un minuscolo appartamento al pianterreno. Il padre del ragazzo era morto anni prima in conseguenza di una malattia contratta nella fabbrica di piastrelle dove aveva lavorato per tutta la vita. Una cosa comune, a quanto pare. Seppi tutto questo perché, con il tempo, divenni l'unico amico che il piccolo Jean ebbe nel quartiere. La madre, Anne, non lo faceva uscire dal palazzo o dal cortile interno. La sua casa era il suo carcere.

«Otto anni prima, Anne Neville aveva dato alla luce due gemelli nel vecchio ospedale di Saint-Christian, a Montparnasse. Jean e Joseph. Joseph nacque morto. Durante gli otto anni della sua esistenza, Jean imparò a crescere nel buio della colpa per aver ucciso il fratello alla nascita. O, almeno, era questo che credeva. Anne si incaricò di ricordargli giorno dopo giorno che il fratello era nato morto per colpa sua; se non fosse stato per lui, al suo posto ci sarebbe stato un bambino meraviglioso. Nulla di quanto faceva o diceva riusciva a conquistare l'affetto di sua madre.

«Anne Neville, ovviamente, in pubblico dispensava le normali affettuosità al figlio. Ma nella solitudine di quell'appartamento la realtà era un'altra. Anne glielo ricordava quotidianamente: Jean era uno scansafatiche. Un perdigiorno. I suoi risultati scolastici erano scarsi. Le sue qualità, più che dubbie. I suoi movimenti, sgraziati. La sua esistenza, in sintesi, una maledizione. Joseph, invece, sarebbe stato un ragazzino adorabile, studioso, affettuoso. . Tutto ciò che lui non sarebbe mai potuto essere.

«Il piccolo Jean non tardò a capire che sarebbe dovuto morire lui in quella triste stanza d'ospedale otto anni prima. Stava occupando il posto di un altro. . Tutti i giocattoli che Anne aveva per anni messo da parte per il futuro figlio furono bruciati nella stufa la settimana successiva al ritorno dall'ospedale.

Jean non ebbe mai un giocattolo. Gli erano proibiti. Non li meritava.

«Una notte in cui il ragazzino si svegliò urlando nel sonno, la madre accorse al suo letto e gli chiese cosa succedeva. Jean, terrorizzato, confessò che aveva sognato un'ombra, uno spirito maligno che lo inseguiva lungo un tunnel interminabile. La risposta di Anne fu chiara. Si trattava di un segno. L'ombra che aveva sognato era il riflesso del fratello morto che chiedeva vendetta. Doveva fare un ulteriore sforzo per essere un figlio migliore, per obbedire in tutto alla madre, per non discutere neppure una delle sue parole e delle sue azioni. In caso contrario, l'ombra avrebbe preso vita e sarebbe tornata per condurlo all'inferno. Con queste parole, Anne prese il figlio e lo portò in cantina, dove lo lasciò solo, al buio, per dodici ore, perché meditasse su ciò che gli aveva detto. Quella fu la prima delle sue reclusioni.

«Un anno dopo, quando un pomeriggio il piccolo Jean mi raccontò tutto questo, fui invaso da una sensazione d'orrore. Volevo aiutarlo, confortarlo e compensare in qualche modo la miseria in cui viveva.

L'unica cosa che mi venne in mente fu di raggranellare le monete che avevo messo per mesi nel mio salvadanaio e di andare al negozio di giocattoli di monsieur Giradot. Con quello che avevo non potevo comprare granché, e ottenni solo un vecchio burattino, un angelo di cartone che poteva essere manovrato con i fili. Lo avvolsi in una carta lucida e, il giorno dopo, aspettai che Anne Neville uscisse a fare la spesa. Bussai alla porta di casa e dissi che ero io, Lazarus. Jean aprì e gli diedi il pacchetto. Era un regalo, spiegai, e me ne andai.

«Non lo vidi per tre settimane. Immaginai che Jean si stesse godendo il mio regalo, giacché io non avrei potuto godermi i miei risparmi per molto tempo. Seppi in seguito che quell'angelo di panno e cartone era sopravvissuto un solo giorno. Anne lo aveva trovato e bruciato. Quando gli aveva chiesto dove lo avesse preso, Jean, che non voleva coinvolgermi, disse di averlo fatto con le sue mani.

«E un giorno la punizione fu ancora più terribile. Anne, fuori di sé, portò il figlio in cantina e lo chiuse lì, minacciando che quella volta l'ombra sarebbe venuta a cercarlo nell'oscurità per portarselo via.

«Jean Neville passò lì una settimana intera. Sua madre si era fatta coinvolgere in un alterco al mercato di Les Halles e la polizia l'aveva rinchiusa, insieme a molti altri, in una cella comunale. Quando la liberarono, si mise a vagare per giorni nelle strade. Al suo ritorno trovò la casa vuota e la porta della cantina sbarrata. Alcuni vicini l'aiutarono a buttarla giù. La cantina era deserta. Non c'era traccia di Jean da nessuna parte. .»

Lazarus fece una pausa. Simone rimase in silenzio, in attesa che il fabbricante di giocattoli finisse il suo racconto.

«Nessuno vide mai più Jean Neville nel quartiere. La maggior parte di quanti vennero a conoscenza della sua storia immaginò che il bambino fosse fuggito da qualche botola della cantina per andarsene il più lontano possibile dalla madre. Suppongo che sia accaduto proprio questo, per quanto, se lei lo avesse chiesto alla mamma, che passò settimane, mesi, piangendo sconsolata la perdita del figlio, sono certo che le avrebbe detto che l'ombra se l'era preso. . Prima le ho confidato che probabilmente sono stato l'unico amico di Jean Neville. Sarebbe più giusto dire il contrario. Fu lui il mio unico amico. Anni dopo, mi ripromisi che, se fosse dipeso da me, mai più nessun bambino sarebbe stato privato di un giocattolo. Nessun bambino avrebbe dovuto vivere l'incubo che aveva tormentato l'infanzia del mio amico Jean. Ancora oggi mi chiedo dove sarà, se è ancora vivo. Immagino che le sembrerà una spiegazione un po' strana. .»

«Niente affatto» rispose Simone, il viso nascosto nell'ombra.

Poi si spostò verso la luce e abbozzò un ampio sorriso per Lazarus.

«Si è fatto tardi» disse dolcemente l'inventore di giocattoli. «Devo andare da mia moglie.»

Simone annuì.


«Grazie per la compagnia, madame Sauvelle» disse Lazarus, uscendo in silenzio dalla stanza.

Lei lo guardò andare e sospirò a fondo. La solitudine tracciava strani labirinti.

Il sole cominciava a calare sulla baia e le lenti del faro stillavano scintillii ambrati e scarlatti sul mare.

Ora la brezza era più fresca e il cielo si tingeva di un azzurro chiaro, solcato da alcune nuvole che viaggiavano smarrite, come dirigibili d'ovatta bianca.

Irene era stesa, appoggiata con grazia alla spalla di Ismael, in silenzio. Il ragazzo la circondò lentamente con un braccio. Lei alzò gli occhi. Le sue labbra erano socchiuse e tremavano in modo impercettibile. Ismael avvertì un solletico allo stomaco e sentì uno strano ticchettio nelle orecchie. Era il suo cuore che martellava a tutta velocità. Poco alla volta, le loro labbra si avvicinarono timidamente.

Irene chiuse gli occhi. Ora o mai più, sembrava sussurrare una voce a Ismael. Il ragazzo scelse la prima opzione e lasciò che la sua bocca sfiorasse quella di Irene. I dieci secondi successivi durarono dieci anni.

Più tardi, quando entrambi sentirono che non esistevano più barriere fra loro, che ogni sguardo e ogni gesto erano una parola di una lingua che solo loro potevano decifrare, Irene e Ismael rimasero abbracciati in silenzio in cima al faro. Se fosse dipeso da loro, sarebbero rimasti lì fino al giorno del Giudizio.

«Dove ti piacerebbe essere tra dieci anni?» chiese Irene all'improvviso.

Ismael si soffermò a pensarci. Non era facile.

«Bella domanda. Non lo so.»

«Cosa ti piacerebbe fare? Continuare il mestiere di tuo zio sulla barca?»

«Non credo che sarebbe una buona idea.»

«Allora cosa?» insisté lei.

«Non lo so, credo sia una sciocchezza. .»

Ismael si immerse in un lungo silenzio. Irene aspettò pazientemente.

«Sceneggiati radiofonici. Mi piacerebbe scrivere sceneggiati per la radio» rispose alla fine Ismael.

Ormai l'aveva detto.

Irene gli sorrise. Di nuovo quel sorriso indefinibile e misterioso.

«Che genere di sceneggiati?»

Ismael la guardò con attenzione. Non ne aveva mai parlato con nessuno e non si sentiva abbastanza sicuro per farlo. Forse la cosa migliore era ripiegare le vele e tornare in porto.

«Del mistero» rispose, esitante, alla fine.

«Pensavo che non credessi ai misteri.»

«Non c'è bisogno di crederci per scriverne» replicò Ismael. «È da un sacco di tempo che raccolgo ritagli di giornale su un tizio che fa sceneggiati radiofonici. Si chiama Orson Welles. Magari potrei provare a lavorare con lui. .»

«Orson Welles? Non ne ho mai sentito parlare, ma immagino che non sarà una persona facilmente raggiungibile. Hai già qualche idea?»

Ismael annuì in modo vago.

«Promettimi che non lo racconterai a nessuno.»

La ragazza alzò solennemente una mano.

L'atteggiamento di Ismael le pareva infantile, ma la cosa la incuriosiva.

«Seguimi.»

Ismael la riportò alla casa del guardiano del faro.

Una volta lì, si avvicinò a un baule in un angolo e lo aprì. Gli occhi gli brillavano per l'eccitazione.

«La prima volta che sono venuto qui stavo facendo immersioni e ho scoperto i resti della barca sulla quale si pensa che sia annegata quella donna vent'anni fa» disse in tono enigmatico. «Ti ricordi la storia che ti ho raccontato?»

«Le luci di settembre. La signora misteriosa scomparsa nella tempesta. .» recitò Irene.

«Esatto. Indovina che cosa ho trovato nei resti della barca?»

«Cosa?»

Ismael infilò la mano nel baule e tirò fuori un piccolo libro rilegato in pelle, custodito in una specie di scatola di metallo non più grande di un portasigarette.

«L'acqua ha cancellato alcune pagine, però si possono ancora leggere dei brani.»

«Un libro?» domandò Irene incuriosita.


«Non è un libro qualsiasi» spiegò lui. «È un diario. Il suo diario.»

Il Kyaneos salpò, di ritorno alla Casa del Capo, poco prima del tramonto. Un campo di stelle si estendeva sul manto azzurro che ricopriva la baia, mentre la sfera sanguigna del sole si immergeva lenta all'orizzonte, come un disco di ferro incandescente.

Irene osservava in silenzio Ismael che pilotava la barca.

Il ragazzo le sorrise e continuò a tenere d'occhio le vele, attento alla direzione del vento che si stava levando a ponente.

Prima di lui, Irene aveva baciato due ragazzini. Il primo, il fratello di una delle sue amiche di scuola, era stato più che altro un esperimento. Voleva sapere cosa si provava. Non le era sembrato granché. Il secondo, Gerard, era più spaventato di lei, e l'esperienza non aveva dissipato i dubbi di Irene al riguardo. Baciare Ismael era stato diverso. Sfiorando le sue labbra, aveva sentito una specie di corrente elettrica percorrerle il corpo. Il suo tocco era diverso. Il suo odore era diverso. In lui tutto era diverso.

«A cosa stai pensando?»

Questa volta fu Ismael che lo chiese a lei, incuriosito dalla sua espressione meditabonda.

Irene gli rispose con un gesto enigmatico, alzando un sopracciglio.

Lui si strinse nelle spalle e continuò a pilotare la barca a vela verso il capo. Uno stormo di uccelli li scortò fino al pontile tra gli scogli. Le luci della casa disegnavano scie danzanti sulla piccola cala. In lontananza, i riflessi del paese formavano un sentiero di stelle sul mare.

«È già notte» osservò Irene con una certa preoccupazione. «Non ti succederà niente, vero?»

Ismael sorrise.

«Il Kyaneos conosce la strada a memoria. Non mi succederà niente.»

La barca a vela si appoggiò dolcemente al pontile.

Dagli scogli, il gracchio degli uccelli arrivava come un'eco lontana. Ora una fascia blu scuro coronava la linea incandescente del crepuscolo sull'orizzonte, e la luna sorrideva tra le nubi.

«Be'. . si è fatto tardi» iniziò Irene.

«Sì.»

La ragazza saltò a terra.

«Prendo il diario. Prometto di averne cura.»

Ismael fece un cenno di assenso. Irene si lasciò sfuggire una risatina nervosa.

«Buona notte.»

Si guardarono nella penombra.

«Buona notte, Irene.»

Ismael sciolse gli ormeggi.

«Avevo pensato di andare alla laguna domani. Magari ti piacerebbe venirci. .»

Lei annuì. La corrente stava allontanando la barca.

«Vengo a prenderti qui. .»

La sagoma del Kyaneos svanì nell'oscurità. Irene rimase lì a guardarlo partire, finché le tenebre della notte non lo ebbero completamente inghiottito. Allora, camminando a due palmi da terra, si affrettò verso la Casa del Capo. Sua madre l'aspettava in veranda, seduta al buio. Non c'era bisogno di una laurea in ingegneria ottica per indovinare che Simone aveva visto e sentito tutto quello che era accaduto al pontile.

«Com'è andata la giornata?» chiese.

Irene deglutì. La madre sorrise maliziosa.

«Puoi raccontarmelo.»

Irene si sedette accanto alla madre, lasciandosi abbracciare.

«E la tua?» domandò la ragazza. «A te com'è andata oggi?»

Simone si lasciò sfuggire un sospiro ricordando il pomeriggio in compagnia di Lazarus. Abbracciò in silenzio la figlia e sorrise tra sé.

«Una strana giornata, Irene. Sto diventando vecchia, credo.»

«Che sciocchezza.»

La ragazza guardò la madre negli occhi.

«Qualcosa non va, mamma?»

Simone sorrise debolmente e negò in silenzio.


«Mi manca tuo padre» rispose alla fine, mentre una lacrima le scivolava dalla guancia alle labbra.

«Papà è morto» disse Irene. «Devi lasciarlo andare.»

«Non so se voglio lasciarlo andare.»

Irene la strinse fra le braccia e sentì Simone spargere le sue lacrime nell'oscurità.

6. Il diario di Alma Maltisse

Il giorno successivo sorse avvolto in un manto di bruma. Le prime luci dell'alba sorpresero Irene ancora immersa nella lettura del diario che le aveva affidato Ismael. Quella che ore prima era iniziata come semplice curiosità, era andata crescendo nel corso della notte fino a trasformarsi in un'ossessione.

Fin dalla prima riga appannata dal tempo, la calligrafia di quella misteriosa signora scomparsa nelle acque della baia si era rivelata un geroglifico ipnotico, un enigma senza soluzione che aveva impedito alla ragazza di dormire.

. . Oggi ho visto per la prima volta il volto dell'ombra. Mi osservava in silenzio dal 'oscurità, immobile e in agguato. So perfettamente ciò che c'era in quegli occhi, la forza che la manteneva viva: l'odio. Ho potuto sentire la sua presenza e ho capito che, prima o poi, i nostri giorni in questo luogo si trasformeranno in un incubo. Soltanto adesso mi rendo conto di tutto l'aiuto di cui lui ha bisogno e del fatto che, succeda quel che succeda, non posso lasciarlo solo. .

Pagina dopo pagina, la voce segreta di quella donna sembrava parlarle come un sussurro, consegnandole confidenze e segreti che erano rimasti sommersi e dimenticati per anni. Sei ore dopo aver iniziato a leggere il diario, la signora sconosciuta era diventata una sorta di amica invisibile, una voce incagliata nella nebbia che, in mancanza di altra consolazione, aveva scelto lei come depositaria dei suoi segreti, delle sue memorie e dell'enigma di quella notte, una notte di settembre che l'avrebbe portata alla morte nelle fredde acque dell'isolotto del faro.

. . È successo di nuovo. Stavolta si è trattato dei miei vestiti. Questa mattina, entrando nel mio spogliatoio, ho trovato l'anta dell'armadio aperta e tutti i miei vestiti, i vestiti che lui mi ha regalato in questi anni, fatti a brandelli, strappati come se li avesse tagliati la lama di cento coltelli. Sette giorni fa era toccato al mio anello di fidanzamento. L'ho trovato deformato e calpestato per terra. Altri gioielli sono scomparsi. Gli specchi della mia stanza sono graffiati. Ogni giorno la sua presenza è più forte e la sua rabbia più palpabile. È solo questione di tempo: le sue aggressioni smetteranno di colpire le mie cose e si concentreranno su di me. È me che odia. È me che vuole vedere morta. In questo luogo non c'è spazio per entrambe..

Quando Irene terminò l'ultima pagina del diario, l'alba aveva steso un tappeto color rame sul mare.

Per un istante pensò di non aver mai saputo tante cose di qualcuno. Nessuno, neppure sua madre, le aveva mai rivelato tutti i segreti della propria anima con la sincerità con cui il diario denudava i pensieri di quella donna che, paradossalmente, le era sconosciuta. Una donna morta anni prima che lei nascesse.

. . Non ho nessuno con cui parlare, a cui confidare l'orrore che m'invade l'anima giorno dopo giorno. A volte vorrei tornare indietro, ripercorrere i miei passi nel tempo. È in quei momenti che più comprendo quanto la mia paura e la mia tristezza non possono paragonarsi al e sue, che lui ha bisogno di me e che, se non ci fossi, la sua luce si spegnerebbe per sempre. Chiedo solo a Dio di darci la forza per sopravvivere, per sfuggire al a portata dell'ombra che incombe su di noi.

Ogni riga che scrivo in questo diario mi sembra l'ultima.

Per qualche motivo, Irene scoprì che aveva voglia di piangere. In silenzio, versò le sue lacrime in ricordo di quella signora invisibile il cui diario aveva acceso una luce dentro di lei. Ciò che il diario rivelava sull'identità della sua autrice stava in due parole all'inizio della prima pagina.

Alma Maltisse

Poco dopo, Irene vide la vela del Kyaneos squarciare la nebbiolina facendo rotta verso la Casa del Capo. Prese il diario e, quasi in punta di piedi, s'incamminò verso il nuovo appuntamento con Ismael.

In pochi minuti l'imbarcazione si aprì un varco nella corrente che sferzava l'estremità del capo e si addentrò nella Baia Nera. La luce del mattino scolpiva figure sulle pareti delle falesie che formavano buona parte della costa della Normandia, muri di roccia che fronteggiavano l'oceano. I riflessi del sole sull'acqua disegnavano lampi accecanti di schiuma e argento acceso. Il vento del nord spingeva con forza la barca, con la chiglia che tagliava la superficie come un pugnale. Tutto questo per Ismael era semplice abitudine; per Irene, le mille e una notte.

Agli occhi di una marinaia inesperta come lei, quel debordante spettacolo di luce e acqua sembrava recare la promessa di mille avventure e di altrettanti misteri che aspettavano di essere scoperti sotto il manto dell'oceano. Ismael, al timone, si mostrava insolitamente sorridente e conduceva la barca verso la laguna. Irene, vittima riconoscente del sortilegio del mare, proseguì con il racconto di quanto aveva scoperto dalla prima lettura del diario di Alma Maltisse.

«Evidentemente, lo scriveva per se stessa» spiegò la ragazza. «È strano che non citi mai nessuno con il suo nome. Come se fosse un racconto di persone invisibili.»

«È impenetrabile» commentò Ismael, che tempo prima aveva abbandonato la lettura del diario, ritenendola impossibile.

«Niente affatto» obiettò Irene. «Solo che per capirlo bisogna essere una donna.»

Le labbra di Ismael sembrarono sul punto di dischiudersi in una replica all'asserzione della sua copilota, ma per qualche motivo i suoi pensieri batterono in ritirata.

Dopo un po', il vento di poppa li spinse fino all'ingresso della laguna. Uno stretto passaggio fra le rocce abbozzava un'imboccatura in un porto naturale. Le acque della laguna, profonde solo tre o quattro metri, erano un giardino di smeraldi trasparenti e il fondo sabbioso sfavillava come un velo di garza bianca ai loro piedi. Irene contemplò estasiata la magia che l'arco della laguna racchiudeva al suo interno. Un banco di pesci danzava sotto la carena del Kyaneos, come piccole frecce d'argento che brillavano a intermittenza.

«Incredibile» balbettò Irene.

«È la laguna» chiarì Ismael, più prosaico.

Più tardi, mentre lei era ancora sotto gli effetti della prima visita a quel luogo, il ragazzo approfittò per ammainare le vele e ancorare la barca. Il Kyaneos oscillava piano, una foglia nella calma di uno stagno.

«Bene. Vuoi vedere questa grotta o no?»

Per tutta risposta, Irene gli rivolse un sorriso di sfida e, senza staccare gli occhi dai suoi, si tolse lentamente il vestito. Le pupille di Ismael si allargarono come piatti. La sua immaginazione non aveva anticipato un simile spettacolo. Irene, equipaggiata di un costume succinto, le cui ridotte dimensioni non avevano mai permesso a sua madre di considerarlo degno di questo nome, sorrise all'espressione di Ismael.

Dopo averlo stordito con quella visione per un paio di secondi, il tempo necessario a non lasciarlo abituare, si buttò in acqua e si immerse sotto la lamina di riflessi ondulanti. Ismael deglutì. O era molto lento, o quella ragazza era troppo veloce per lui. Senza pensarci due volte, la seguì in acqua. Aveva bisogno di un bagno.

Ismael e Irene nuotarono fino all'ingresso della Grotta dei Pipistrelli. Il tunnel si addentrava nella terra come una cattedrale intagliata nella roccia. Dall'interno proveniva una tenue corrente che accarezzava la pelle sott'acqua. Il soffitto della caverna marina formava una volta, coronata da centinaia di lunghe schegge di roccia che pendevano nel vuoto come lacrime di ghiaccio pietrificato. I riflessi dell'acqua rivelavano migliaia di anfratti tra le rocce, e il fondo sabbioso acquistava una fosforescenza spettrale che stendeva un tappeto di luce verso l'interno.

Irene si immerse e aprì gli occhi sott'acqua. Davanti a lei danzava lentamente un mondo di riflessi evanescenti, popolato da creature strane e affascinanti. Piccoli pesci le cui scaglie cambiavano colore a seconda della direzione nella quale si rifletteva la luce. Piante iridescenti sugli scogli. Minuscoli granchi che correvano sul fondo di sabbia. La ragazza rimase a guardare la fauna che abitava la caverna finché non le mancò l'aria.

«Se continui così, ti spunterà la coda da pesce, come alle sirene» disse Ismael.

Lei gli strizzò un occhio e lo baciò nel tenue chiarore della caverna.

«Sono già una sirena» sussurrò, addentrandosi nella Grotta dei Pipistrelli.

Ismael scambiò un'occhiata con uno stoico granchio che lo scrutava dalla parete dello scoglio e che sembrava avere una curiosità antropologica per la scena. Il saggio sguardo del crostaceo non lasciava alcun dubbio. Lo stavano di nuovo prendendo per i fondelli.

Un giorno intero di assenza, pensò Simone. Erano ore che Hannah non si faceva viva. Simone si chiese se si trovava di fronte a un problema di pura disciplina. Magari fosse stato così. Aveva lasciato passare la giornata di domenica in attesa di notizie della ragazza, pensando che fosse dovuta andare a casa.

Una piccola indisposizione. Un impegno imprevisto. Qualunque spiegazione le sarebbe bastata. Dopo ore di attesa, decise di affrontare il dilemma. Stava prendendo il telefono per chiamare a casa della ragazza quando una chiamata in entrata l'anticipò. La voce che sentì le risultava sconosciuta, e il modo in cui il suo possessore si identificò fece poco per tranquillizzarla.

«Buon giorno, madame Sauvelle. Il mio nome è Henri Faure. Sono il commissario capo della gendarmeria di Baia Azzurra» annunciò, ogni parola più pesante della precedente.

Un silenzio teso si impadronì della linea.

«Madame?» chiese il poliziotto.

«L'ascolto.»

«Non mi è facile dirglielo. .»

Per quel giorno Dorian aveva dato per conclusa la sua attività di messaggero. Gli incarichi che gli aveva affidato Simone erano più che espletati, e la prospettiva di un pomeriggio libero gli appariva promettente e rinfrancante. Quando arrivò alla Casa del Capo, Simone non era ancora tornata da Cravenmoore e sua sorella Irene doveva essere in giro con quella specie di fidanzato che si era trovata.

Dopo essersi scolato un paio di bicchieri di latte fresco, uno dietro l'altro, la strana sensazione della casa priva di donne gli sembrò un po' sconcertante. Ci si abituava così tanto a loro che, quando non c'erano, il silenzio diventava vagamente inquietante.

Approfittando del fatto che gli restava ancora qualche ora di luce, Dorian decise di esplorare il bosco di Cravenmoore. In pieno giorno, così come aveva predetto Simone, le figure sinistre non erano altro che alberi, arbusti e sterpaglia. Con questo pensiero in mente, il ragazzo s'incamminò verso il cuore di quel bosco cupo e labirintico che si estendeva tra la Casa del Capo e la dimora di Lazarus Jann.

Vagava da una decina di minuti senza una meta vera e propria, quando notò per la prima volta la scia di impronte che si addentravano nel folto partendo dalla scogliera, e che, inspiegabilmente, sparivano all'ingresso di una radura. Il ragazzo si accovacciò e tastò le impronte, o meglio le orme confuse che marcavano il suolo. Chiunque o qualunque cosa le avesse lasciate, aveva un peso considerevole. Dorian studiò di nuovo l'ultimo tratto delle orme fino al punto in cui scomparivano. Se doveva dare credito agli indizi, chiunque le avesse lasciate aveva smesso di camminare in quel punto ed era evaporato.

Alzò lo sguardo e osservò la rete di luci e ombre che si stendeva tra le chiome degli alberi di Cravenmoore. Uno degli uccelli di Lazarus passò tra i rami.

Il giovane non poté evitare di avvertire un brivido. Non c'era un solo animale vivo in quel bosco?

L'unica presenza tangibile era quella degli esseri meccanici che apparivano e scomparivano tra le ombre, senza che si riuscisse mai a immaginare da dove venivano e dove si dirigevano. I suoi occhi continuarono a esaminare l'intrico del bosco e a un certo punto notarono una profonda fessura in un albero vicino. Dorian si avvicinò al tronco e osservò la tacca. Qualcosa aveva aperto una profonda ferita nel legno. Tagli simili solcavano il tronco fino alla cima. Il ragazzo deglutì e decise di andarsene a gambe levate.

Ismael guidò Irene fino a una piccola roccia piatta che emergeva di un paio di spanne al centro della grotta, dove si stesero a riprendere fiato. La luce che penetrava dall'ingresso si riverberava all'interno, disegnando una curiosa danza di ombre sulla volta e sulle pareti della caverna. Lì l'acqua sembrava più calda che in mare aperto ed emanava una sorta di cortina di vapore.

«La grotta ha altre entrate?» chiese Irene.

«Un'altra, ma è pericolosa. L'unico modo sicuro per entrare e uscire è via mare, dalla laguna.»

La ragazza contemplò lo spettacolo di luce evanescente che rivelava le viscere della grotta. Quel luogo sprigionava un'atmosfera avvolgente e ipnotica.

Per qualche secondo, a Irene parve di trovarsi all'interno del grande salone di un palazzo scolpito nella roccia, in un luogo leggendario che poteva esistere soltanto nei sogni.

«È. . magico» disse.

Ismael annuì.

«A volte vengo qui e passo ore seduto su uno degli scogli, a guardare come la luce cambia colore sott'acqua. È il mio santuario privato. .»


«Lontano dal mondo, vero?»

«Tanto lontano quanto puoi immaginare.»

«Non ti piace molto la gente, eh?»

«Dipende dalla gente» rispose lui con un sorriso sulle labbra.

«È un complimento?»

«Forse.»

Il ragazzo distolse lo sguardo e ispezionò l'entrata della grotta.

«Adesso è meglio che andiamo. La marea non tarderà a salire.»

«E allora?»

«Quando sale, le correnti spingono verso l'interno della grotta e la caverna si riempie d'acqua fino in cima. È una trappola mortale. Puoi fare la fine del topo e morire annegato.»

Di colpo, la magia del luogo si fece minacciosa.

Irene immaginò la grotta riempirsi d'acqua gelata, senza possibilità di scappare.

«Non c'è fretta. .» chiarì Ismael.

Irene, senza pensarci due volte, nuotò fino all'uscita e non smise fino a quando il sole non le sorrise di nuovo. Lui la guardò nuotare di lena e sorrise tra sé. La ragazza aveva fegato.

Trascorsero la traversata di ritorno in silenzio. Le pagine del diario risuonavano nella testa di Irene come un'eco che non voleva spegnersi. Uno spesso banco di nubi aveva coperto il cielo e il sole si era nascosto, conferendo al mare una tonalità plumbea e metallica. Il vento era più freddo e Irene si rimise i vestiti. Stavolta Ismael la guardò appena mentre si rivestiva, segno che il ragazzo era perso nei suoi pensieri, quali che fossero.

Il Kyaneos doppiò il capo a metà pomeriggio e si diresse verso la casa dei Sauvelle, mentre l'isolotto del faro veniva completamente avvolto dalla nebbia. Ismael guidò la barca a vela fino al pontile ed effettuò la manovra di attracco con la solita perizia, per quanto si sarebbe detto che la sua mente fosse a mille chilometri da lì.

Quando arrivò il momento di salutarsi, Irene prese la mano del ragazzo.

«Grazie per avermi portata alla grotta» disse saltando a terra.

«Mi ringrazi sempre e non so perché.. Grazie a te, per essere venuta.»

Irene ardeva dal desiderio di chiedergli quando si sarebbero rivisti, ma ancora una volta l'istinto le consigliò di stare zitta. Ismael liberò la cima di prua e il Kyaneos si allontanò nella corrente.

Mentre guardava la barca allontanarsi, Irene si fermò sulla scalinata di pietra della scogliera. Uno stormo di gabbiani la scortava lungo la rotta fino alle luci della banchina. Più in là, tra le nuvole, la luna disegnava un ponte d'argento sul mare, guidando l'imbarcazione verso il paese.

Irene salì la scalinata di pietra sfoggiando un sorriso che nessuno poteva vedere. Diavolo, quanto le piaceva quel ragazzo. .

Appena entrata in casa, Irene si accorse che qualcosa non andava. Tutto era troppo ordinato, troppo tranquillo, troppo silenzioso. Le luci del salotto al pianoterra irroravano la penombra azzurrata di quel pomeriggio nuvoloso. Dorian, seduto su una delle poltrone, osservava in silenzio le fiamme del camino.

Simone, di spalle alla porta, guardava il mare dalla finestra della cucina, con una tazza di caffè freddo tra le mani. L'unico rumore era il mormorio del vento che accarezzava le banderuole del tetto.

Dorian e la sorella si scambiarono uno sguardo.

Irene si avvicinò alla madre e le posò una mano sulla spalla. Simone Sauvelle si voltò. C'erano lacrime nei suoi occhi.

«Cosa è successo, mamma?»

La madre l'abbracciò. Irene strinse le mani di Simone nelle sue. Erano fredde. Tremavano.

«Hannah» mormorò Simone.

Un lungo silenzio. Il vento graffiò le imposte della Casa del Capo.

«È morta» aggiunse.

Lentamente, come un castello di carte, il mondo intorno a Irene crollò.

7. Un sentiero di ombre

La strada che correva accanto alla Spiaggia dell'Inglese rifletteva i colori del crepuscolo e srotolava una serpentina scarlatta fino al paese. Irene, pedalando sulla bicicletta del fratello, guardò indietro, verso la Casa del Capo. Le parole di Simone, e l'orrore che aveva negli occhi vedendo la figlia abbandonare precipitosamente la casa al tramonto, pesavano ancora su di lei, ma l'immagine di Ismael che navigava verso la notizia della morte di Hannah era più forte di qualsiasi rimorso.

Simone le aveva riferito che, alcune ore prima, due escursionisti avevano trovato il corpo di Hannah nei pressi del bosco. Da quel momento la notizia aveva suscitato la desolazione, il pettegolezzo e il dolore tra quanti avevano avuto la fortuna di conoscere quella loquace ragazza. Si sapeva che sua madre, Elisabet, era stata colta da una crisi di nervi nell'apprendere l'accaduto e che era sotto gli effetti dei sedativi somministrati dal dottor Giraud. Ma poco di più.

Le voci su una vecchia catena di delitti che anni prima avevano turbato la vita del paese erano tornate a galla. C'era chi voleva vedere in quella disgrazia un nuovo capitolo della macabra saga di assassini irrisolti che si erano verificati nel bosco di Cravenmoore negli anni Venti.

Altri preferivano aspettare di conoscere maggiori dettagli sulle circostanze che avevano portato alla tragedia. La tempesta di dicerie, tuttavia, non gettava alcuna luce sulla possibile causa del decesso. Da diverse ore i due escursionisti che si erano imbattuti nel corpo stavano rilasciando dichiarazioni alla gendarmeria, e si diceva che stessero per arrivare due esperti medici legali da La Rochelle. A partire da lì, la morte di Hannah era un mistero.

Affrettandosi più che poteva, Irene arrivò in paese quando il disco del sole si era già inabissato completamente all'orizzonte. Le strade erano deserte e le poche sagome che le percorrevano lo facevano in silenzio, come ombre senza padrone. La ragazza lasciò la bicicletta accanto a un vecchio lampione che illuminava l'imbocco del vicolo dove si trovava la casa degli zii di Ismael. Era una costruzione semplice e senza pretese, una casa di pescatori vicina alla baia. L'ultima mano di pittura risaliva a decenni prima, e la calda luce di due lampade a petrolio rivelava i tratti di una facciata erosa dal vento del mare e dal salmastro.

Irene, con lo stomaco rattrappito, si avvicinò alla soglia della casa, timorosa di suonare alla porta. Con quale diritto osava turbare il dolore della famiglia in un momento del genere? A cosa stava pensando?

All'improvviso si fermò, incapace di andare avanti e di tornare indietro, arenata tra il dubbio e la necessità di vedere Ismael, di stargli accanto in un momento come quello. Proprio allora la porta della casa si aprì e la figura paffuta e severa del dottor Giraud, il medico locale, percorse la strada. I suoi occhi brillanti e schermati dalle lenti avvertirono la presenza di Irene nella penombra.

«Tu sei la figlia di madame Sauvelle, non è vero?»

Lei annuì.

«Se sei venuta per Ismael, non è in casa» spiegò Giraud. «Quando ha saputo di sua cugina ha preso la barca e se n'è andato.»

Il medico si accorse che il volto della ragazza stava sbiancando.

«È un buon marinaio. Tornerà.»

Irene camminò fino alla punta del molo. La sagoma solitaria del Kyaneos si stagliava nella bruma, illuminata dalla luna. La ragazza si sedette sul cornicione dell'argine e guardò la barca a vela di Ismael che faceva rotta verso l'isolotto del faro. Adesso, niente e nessuno potevano sottrarlo alla solitudine che si era scelto. Irene provò il desiderio di prendere una barca e inseguirlo fino ai confini del suo mondo segreto, però sapeva che qualsiasi sforzo ormai era inutile.

Avvertendo che il vero impatto della notizia cominciava a farsi strada nella sua mente, Irene sentì i suoi occhi riempirsi di lacrime. Quando il Kyaneos divenne invisibile nell'oscurità, inforcò di nuovo la bicicletta e riprese il cammino verso casa.

Mentre percorreva la strada della spiaggia poteva immaginare Ismael seduto in silenzio nella torre del faro, solo con se stesso. Ricordò le innumerevoli occasioni in cui lei stessa aveva intrapreso quel viaggio dentro di sé, e si ripromise che, qualunque cosa fosse accaduta, non avrebbe lasciato che il ragazzo si perdesse in quel sentiero di ombre.

Quella sera la cena fu breve. Un rituale di silenzi e sguardi smarriti fece da anfitrione, mentre Simone e i due figli fingevano di mangiare qualcosa prima di ritirarsi nelle rispettive stanze. Alle undici, neppure un'anima attraversava ormai i corridoi, soltanto una luce restava accesa in tutta la casa: la lampada da notte di Dorian.

Una fredda brezza penetrava dalla finestra aperta della sua stanza. Dorian, steso a letto, ascoltava le voci spettrali del bosco con lo sguardo perso nelle tenebre. Poco prima di mezzanotte spense la luce e andò alla finestra. Un nero mare di foglie si agitava al vento. Il ragazzo fissò il mulinello di ombre che danzava nella vegetazione. Poteva sentire quella presenza aggirarsi furtivamente nell'oscurità.

Oltre il bosco si distingueva la sagoma sinuosa di Cravenmoore e un rettangolo illuminato nell'ultima finestra dell'ala nord. Improvvisamente, dalla foresta si diffuse un alone tremolante e dorato. Luci nel bosco. Le luci di una lanterna o di una torcia nella macchia. Dorian deglutì. Brevi scintillii apparivano e scomparivano, disegnando cerchi all'interno della vegetazione.

Un minuto dopo, avvolto in un pesante maglione e con i suoi stivali di cuoio, Dorian se la svignò giù per le scale, in punta di piedi, e con infinita delicatezza aprì la porta della veranda. La notte era fredda e il mare ruggiva nell'oscurità, sotto le rocce. I suoi occhi seguirono la traccia disegnata dalla luna, un nastro argentato che serpeggiava verso l'interno della foresta. Un solletico allo stomaco gli ricordò la calda sicurezza della sua stanza. Dorian sospirò.

Le luci perforavano la nebbia, come spilli bianchi al limitare del bosco. Il ragazzo mise un piede davanti all'altro e andò avanti così. Prima che se ne rendesse conto, le ombre lo circondarono e la Casa del Capo, alle sue spalle, gli sembrò lontana, infinitamente lontana.

Né l'oscurità, né tutto il silenzio del mondo quella notte potevano conciliare il sonno di Irene. Alla fine, intorno a mezzanotte, rinunciò a dormire e accese la luce sul comodino. Il diario di Alma Maltisse se ne stava accanto al piccolo medaglione che suo padre le aveva regalato anni prima, l'effigie di un angelo intagliata nell'argento. Irene prese il diario e lo aprì di nuovo alla prima pagina.

La calligrafia appuntita e ondeggiante le diede il benvenuto. Il foglio, impregnato di uno spento color ocra, sembrava un campo di segale agitato dal vento. Lentamente, mentre i suoi occhi accarezzavano una riga dopo l'altra, Irene intraprese un'altra volta il suo viaggio nella memoria segreta di Alma Maltisse.

Non appena girò la prima pagina, il sortilegio delle parole la portò lontano. Non sentiva il rumore delle onde né il vento nel bosco. La sua mente era in un altro mondo. .

. . Stanotte li ho sentiti litigare in biblioteca. Lui urlava e la supplicava di lasciarlo in pace, di abbandonare la casa per sempre. Le ha detto che non aveva alcun diritto di fare ciò che stava facendo con le nostre vite. Non dimenticherò mai il suono di quella risata, un ululato animale di rabbia e odio deflagrato dietro le pareti. Lo schianto di migliaia di libri spazzati via dagli scaffali si è sentito in tutta la casa. La sua ira è ogni giorno più grande. Dal momento in cui ho liberato quella belva dal suo confino, è andata prendendo continuamente forza.

Tutte le notti lui fa la guardia ai piedi del mio letto. So che teme che, se mi lascia sola un istante, l'ombra verrà a prendermi. Da giorni non mi dice quali pensieri gli affol ano la mente, ma non ce n'è bisogno. Non dorme da settimane.

Ogni notte è un'attesa terribile e interminabile.

Dispone per tutta la casa centinaia di candele, cercando di diffondere luce in qualsiasi angolo per evitare che il buio faccia da riparo al 'ombra. Il suo volto è invecchiato di dieci anni in un solo mese.

A volte credo che sia tutta colpa mia, che se sparissi la sua maledizione si dileguerebbe insieme a me. Forse è questo che devo fare, al ontanarmi da lui e andare al mio inevitabile appuntamento con l'ombra. Solo così avremo pace. L'unica cosa che m'impedisce di compiere questo passo è che non tol ero l'idea di lasciarlo. Senza di lui, nul a ha senso. Né la vita, né la morte..

Irene alzò lo sguardo dal diario. Il labirinto di dubbi di Alma Maltisse le appariva sconcertante e, al tempo stesso, vicino in modo inquietante. Il confine tra la colpa e il desiderio di vivere sembrava affilato, come un coltello avvelenato. Irene spense la luce. L'immagine non svaniva dalla sua mente. Un coltello avvelenato.

Dorian si addentrò nel bosco seguendo la traccia delle luci che vedeva brillare nella vegetazione, riflessi che potevano provenire da qualunque luogo della foresta. Le foglie umide per la brina si trasformavano in un indecifrabile ventaglio di miraggi. Il rumore dei suoi passi adesso era diventato un'angosciosa protesta verso se stesso. Alla fine inspirò a fondo e si ricordò la sua intenzione: non se ne sarebbe andato senza sapere cosa si nascondeva nel bosco. Questo era tutto e non c'era altro.

Il ragazzo si fermò all'ingresso della radura dove il giorno prima aveva trovato le impronte. Le tracce adesso erano confuse e appena riconoscibili. Si avvicinò al tronco lacerato e sfiorò le tacche. L'idea di una creatura che si arrampicava velocissima tra gli alberi, come un felino uscito dall'inferno, si fece largo nella sua immaginazione. Due secondi dopo, il primo scricchiolio alle sue spalle lo avvertì dell'avvicinarsi di qualcuno. O di qualcosa.

Dorian si nascose nella vegetazione. Le punte affilate degli arbusti lo graffiavano come spilli.

Trattenne il respiro e pregò che chiunque lo stesse cercando non sentisse il martellare del suo cuore come lo sentiva lui in quel momento. Dopo un po', le luci tremolanti che aveva visto da lontano si aprirono un varco tra gli spiragli del sottobosco, trasformando la nebbiolina fluttuante in un refolo rossastro.

Si sentirono dei passi dall'altra parte degli alberi. Il ragazzo chiuse gli occhi, immobile come una statua. I passi si fermarono. Dorian sentì che gli mancava l'ossigeno, ma, per quanto lo riguardava, poteva trascorrere i successivi dieci anni senza respirare. Alla fine, quando credeva che i suoi polmoni stessero per scoppiare, due mani scostarono i rami degli arbusti che lo nascondevano. Le sue ginocchia si fecero di gelatina La luce di una lanterna lo accecò. Dopo un tempo che al ragazzo sembrò eterno, lo sconosciuto appoggiò a terra la lanterna e si accovacciò davanti a lui. Un viso vagamente familiare gli brillava accanto, ma il panico gli impediva di riconoscerlo. Lo sconosciuto sorrise

«Vediamo. Si può sapere che cosa ci fai qui?» disse la voce, serena e amabile.

A un certo punto, Dorian capì di avere di fronte semplicemente Lazarus. Soltanto allora respirò.

Dovette passare un buon quarto d'ora prima che il tremore abbandonasse le sue mani. Fu allora che Lazarus vi depositò una tazza di cioccolata calda e si sedette davanti a lui. L'uomo lo aveva accompagnato sotto la tettoia accanto alla fabbrica di giocattoli. Una volta lì, aveva preparato senza fretta la bevanda.

Mentre entrambi bevevano rumorosamente e si osservavano da sopra la tazza, Lazarus scoppiò a ridere «Mi hai fatto prendere uno spavento da morire figlio mio» gli assicurò.

«Se può esserle di consolazione, non è stato niente in confronto a quello che lei ha fatto prendere a me» aggiunse Dorian, sentendo la cioccolata calda che gli irradiava nello stomaco una gradevole sensazione di calma.

«Su questo non ho dubbi» rise Lazarus. «Ora mi dici che ci facevi lì fuori?»

«Ho visto delle luci.»

«Hai visto la mia lanterna. Per questo sei uscito? A mezzanotte? Per caso ti sei dimenticato di quello che è successo a Hannah?»

Dorian deglutì, anche se la saliva gli sembrò una pallottola di piombo di grosso calibro.

«No, signore.»

«Bene. Quindi, non lo dimenticare. È pericoloso andarsene a spasso nel buio. Da diversi giorni ho l'impressione che qualcuno si aggiri per il bosco.»

«Anche lei ha visto le impronte?»

«Quali impronte?»

Dorian gli raccontò i suoi timori e le sue inquietudini rispetto a quella strana presenza che intuiva nel bosco. Inizialmente credeva di non esserne capace, ma Lazarus ispirava la tranquillità e la confidenza necessarie a sciogliergli la lingua.

Mentre il ragazzo sgranava il suo racconto, Lazarus lo ascoltava con attenzione, però senza nascondere una certa incredulità e perfino qualche sorriso per i dettagli più fantasiosi della storia.

«Un'ombra?» chiese all'improvviso con semplicità.

«Lei non crede neppure a una parola di quello che le ho detto» osservò Dorian.

«No, no. Ti credo. O cerco di crederti. Capisci che quello che mi dici è un tantino. . particolare» disse Lazarus.

«Però anche lei ha visto qualcosa. Per questo era nel bosco. Non è così?»

Lazarus sorrise.

«Sì. Anche a me è sembrato di vedere qualcosa, però non potrei raccontare tanti dettagli come te.»

Dorian terminò la sua cioccolata.

«Ancora?» propose Lazarus.

Il ragazzo annuì. La compagnia dell'inventore di giocattoli era piacevole. L'idea di condividere una tazza di cioccolata con lui, di notte, gli sembrava un'esperienza educativa ed eccitante.

Gettando un'occhiata al laboratorio in cui si trovavano, Dorian notò, su uno dei tavoli da lavoro, una sagoma imponente stesa sotto un panno che la copriva.

«Sta lavorando a qualcosa di nuovo?»


Lazarus fece cenno di sì.

«Vuoi che te lo mostri?»

Gli occhi di Dorian si spalancarono. Non era necessaria una risposta.

«Be', devi considerare che non è finito. .» disse l'uomo, avvicinandosi al panno e illuminandolo con una lanterna.

«È un automa?» chiese il ragazzino.

«A suo modo, sì. In realtà è un pezzo un po' stravagante, credo. L'idea mi è frullata in testa per anni.

In effetti, è stato un ragazzo più o meno della tua età a suggerirmela molto tempo fa.»

«Un suo amico?»

Lazarus sorrise, nostalgico.

«Pronto?» chiese.

Dorian annuì energicamente con la testa. Lazarus sollevò il panno che copriva l'oggetto. . e il ragazzo, sbigottito, fece un passo indietro.

«È solo una macchina, Dorian. Non devi spaventarti. .»

Dorian osservò quella sagoma imponente. Lazarus aveva forgiato un angelo di metallo, un colosso alto quasi due metri e dotato di due grandi ali. Il volto di acciaio cesellato riluceva sotto un cappuccio.

Le mani enormi erano in grado di stringere la sua testa in un pugno.

Lazarus toccò qualche congegno alla base della nuca dell'angelo e la creatura meccanica aprì gli occhi, due rubini accesi come carboni ardenti. Lo stavano guardando. Lui. Dorian sentì le budella contorcersi.

«Per favore, lo fermi. .» supplicò.

Lazarus si accorse dello sguardo terrorizzato del ragazzo e si affrettò a ricoprire l'automa.

Dorian sospirò di sollievo nel non vedere più quell'angelo demoniaco.

«Mi dispiace» disse Lazarus. «Non avrei dovuto mostrartelo. È soltanto una macchina, Dorian.

Metallo. Non farti spaventare dalle apparenze. È solo un giocattolo.»

Il ragazzo annuì senza alcuna convinzione.

Lazarus si affrettò a offrirgli un'altra tazza colma di cioccolata fumante. Dorian sorbì rumorosamente il liquido denso e confortante sotto lo sguardo attento dell'inventore di giocattoli. Quando ne ebbe bevuto la metà, osservò Lazarus e si scambiarono un sorriso.

«Un bello spavento, eh?» chiese l'uomo.

Il ragazzino rise nervosamente.

«Penserà che sono un fifone.»

«Al contrario. Pochi si azzarderebbero a uscire per indagare nel bosco dopo quello che è successo a Hannah.»

«Lei cosa crede le sia successo?»

Lazarus si strinse nelle spalle.

«È difficile a dirsi. Suppongo che dovremo aspettare che la polizia finisca le indagini.»

«Sì, però. .»

«Però. .?»

«E se ci fosse davvero qualcosa nel bosco?» insisté Dorian.

«L'ombra?»

Dorian annuì gravemente.

«Hai mai sentito parlare del Doppelgänger?» chiese Lazarus.

Il ragazzo negò. L'inventore di giocattoli lo osservò di sottecchi.

«È una parola tedesca» spiegò. «Si usa per descrivere l'ombra di una persona che, per qualche motivo, si è separata dal suo proprietario. Vuoi sentire una strana storia al riguardo?»

«Sì, per favore. .»

Lazarus si accomodò su una sedia di fronte al ragazzo e tirò fuori un lungo sigaro. Dorian aveva imparato al cinema che quella specie di siluro corrispondeva al nome di habano e che, a parte costare una fortuna, sprigionava un odore acre e penetrante In realtà, dopo Greta Garbo, Groucho Marx era l'eroe delle sue matinée domenicali. La gente comune si limitava ad annusare il fumo di seconda mano.

Lazarus esaminò il sigaro e lo rimise a posto, intatto, pronto a iniziare il suo racconto.

«Be', la storia me l'ha raccontata un collega, ormai molto tempo fa. L'anno è il 1915. Il luogo, la città di Berlino. . Di tutti gli orologiai di Berlino, nessuno era tanto geloso del proprio lavoro e tanto perfezionista nei propri metodi come Hermann Blòcklin. In realtà, la sua ossessione per arrivare a creare i meccanismi più precisi lo aveva portato a elaborare una teoria sulla relazione fra il tempo e la velocità alla quale la luce si sposta nell'universo. Blòcklin viveva circondato da orologi in un piccolo alloggio nel retrobottega del suo negozio, in Henrichstrasse. Era un uomo solitario. Non aveva famiglia.

Non aveva amici. La sua unica compagnia era un vecchio gatto, Salman, che passava le ore in silenzio accanto a lui, mentre Blòcklin dedicava giorni interi alla sua scienza, nel suo laboratorio. Con il passare degli anni, il suo interesse si trasformò in un'ossessione. Non era raro che chiudesse il negozio al pubblico per giorni interi. Giorni di ventiquattro ore senza riposo, che dedicava a lavorare al suo agognato progetto: l'orologio perfetto, la macchina universale di misurazione del tempo.

«Uno di quei giorni, quando una tormenta di freddo e neve sferzava Berlino da due settimane, l'orologiaio ricevette la visita di uno strano cliente, un distinto gentiluomo chiamato Andreas Corelli.

Corelli indossava un elegante abito di un bianco rilucente, e i suoi capelli, lunghi e lucidi, erano argentati. Gli occhi erano nascosti da lenti nere. Blòcklin gli annunciò che il negozio era chiuso al pubblico, ma Corelli insisté, dicendo di essere venuto da molto lontano solo per fargli visita. Gli spiegò che era al corrente dei suoi risultati tecnici e glieli descrisse anche nei dettagli, la qual cosa intrigò enormemente l'orologiaio, convinto che le sue scoperte, almeno fino a quel momento, fossero un mistero per il mondo.

«La richiesta di Corelli non fu meno strana. Blòcklin doveva realizzare un orologio per lui, ma speciale. Le lancette dovevano girare in senso inverso. La ragione di quell'incarico era che Corelli soffriva di una malattia che avrebbe spento la sua vita in pochi mesi. Per quel motivo, desiderava avere un orologio che contasse le ore, i minuti e i secondi che gli restavano da vivere.

«Una richiesta tanto stravagante era accompagnata da una più che generosa offerta economica.

Inoltre, Corelli gli garantiva fondi per finanziare a vita tutte le sue ricerche. In cambio, avrebbe dovuto soltanto dedicare alcune settimane alla creazione di quel congegno.

«Inutile dire che Blòcklin accettò il patto. Trascorsero due settimane di intenso lavoro nel suo laboratorio. Era immerso nel compito quando, alcuni giorni dopo, Andreas Corelli tornò a bussare alla sua porta. L'orologio era ormai pronto. Corelli, sorridente, lo esaminò, e dopo aver elogiato il lavoro disse che la ricompensa risultava più che meritata. Blòcklin, esausto, confessò di averci messo l'anima.

Corelli annuì. Poi diede la corda all'orologio e attese che il meccanismo cominciasse a girare. Lasciò a Blòcklin un sacco di monete d'oro e si accomiatò.

«Contando le monete, l'orologiaio era fuori di sé per la gioia e la cupidigia, quando intercettò la propria immagine allo specchio. Si vide più vecchio, dimagrito. Aveva lavorato troppo. Deciso a prendersi qualche giorno libero, se ne andò a riposare.

«Il giorno dopo un sole abbagliante penetrò dalla finestra. Blòcklin, ancora stanco, andò a lavarsi la faccia e vide di nuovo il proprio riflesso. Stavolta, però, fu pervaso da un brivido. La notte prima, quando si era coricato, la sua faccia era quella di un uomo di quarantun anni, stanco ed esaurito, ma ancora giovane. Ora aveva di fronte a sé l'immagine di un uomo vicino ai sessanta. Atterrito, uscì per andare al parco a prendere un po' d'aria. Tornando in negozio, esaminò ancora la propria immagine. Un anziano lo guardava dallo specchio. In preda al panico, uscì in strada e s'imbatté in un vicino che gli chiese se aveva visto l'orologiaio Blòcklin. Hermann, isterico, cominciò a correre.

«Passò quella notte in una bettola puzzolente, in compagnia di criminali e individui dalla dubbia reputazione. Qualunque cosa piuttosto che restare solo. Sentiva la pelle raggrinzirsi di minuto in minuto. Le ossa gli sembravano friabili. La respirazione difficoltosa.

«Stava per scoccare la mezzanotte, quando uno sconosciuto gli chiese se poteva sedersi accanto a lui.

Blòcklin lo guardò. Era un giovane di bell'aspetto, di non più di una ventina d'anni. Il suo volto gli risultava estraneo, a parte le lenti nere che gli coprivano gli occhi. Blòcklin sentì una stretta al cuore.

Corelli.

«Andreas Corelli si sedette di fronte a lui e tirò fuori l'orologio costruito da Blòcklin qualche giorno prima. L'orologiaio, disperato, gli chiese da quale strano fenomeno era stato colpito. Perché invecchiava a vista d'occhio? Corelli gli mostrò l'orologio. Le lancette giravano lentamente in senso inverso. Poi gli ricordò le sue parole: aveva detto di avere messo l'anima in quel lavoro. Per questo motivo, ogni minuto che passava, il suo corpo e la sua anima invecchiavano progressivamente.

«Blòcklin, accecato dal terrore, lo supplicò di aiutarlo. Gli disse che era disposto a fare qualunque cosa, a rinunciare a ciò che fosse necessario pur di recuperare la giovinezza e la propria anima. Corelli gli sorrise e gli chiese se ne fosse sicuro. L'orologiaio lo ribadì: qualsiasi cosa.

«Allora Corelli disse che era disposto a restituirgli l'orologio, e l'anima, in cambio di qualcosa che, di fatto, per Blòcklin non era di alcuna utilità: la sua ombra. L'orologiaio, sconcertato, gli domandò se fosse davvero solo quello il prezzo da pagare, un'ombra. Corelli annuì e l'altro accettò il patto.

«Lo strano cliente estrasse una boccetta di vetro, svitò il tappo e la mise sul tavolo. In un attimo, Blòcklin vide la sua ombra introdursi nella boccetta, come un mulinello di gas. Corelli chiuse il flacone e, congedandosi dall'orologiaio, uscì nella notte. Appena fu sparito dalla porta della taverna, l'orologio che aveva nelle mani invertì il senso in cui giravano le lancette.

«Quando Blòcklin arrivò a casa, all'alba, la sua faccia era di nuovo quella di un uomo giovane.

L'orologiaio sospirò di sollievo. Ma lo aspettava ancora una sorpresa. Salman, il suo gatto, non era da nessuna parte. Lo cercò in tutto l'appartamento e, quando alla fine lo trovò, fu sconvolto dall'orrore. La bestia era appesa per il collo al filo elettrico di una lampada del laboratorio. Il tavolo da lavoro era gambe all'aria e gli attrezzi sparsi nella stanza. Si sarebbe detto che fosse passato un tornado. Era tutto sconquassato. Ma c'era dell'altro: scritte sulle pareti. Qualcuno aveva tracciato malamente sui muri una parola incomprensibile: NILKCOLB

«L'orologiaio esaminò quel tratto osceno e impiegò più di un minuto a capirne il significato. Era il suo nome, invertito. Nilkcolb. Blòcklin. Una voce sussurrò alle sue spalle e, quando si voltò, si vide di fronte un oscuro riflesso di se stesso, un sortilegio diabolico del suo stesso volto.

«A quel punto capì. Era la sua ombra che l'osservava. La sua stessa ombra, in atteggiamento di sfida.

Cercò di afferrarla, ma l'ombra rise come una iena e si diffuse lungo i muri. Blòcklin, rabbrividendo, la vide allora afferrare un lungo coltello e fuggire dalla porta, perdendosi nella penombra.

«Il primo delitto della Henrichstrasse ebbe luogo quella stessa notte. Diversi testimoni dichiararono di aver visto l'orologiaio accoltellare a sangue freddo quel soldato che passava all'alba dal vicolo. La polizia fermò Blòcklin e lo sottopose a un lungo interrogatorio. La sera seguente, mentre era chiuso in cella, ci furono altri due morti. La gente iniziò a parlare di un misterioso assassino che agiva tra le ombre della notte di Berlino. Blòcklin cercò di spiegare alle autorità quello che stava accadendo, ma nessuno volle ascoltarlo. I giornali speculavano sul mistero di un assassino che riusciva, notte dopo notte, a scappare da una cella di massima sicurezza per perpetrare i crimini più spaventosi che la città ricordasse.

«Il terrore dell'ombra di Berlino durò esattamente venticinque giorni. La conclusione di quello strano caso giunse in modo inaspettato e inspiegabile, come il suo inizio. Nella notte di quel 12 gennaio 1916, l'ombra di Hermann Blòcklin s'introdusse nella tetra prigione della polizia segreta. Una sentinella che montava di guardia davanti alla cella giurò di aver visto Blòcklin lottare con un'ombra e che, a un certo punto della colluttazione, l'orologiaio l'aveva pugnalata. All'alba, il cambio della guardia trovò Blòcklin morto nella sua cella, con una ferita al cuore.

«Dieci giorni più tardi, uno sconosciuto chiamato Andreas Corelli si offrì di pagare le spese della sepoltura di Blòcklin nella fossa comune del cimitero di Berlino. Nessuno, tranne il becchino e uno strano individuo che portava degli occhiali scuri, assistette alla cerimonia.

«Il caso degli assassini della Henrichstrasse resta aperto e irrisolto negli archivi della polizia di Berlino. .»

«Accidenti. .» sussurrò Dorian alla fine del racconto di Lazarus. «Ed è successo davvero?»

L'inventore di giocattoli sorrise.

«No, però sapevo che la storia ti sarebbe piaciuta.»

Dorian affondò gli occhi nella tazza. Capì che Lazarus aveva architettato quella storia soltanto per distrarlo dallo spavento causato dall'angelo meccanico. Un buon trucco, ma in fin dei conti pur sempre un trucco. Lazarus gli diede sportivamente una pacca sulla spalla.

«Mi sembra che si sia fatto un po' tardi per giocare ai detective» osservò. «Andiamo, ti accompagno a casa.»

«Mi promette che non dirà niente a mia madre?» supplicò Dorian.

«Se mi prometti che non andrai più a spasso per il bosco solo e di notte; almeno fino a quando non si chiarirà cosa è successo a Hannah. .»

I due si guardarono.

«D'accordo» convenne il ragazzo.


Lazarus gli strinse la mano come un brav'uomo d'affari. Poi, con un sorriso enigmatico, l'inventore di giocattoli si avvicinò a un armadio, tirò fuori una cassetta di legno e la diede a Dorian.

«Cos'è?» chiese il ragazzo, incuriosito.

«Mistero. Aprila.»

Dorian si mise all'opera. La luce delle lanterne rivelò una statuetta d'argento grande come la sua mano.

Dorian la guardò a bocca aperta. Lazarus sorrise.

«Lascia che ti mostri come funziona.»

L'uomo prese l'oggetto e lo depositò sul tavolo.

A una semplice pressione delle dita, la statuetta si distese e rivelò la sua natura. Un angelo. Identico a quello che il ragazzo aveva visto, ma in scala.

«Con queste dimensioni non può spaventarti, eh?»

Dorian annuì, entusiasta.

«Allora, questo sarà il tuo angelo custode. Per proteggerti dalle ombre. .»

Lazarus scortò Dorian attraverso il bosco fino alla Casa del Capo, mentre gli spiegava segreti e tecniche della costruzione degli automi e di meccanismi la cui complessità e il cui ingegno gli sembravano fratelli della magia. Lazarus pareva sapere tutto e possedere le risposte alle domande più elaborate e astruse.

Non c'era modo di prenderlo in castagna. Arrivati alla fine del bosco, Dorian era affascinato e orgoglioso del suo nuovo amico.

«Ricorda il nostro patto, intesi?» sussurrò Lazarus. «Mai più escursioni notturne.»

Dorian scosse la testa e si diresse verso casa.

L'inventore di giocattoli aspettò fuori e non se ne andò finché il ragazzo non fu arrivato nella sua stanza e lo ebbe salutato dalla finestra. Lazarus ricambiò il saluto e si infilò di nuovo nelle ombre del bosco.

Sdraiato sul letto, Dorian aveva ancora il sorriso appiccicato in faccia. Tutte le sue preoccupazioni e le sue angosce sembravano evaporate. Rilassato, aprì la cassetta e prese l'angelo meccanico che gli aveva regalato Lazarus. Era un pezzo perfetto, di una bellezza sovrannaturale. La complessità del meccanismo portava con sé gli echi di una scienza misteriosa e affascinante. Dorian lo lasciò a terra, ai piedi del letto, e spense la luce. Lazarus era un genio. Ecco la parola giusta. Dorian l'aveva sentita centinaia di volte, e si era sempre sorpreso che venisse usata tanto, mentre in realtà non si addiceva in alcun modo a coloro ai quali era riferita. Alla fine, però, aveva conosciuto un vero genio. Ed era suo amico.

L'entusiasmo cedette il passo a un sonno irresistibile. Dorian si arrese alla fatica e lasciò che la mente lo conducesse verso un'avventura in cui lui, erede della scienza di Lazarus, inventava una macchina che catturava le ombre e liberava il mondo da una sinistra organizzazione malefica.

Dormiva già quando, senza alcun preavviso, la statuetta iniziò lentamente a dispiegare le ali. L'angelo meccanico inclinò la testa di lato e sollevò un braccio. I suoi occhi neri, due lacrime di ossidiana, brillavano nella penombra.

8. Incognito

Passarono tre giorni senza che Irene avesse notizie di Ismael. In paese non c'era traccia del ragazzo, e la sua barca a vela non era al molo. Un fronte temporalesco spazzava le coste della Normandia, stendendo sulla baia un manto di cenere che si sarebbe prolungato per quasi una settimana.

Le strade del paese sembravano addormentate sotto una tenue pioggerella la mattina in cui Hannah fece il suo ultimo viaggio verso il piccolo cimitero in cima alla collina che si ergeva a nordest di Baia Azzurra. La processione arrivò fino all'ingresso, poi, per espresso desiderio della famiglia, la cerimonia funebre venne celebrata nella più stretta intimità, mentre i compaesani tornavano alle proprie case sotto la pioggia, in silenzio, all'ombra del ricordo della ragazza.

Lazarus si offrì di accompagnare Simone e i figli alla Casa del Capo, mentre l'adunata si disperdeva come un banco di nebbia all'alba. Fu allora che Irene avvistò la sagoma solitaria di Ismael che contemplava il mare plumbeo dalla cima della roccia che coronava le scogliere intorno al cimitero. Bastò uno sguardo tra lei e sua madre perché Simone facesse un cenno di assenso e la lasciasse andare. Poco dopo, l'auto di Lazarus si allontanava lungo la strada dell'eremo di Saint-Roland e Irene saliva per il sentiero che portava alle scogliere.

All'orizzonte, sul mare, si distingueva il bagliore di una tempesta elettrica che accendeva tra le nuvole manti di luce, simili a carri armati di metallo incandescente. La ragazza trovò Ismael su uno scoglio, lo sguardo perso nell'oceano. In lontananza, il capo e l'isolotto del faro si smarrivano nella nebbia Mentre tornavano in paese, senza preavviso, Ismael rivelò a Irene dov'era stato negli ultimi tre giorni.

Iniziò il suo racconto dal momento in cui aveva ricevuto la notizia.

Era partito con il Kyaneos diretto all'isolotto del faro, cercando di sfuggire a un sentimento da cui non era possibile fuggire. Le ore successive, fino all'alba, gli avevano permesso di schiarirsi la mente e di concentrare l'attenzione su una nuova luce alla fine del tunnel: smascherare il responsabile di quella disgrazia e fargliela pagare. Il desiderio di vendetta sembrava l'unico antidoto in grado di mitigare il dolore.

Le spiegazioni della gendarmeria non lo convincevano affatto. La segretezza con la quale le autorità avevano condotto il caso gli sembrava, quanto meno, sospetta. A un certo punto, prima dell'alba del giorno successivo, Ismael aveva deciso di iniziare le sue indagini. A qualunque prezzo. Da quel momento non esistevano regole. Quella stessa notte Ismael si era intrufolato nell'improvvisato laboratorio di medicina legale del dottor Giraud. Con l'aiuto della propria audacia e di un paio di tenaglie aveva spezzato gli anelli delle catene e tutto ciò che gli impediva di entrare.

Irene ascoltò, fra la paura e l'incredulità, come Ismael si fosse introdotto in quel luogo funereo, aspettando che Giraud se ne andasse, e come, tra la nebbia della formalina e una penombra spettrale, avesse allora cercato con attenzione nell'archivio del dottore la cartellina riguardante Hannah.

Dove avesse trovato il sangue freddo per una simile impresa era tutto da vedere, ma evidentemente non gliel'aveva fornito la coppia di cadaveri ricoperti da lenzuola che aveva trovato. Appartenevano a due sommozzatori che la sera prima avevano avuto la sfortuna di immergersi in una corrente sottomarina nello stretto di La Rochelle, nel tentativo di recuperare il carico di un veliero incagliato sugli scogli.

Irene, pallida come una bambola di porcellana, ascoltò il macabro racconto dall'inizio alla fine, compreso l'episodio in cui Ismael era inciampato in uno dei tavoli operatori. Una volta che il racconto del ragazzo tornò all'aria aperta, la giovane sospirò. Ismael si era portato la cartellina in barca e aveva passato due ore a cercare di farsi strada nella selva di paroloni medici del dottor Giraud.

Irene deglutì.

«Allora, come è morta?» mormorò.

Ismael la guardò dritto negli occhi. Vi trovò uno strano luccichio.

«Non sanno come. Ma sanno perché. Stando alla cartella clinica, la motivazione ufficiale è arresto cardiaco» spiegò. «Però, nella sua analisi finale, Giraud ha annotato che, secondo la sua opinione, Hannah aveva visto qualcosa nel bosco che le aveva provocato un attacco di panico.»

Panico. La parola si perse nell'eco della sua mente. La sua amica Hannah era morta di paura, e qualunque cosa avesse provocato quel terrore era ancora nel bosco.

«È successo di domenica, vero?» disse Irene. «Quel giorno deve essere accaduto qualcosa. .»

Ismael annuì lentamente. Era ovvio che aveva pensato la stessa cosa molto prima di lei.

«O la notte precedente» suggerì Ismael.

Irene lo guardò stranita.

«Quella notte Hannah era a Cravenmoore. Il giorno dopo di lei non c'era più traccia. Almeno fino a quando non l'hanno trovata morta nel bosco» disse il ragazzo.

«Cosa vuoi dire?»

«Sono stato nel bosco. Ci sono impronte. Rami spezzati. C'è stata una lotta. Qualcuno ha seguito Hannah dalla casa.»

«Da Cravenmoore?»

Ismael annuì di nuovo.

«Dobbiamo sapere cosa è successo il giorno prima della sua scomparsa. Magari questo può spiegare chi o cosa l'ha inseguita nel bosco.»

«E come possiamo farlo? Voglio dire che la polizia. .» disse Irene.

«Mi viene in mente un solo modo.»

«Cravenmoore» mormorò lei.


«Esattamente. Stanotte. .»

Il tramonto apriva squarci ramati nel manto di nubi temporalesche in transito dall'orizzonte. Via via che le ombre si estendevano sulla baia, la notte lasciava scorgere uno spazio libero nella volta del cielo, attraverso il quale si poteva ammirare il cerchio di luce quasi perfetto che circondava la luna crescente.

La sua luce argentea disegnava un arazzo di riflessi nella stanza di Irene. La ragazza sollevò per un attimo gli occhi dal diario di Alma Maltisse e osservò la sfera che le sorrideva dal firmamento. Ancora ventiquattro ore e la circonferenza sarebbe stata completa. La terza luna piena dell'estate. La notte delle maschere a Baia Azzurra.

In quel momento, però, il contorno della luna acquistò per lei un altro significato. Entro pochi minuti sarebbe andata all'appuntamento segreto con Ismael, al limitare del bosco. L'idea di attraversare l'oscurità e inoltrarsi nelle insondabili profondità di Cravenmoore adesso le sembrava un'imprudenza. O

meglio, un'idiozia. D'altra parte, in quel momento si sentiva incapace di deludere il ragazzo, com'era già accaduto nel pomeriggio, quando Ismael le aveva annunciato l'intenzione di recarsi nella villa di Lazarus Jann in cerca di risposte sulla morte di Hannah. Non potendo chiarire i propri pensieri, la ragazza riprese il diario di Alma Maltisse e si rifugiò nelle sue pagine.

. .Da tre giorni non so niente di lui. È partito improvvisamente a mezzanotte, convinto che, se si al ontanava da me, l'ombra avrebbe seguito lui. Non ha voluto dirmi dov'era diretto, ma sospetto che abbia trovato rifugio sul 'isolotto del faro. È sempre andato in quel luogo solitario in cerca di pace, e ho l'impressione che questa volta sia tornato lì, come un bambino terrorizzato, ad affrontare il suo incubo. Tuttavia, la sua assenza mi ha fatto dubitare di quanto avevo creduto finora. In questi tre giorni l'ombra non è tornata. Sono rimasta chiusa nella mia stanza, circondata da luci, candele e lampade a olio. Neppure un angolo della camera è rimasto buio. Non sono quasi riuscita a dormire.

Mentre scrivo queste righe, in piena notte, dal a mia finestra posso vedere l'isolotto del faro tra la nebbia. Una luce bril a tra le rocce. So che è lui, solo, confinato nella prigione al a quale si è condannato. Non posso rimanere qui nemmeno un'ora di più. Se dobbiamo affrontare questo incubo, voglio che sia insieme. E se dobbiamo morire nel tentativo, al o stesso modo facciamolo uniti.

Ormai non m'importa vivere un giorno in più o in meno di questa fol ia. Sono certa che l'ombra non ci darà tregua.

Non posso sopportare un'altra settimana come questa. Ho la coscienza pulita e la mia anima è in pace con se stessa. La paura dei primi giorni è ora solo fatica e disperazione.

Domani, mentre la gente del paese festeggerà con il bal o in maschera nella piazza principale, prenderò una barca nel porto e andrò a cercarlo. Non mi interessano le conseguenze. Sono pronta ad accettarle. Mi basta stare accanto a lui ed essergli d'aiuto fino al a fine.

Qualcosa dentro mi dice che magari per noi resta ancora una possibilità di tornare a vivere una vita normale, felice, in pace. Non aspiro a nient'altro. .

L'impatto di un sassolino sulla finestra la distolse dalla lettura. Irene chiuse il diario e diede un'occhiata fuori. Ismael aspettava sulla soglia del bosco.

Lentamente, mentre si metteva un pesante giaccone di lana, la luna si nascose tra le nuvole.

Irene osservò con attenzione la madre dalla cima delle scale. Ancora una volta, Simone si era arresa al sonno nella sua poltrona preferita, davanti al finestrone da cui si vedeva la baia. Aveva un libro in grembo e gli occhiali da lettura ancora calati sul naso, come una slitta sul trampolino. In un angolo, una radio in legno, intagliata con capricciosi motivi art nouveau, sussurrava i tenebrosi accordi di uno sceneggiato poliziesco. Approfittando della situazione,

Irene passò in punta di piedi davanti alla madre e s'infilò nella cucina che dava sul cortile posteriore della Casa del Capo. Tutta l'operazione avvenne in non più di quindici secondi.

Ismael l'aspettava fuori, indossando un sobrio giubbotto di pelle, pantaloni da lavoro e un paio di stivali che parevano aver viaggiato avanti e indietro da Costantinopoli una mezza dozzina di volte. La brezza notturna trascinava fin lì dalla baia una fredda nebbiolina, stendendo sul bosco una ghirlanda di tenebre danzanti.

Irene si abbottonò la giacca fino al collo e annuì in silenzio allo sguardo attento del ragazzo. Senza dire una parola, si inoltrarono sul sentiero che attraversava la vegetazione. Una galleria di suoni invisibili popolava le ombre del bosco. Il fruscio delle foglie agitate dal vento copriva il rumore del mare che si infrangeva sugli scogli. Irene seguì i passi di Ismael. Il volto della luna si lasciava intravedere fugacemente nella trama di nubi che cavalcavano sulla baia, immergendo la foresta in una spettrale penombra tremolante. A metà tragitto, Irene prese la mano di Ismael e non la lasciò fino a quando la sagoma di Cravenmoore non si stagliò davanti a loro.

A un segnale del ragazzo, si fermarono dietro un tronco ferito a morte da un fulmine. Per pochi secondi la luna squarciò la cortina vellutata delle nuvole e un alone di chiarore illuminò la facciata di Cravenmoore, scolpendone i rilievi e i contorni e tracciando l'ipnotico ritratto di una cattedrale persa nelle profondità di un bosco maledetto. L'effimera visione si sciolse in una pozza di oscurità e un rettangolo di luce dorata si formò ai piedi della villa. La sagoma di Lazarus Jarm si disegnò sulla soglia dell'ingresso principale. L'inventore di giocattoli si chiuse la porta alle spalle e scese lentamente i gradini, diretto al sentiero che costeggiava gli alberi.

«È Lazarus. Tutte le notti fa una passeggiata nel bosco» mormorò Irene.

Ismael annuì in silenzio e trattenne la ragazza, gli occhi fissi sull'inventore di giocattoli che s'incamminava verso il limitare del bosco, nella loro direzione. Irene rivolse a Ismael uno sguardo interrogativo. Lui si lasciò sfuggire un sospiro e si guardò nervosamente intorno.

Sentirono i passi di Lazarus. Ismael prese Irene per un braccio e la spinse dentro il tronco morto dell'albero.

«Da questa parte. Presto» sussurrò.

L'interno dell'albero era impregnato di un forte odore di umidità e marciume. Il chiarore esterno filtrava attraverso piccoli orifizi lungo il legno e disegnava un'improbabile scala formata da gradini di luce che salivano nel tronco cavernoso. Irene sentì un formicolio allo stomaco. Due metri sopra di loro notò una fila di piccoli punti luminosi. Occhi. Un grido fu sul punto di sfuggirle dalla gola. La mano di Ismael lo anticipò. L'urlo le si strozzò in gola, mentre il ragazzo continuava a tenerla ferma.

«Sono solo pipistrelli, per l'amor di Dio. Stai calma» mormorò, mentre Lazarus passava intorno al tronco, in direzione del bosco.

Saggiamente, Ismael tenne imbavagliata la bocca di Irene finché i passi del proprietario di Cravenmoore non si allontanarono. Le ali invisibili dei pipistrelli si agitarono nell'oscurità. Irene sentì l'aria smossa sulla faccia e l'odore acido degli animali.

«Credevo che non avessi paura dei pipistrelli. .» disse Ismael. «Andiamo.»

Irene lo seguì nel giardino di Cravenmoore, verso il retro della villa. A ogni passo che faceva, si ripeteva che non c'era nessuno in casa e che la sensazione di essere osservata era una semplice suggestione della sua mente.

Raggiunsero l'ala contigua alla vecchia fabbrica di giocattoli di Lazarus e si fermarono davanti alla porta di quello che sembrava un laboratorio o una sala di assemblaggio. Ismael tirò fuori un coltello e fece scattare la lama. Il riflesso del filo brillò nell'oscurità.

Il ragazzo introdusse la punta nella serratura e tastò con attenzione il meccanismo interno.

«Spostati. Ho bisogno di più luce.»

Irene indietreggiò di qualche passo e scrutò nella penombra che regnava all'interno della fabbrica di giocattoli. I vetri erano come annebbiati da anni di abbandono e risultava praticamente impossibile vedere cosa ci fosse dall'altra parte.

«Forza, forza. .» mormorò Ismael tra sé, mentre continuava a lavorare con la serratura.

Irene lo guardò e zittì la voce interiore che cominciava a suggerirle che irrompere illegalmente in una proprietà privata non era una buona idea. Alla fine il meccanismo della serratura cedette con uno scatto quasi inudibile. Un sorriso illuminò il viso di Ismael.

La porta si aprì di un paio di centimetri.

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