Vi sono sempre quelli che domandano: Perché? A quelli che sentono il bisogno di chiederlo, a quelli che hanno bisogno di precisazioni, che vogliono sapere, ecco:
«In maggioranza gli uomini servono quindi lo stato, non principalmente come uomini, ma come macchine, con i loro corpi. Sono l’esercito in servizio permanente effettivo, e la milizia, le guardie carcerarie, i poliziotti, gli aiutanti volontari degli sceriffi, eccetera. In molti casi, non vi è un libero esercizio del giudizio o del senso morale: essi si pongono invece sullo stesso piano del legno, della terra e delle pietre; e forse si potrebbero fabbricare uomini di legno che servano agli stessi scopi. Costoro non meritano più rispetto degli uomini di paglia o di un grumo di fango. Hanno lo stesso valore dei cavalli e dei cani. Eppure costoro vengono comunemente considerati buoni cittadini. Altri — come molti legislatori, politici, avvocati, ministri del culto e funzionari — servono lo stato soprattutto con la testa; e poiché raramente operano distinzioni morali, senza volerlo servono il Diavolo quanto Dio. Pochissimi, come gli eroi, i patrioti, i martiri, i riformatori nel senso più nobile, e gli uomini, servono lo stato anche con la loro coscienza, e quindi necessariamente in maggioranza gli resistono; e vengono comunemente trattati da esso come nemici».
Questo è il nucleo. Adesso cominciate a metà, e più tardi apprenderete l’inizio; la fine verrà da sé.
Ma perché era il mondo che era, il mondo come lo avevano lasciato diventare, per mesi e mesi le sue attività non destarono l’attenzione allarmata di Quelli Che Facevano Funzionare La Macchina, quelli che spargevano il burro migliore sulle camme e sulle molle principali della cultura. Solo quando divenne evidente che, chissà come, era divenuto una celebrità, una personalità, forse addirittura un eroe per quella che inevitabilmente le Autorità etichettavano come “una parte emotivamente squilibrata della popolazione”, affidarono la faccenda all’Uomo del Tic-Tac e al suo macchinario legale. Ma ormai, poiché era il mondo che era, e loro non avevano potuto prevederlo — forse era un ceppo d’una malattia ormai estinta da molto tempo, rinato all’improvviso in un sistema in cui l’immunità era stata dimenticata — gli era stato permesso di diventare troppo reale. Adesso aveva forma e sostanza.
Era diventato una personalità, una cosa che loro avevano eliminato dal sistema già molti decenni prima. Ma era così, e c’era lui, una personalità decisamente imponente. In certi ambienti — gli ambienti del ceto medio — la cosa veniva considerata disgustosa. Ostentazione volgare. Anarchica. Vergognosa. In altri ambienti c’erano solo risolini, negli strati in cui il pensiero è asservito alla forma e al rituale, alla correttezza, ai convenevoli. Ma più giù, oh, molto più giù, dove la gente aveva sempre bisogno di santi e di peccatori, di panem et circenses, eroi e cattivi, era considerato un Bolivar; un Napoleone; un Robin Hood; un Dick Bong (Asso degli Assi); un Gesù; un Jomo Kenyatta.
E al vertice — dove ogni fremito e ogni vibrazione minacciano di spodestare i ricchi, i potenti e i titolati dalle loro rocche — era considerato una minaccia; un eretico; un ribelle; un disonore; un pericolo. Era conosciuto giù giù per la catena gerarchica, fino al nucleo, ma le reazioni importanti erano in alto in alto e in basso in basso. Al vertice, e in fondo.
Perciò venne tirato fuori il suo incartamento, insieme alla sua scheda oraria e alla sua cardiolastra, e tutto venne consegnato nell’ufficio dell’Uomo del Tic-Tac.
L’Uomo del Tic-Tac: alto molto più di un metro e ottantacinque, spesso taciturno, un uomo morbido che faceva le fusa quando le cose andavano bene. L’Uomo del Tic-Tac.
Persino negli ambienti della Gerarchia, dove la paura veniva generata, di rado subita, veniva chiamato l’Uomo del Tic-Tac. Ma nessuno lo chiamava così al cospetto della sua maschera.
Non si chiama un uomo con un nome odiato, quando quell’uomo, dietro la sua maschera, è capace di revocare i minuti, le ore, i giorni e le notti, gli anni della vostra vita. Era chiamato Maestro Cronometrista, in sua presenza. Era meno pericoloso.
— Questo è ciò che è — disse l’Uomo del Tic-Tac con autentica dolcezza. — Ma non chi è. La scheda oraria che tengo nella mano sinistra reca impresso un nome, ma è il nome di ciò che è, non chi è. Questa cardiolastra che tengo nella mano destra reca pure impresso un nome, ma di ciò che è nominato, non di chi. Prima di poter operare una regolare revoca, debbo sapere chi è.
Ai suoi collaboratori, tutti i furetti, tutti i confidenti, tutti gli spioni, tutti gli informatori, persino i commessi, disse: — Chi è questo Arlecchino?
Non faceva le fusa. Dal punto di vista del tempo, strideva.
Tuttavia, quello era veramente il discorso più lungo che gli avessero sentito pronunciare in una volta sola i collaboratori, i furetti, i confidenti, gli spioni, gli informatori, ma non i commessi, che di solito comunque non erano lì per poterlo sapere. Ma anch’essi si precipitarono per scoprirlo.
Chi è l’Arlecchino?
Lassù, sopra il terzo livello della città, stava rannicchiato sulla ronzante piattaforma d’alluminio della scialuppa aerea (puah! scialuppa aerea, proprio! era una barchetta raffazzonata in qualche modo) e guardava, laggiù, l’ordinata disposizione degli edifici, che sembrava un quadro di Mondrian.
Nelle vicinanze, sentiva il ritmo da metronomo sinist-destr-sinist del turno delle 2.47 pomeridiane, che entrava un minuto dopo, udì il più sommesso destr-sinist-destr della formazione delle 5.00 antimeridiane che tornava a casa.
Un sogghigno da folletto si schiuse sul volto abbronzato, e per un momento apparvero le fossette. Poi, grattandosi il ciuffo scarmigliato di capelli rossi, scrollò le spalle entro l’abito variegato, come se si preparasse a ciò che stava per accadere, e spostò in avanti la leva, e si piegò nel vento mentre la scialuppa aerea scendeva in picchiata. Sfiorò un marciapiede mobile, abbassandosi volutamente di qualche spanna per sgualcire i nastri delle signore alla moda e, infilandosi i pollici nelle grosse orecchie, cacciò fuori la lingua, roteò gli occhi e fece wugga-wugga-wugga. Fu una diversione di poco conto. Una donna sdrucciolò e cadde, spargendo pacchetti tutto intorno, un’altra se la fece addosso, una terza si accasciò di traverso, e il marciapiede mobile venne bloccato automaticamente dai serventi, in attesa che si riuscisse a farla rinvenire. Fu una diversione di poco conto.
Poi lui si allontanò volteggiando su una brezza vagabonda, e sparì. Ih-oh.
Mentre girava intorno al cornicione del palazzo del Time-Motion Study, vide quelli del turno, che stavano appunto salendo sul marciapiede mobile. Con gesti esperti e con un’assoluta conservazione del movimento, salirono lateralmente sulla corsia più lenta e poi (in una fila da balletto che ricordava un film di Busby Berkeley degli antidiluviani Anni Trenta) avanzarono attraverso le corsie, camminando come struzzi, fino a quando furono allineati sull’espressovia.
Ancora una volta si schiuse il sorriso da folletto, e mancava un dente, là indietro, sulla sinistra. Si tuffò, li sorvolò in picchiata; e poi, rigirandosi sulla scialuppa aerea, tolse i cavicchi che tenevano chiuse le estremità dei suoi trogoli fatti in casa, e che impedivano al suo carico di rovesciarsi prematuramente. E mentre sfilava i cavicchi, la scialuppa aerea sorvolava gli operai della fabbrica, e centocinquantamila dollari di gelatine si rovesciarono in una cascata sull’espressovia.
Gelatine! Milioni e miliardi, purpuree e gialle e verdi e liquerizia e uva e lampone e menta e rotonde e lisce e croccanti di fuori e tenere e carnose dentro, e zuccherine e rimbalzando, balzando, rotolando, tintinnando, saltellando, caddero sulle teste e sulle spalle e sui capelli duri e sulle corazze degli operai della Timkin, tintinnando sul marciapiede e rimbalzando via e rotolando sotto i piedi e riempiendo il cielo nella caduta con tutti i colori della gioia e dell’infanzia e delle festività, in una pioggia continua, un’ondata solida, un torrente di colore e di dolcezza disceso dal cielo lassù, che entrava in un universo di lucidità e d’ordine da metronomo, con una novità buffa e pazzesca. Gelatine!
Gli operai del turno urlarono e risero e vennero bersagliati e rompevano le file, e le gelatine riuscirono a penetrare negli ingranaggi dei marciapiedi mobili e allora vi fu uno scricchiolio terribile come il suono di un milione di unghie che stridessero su un quarto di milione di lavagne, seguito da un tonfo continuato e convulso, da un crepitio, e poi tutti i marciapiedi si fermarono, e tutti ruzzolarono di qua e di lì, in un mucchio, e ancora ridevano e si buttavano in bocca le piccole gelatine dai colori infantili. Era una vacanza, e uno spasso, una follia assoluta, una risata. Ma…
Il turno ritardò di sette minuti.
Non arrivarono a casa per sette minuti.
La tabella oraria generale subì uno scompenso di sette minuti.
I piani di produzione furono ritardati di sette minuti dai marciapiedi bloccati.
Lui aveva rovesciato la prima tessera del domino della fila, e una dopo l’altra, chik chik chik, le altre erano cadute.
Il Sistema era stato turbato per sette minuti. Era una cosa da poco, appena degna di nota, ma in una società in cui l’unica forza motrice erano l’ordine e l’unità e la prontezza e la precisione cronometrica e la devozione all’orologio, la venerazione per gli dèi del tempo che passava, era un disastro di tremenda importanza.
Perciò gli venne ordinato di presentarsi all’Uomo del Tic-Tac. L’annuncio venne irradiato su tutti i canali di tutti i mezzi di comunicazione. Gli fu ordinato di presentarsi là alle 7.00 e, maledizione, puntuale. E attesero, e attesero, e attesero, ma lui non comparve fin verso le dieci e mezzo, e allora si limitò a cantare una canzoncina sul chiaro di luna in un posto che nessuno aveva mai sentito nominare e che si chiamava Vermont, e sparì di nuovo. Ma tutti avevano aspettato fin dalle sette, e questo era stato un disastro per le loro tabelle orarie. Perciò restava ancora il quesito: Chi è l’Arlecchino?
Ma la domanda che non veniva formulata (la più importante delle due) era: come abbiamo fatto a metterci in questa situazione, se un buffone ridente e irresponsabile può disorganizzare tutta la nostra vita economica e culturale con centocinquantamila dollari di gelatine…?
Gelatine, Diosanto! È una pazzia! Dove ha preso il danaro per comprare centocinquantamila dollari di gelatine? (Sapevano che dovevano essere costate tanto, perché avevano distaccato un team di Analisti Situazionali, facendo abbandonare loro un altro incarico, li avevano portati sui marciapiedi mobili a raccogliere e a contare le gelatine, e a fornire risultanze, e questo sconvolse le loro tabelle orarie e causò il ritardo di un giorno almeno nell’attività del loro settore). Gelatine? Gelatine? Un secondo — un secondo giustificato — nessuno ha prodotto gelatine da più di un secolo. Dove si è procurato le gelatine?
Ecco un’altra domanda intelligente. Molto probabilmente non troverà mai una risposta soddisfacente. Ma quante domande la trovano?
Adesso conoscete la parte centrale. Ecco l’inizio. Comincia così:
Una rubrica da scrivania. Giorno per giorno, e girate la pagina ogni giorno. 9:00 — aprire la posta. 9:45 — appuntamento con la commissione per la pianificazione. 10:30 — discutere i diagrammi degli stati d’avanzamento delle installazioni con J.L. 11:45 — preghiera per la pioggia. 12:00 — pranzo. E così via.
— Mi dispiace, Miss Grant, ma l’orario per i colloqui era fissato per le 2:30, e adesso sono quasi le cinque. Mi dispiace che sia in ritardo, ma questi sono i regolamenti. Dovrà aspettare l’anno prossimo per ripresentare domanda d’accettazione a questo college. — E così via.
Il treno locale delle 10:10 ferma a Cresthaven, Galesville, Tonawanda Junction, Selby e Farnhurst, ma non a Indiana City, Lucasville e Colton, tranne la domenica. L’espresso delle 10:35 ferma a Galesville, Selby e Indiana City, tranne la domenica e altre festività, quando ferma a… e così via.
— Non ho potuto aspettarti, Fred. Dovevo essere da Pierre Cartain per le 3:00 e tu mi avevi detto che ci saremmo trovati sotto l’orologio del terminal alle 2:45, e tu non c’eri, così ho dovuto andare. Sei sempre in ritardo, Fred. Se ci fossi stato, avremmo potuto combinare insieme, ma così, be’, ho fatto l’ordine da solo… — E così via.
Cari Mr. e Mrs. Atterley: in riferimento ai costanti ritardi di vostro figlio Gerold, siamo purtroppo costretti a sospenderlo dalla scuola, a meno che si possa istituire un metodo attendibile che garantisca il suo arrivo in classe in orario. Riconosciamo che è uno studente esemplare e che i suoi voti sono ottimi, ma il suo continuo dispregio per gli orari di questa scuola impedisce di mantenerlo nell’ambito di un sistema in cui gli altri bambini si dimostrano capaci di arrivare dove devono arrivare in perfetto orario… e così via.
NON POTRETE VOTARE SE NON VI PRESENTATE ALLE 8:45 A.M.
— Non m’interessa che la sceneggiatura sia buona, ne ho bisogno per giovedì!
ORARIO DI USCITA È ALLE 2:00 P.M.
— È arrivato in ritardo. Il posto è già stato assegnato a un altro. Mi dispiace.
DAL SUO STIPENDIO SONO STATI DETRATTI VENTI MINUTI DI RITARDO.
— Dio, com’è tardi, devo scappare!
E così via. E così via. E così via. E così via via via via via tic tac tic tac tic tac e un giorno non lasciamo più che sia il tempo a servire noi, siamo noi a servire il tempo e siamo schiavi dell’orario, adoratori del movimento del sole, vincolati a un’esistenza imperniata sulle restrizioni perché il sistema non funziona se non rispettiamo rigorosamente la tabella di marcia.
Fino a quando arrivare in ritardo non è più un fastidio da poco. Diventa un peccato. Poi un reato. Poi un reato punibile così: CON DECORRENZA DAL 15 LUGLIO 2389 ore 12:00:00, l’ufficio del Maestro Cronometrista richiederà a tutti i cittadini di consegnare le schede orarie e le cardiolastre per l’elaborazione. Ai sensi dello Statuto 555-8-SGH-999 relativo alla revoca del tempo pro capite, tutte le cardiolastre saranno sintonizzate sui singoli detentori e…
Cos’avevano fatto? Avevano ideato un metodo per ridurre la durata dell’esistenza che una persona poteva avere. Se arrivava in ritardo di dieci minuti, perdeva dieci minuti della sua vita. Un’ora valeva, proporzionalmente, una revoca maggiore. Se qualcuno arrivava continuamente in ritardo, poteva, una domenica notte, trovarsi a ricevere una comunicazione del Maestro Cronometrista, con la quale lo si informava che il suo tempo era scaduto, e che sarebbe stato “spento” a mezzogiorno in punto di lunedì, è pregato di sistemare i suoi affari, signore.
E così, con un semplice espediente scientifico (sfruttando un procedimento scientifico tenuto ben segreto dall’ufficio dell’Uomo del Tic-Tac), veniva tenuto in piedi il Sistema. Era l’unica soluzione pratica. Dopotutto, era patriottica. Bisognava rispettare le tabelle di marcia. Dopotutto, c’era una guerra in corso!
Ma non c’era sempre?
— Ma è veramente disgustoso — disse l’Arlecchino, quando la graziosa Alice gli mostrò il manifesto che lo dava per ricercato. — Disgustoso ed estremamente improbabile. Dopotutto, non siamo ai tempi dei desperados. Un manifesto!
— Sai — osservò Alice — parli con una forte inflessione.
— Chiedo scusa — disse umilmente l’Arlecchino.
— Non è necessario che ti scusi. Dici sempre “chiedo scusa”. Hai addosso un tale senso di colpa, Everett, è davvero molto triste.
— Chiedo scusa — ripeté lui, poi sporse le labbra e per un momento ricomparvero le fossette. Non aveva avuto intenzione di dirlo. — Debbo uscire ancora. Debbo fare qualcosa.
Alice sbatté sul banco la sfera del caffè. — Oh, per amor di Dio, Everett, non puoi restartene a casa almeno una notte? Devi andartene sempre in giro con quell’orribile costume da pagliaccio, a dar fastidio alla gente?
— Io… — Lui s’interruppe, e si calcò il berretto da giullare sul ciuffo di capelli rossi con un lieve tintinnar di sonagli. Si alzò, sciacquò il globo del caffè sotto il rubinetto, e lo mise per un momento nell’asciugatore. — Devo andare.
Lei non rispose. La cassetta dei facsimili stava ronzando, e lei tirò fuori un foglio, lo lesse, glielo buttò attraverso il banco. — Riguarda te. Naturalmente. Sei ridicolo.
Lui lo lesse in fretta. Diceva che l’Uomo del Tic-Tac stava cercando di individuarlo. Non gliene importava, sarebbe stato ancora in ritardo. Sulla porta, cercando una battuta conclusiva, esclamò con petulanza: — Be’, anche tu parli con una forte inflessione!
Alice levò al cielo gli occhi graziosi. — Sei ridicolo. — L’Arlecchino uscì, sbattendo la porta che si richiuse sommessamente con un sospiro, e fece scattare da sola la serratura.
Si sentì bussare dolcemente, e Alice si alzò con uno sbuffo esasperato e aprì la porta. Lui era lì. — Tornerò verso le dieci e mezzo, va bene?
Lei assunse un’espressione rattristata. — Perché me lo dici? Perché? Lo sai che verrai in ritardo? Lo sai! Sei sempre in ritardo, quindi perché mi dici queste stupidaggini? — Chiuse la porta.
Dall’altra parte, l’Arlecchino annuì. Ha ragione lei. Ha sempre ragione lei. Arriverò in ritardo. Sono sempre in ritardo. Perché le dico queste stupidaggini?
Scrollò di nuovo le spalle, e uscì per tornare in ritardo ancora una volta.
Aveva lanciato i razzi dei fuochi d’artificio che annunciavano: “Presenzierò alla 115a Invocazione annuale dell’Associazione Medica Internazionale alle 8:00 p.m. in punto. Spero che potrete farmi tutti compagnia”.
Le parole erano divampate nel cielo, e naturalmente le autorità erano là ad attenderlo. Pensavano, naturalmente, che sarebbe arrivato in ritardo. Arrivò con venti minuti d’anticipo, mentre stavano montando le ragnatele per intrappolarlo e bloccarlo, e muggì in un grosso altoparlante, e li spaventò e li snervò al punto che le reti umidificate scattarono e si chiusero, e loro vennero trascinati in alto, scalcianti e urlanti, in alto, al di sopra della platea dell’anfiteatro. L’Arlecchino rise e rise, e si scusò profusamente. I medici, radunati in solenne conclave, si sbellicarono dalle risate, e accettarono le scuse dell’Arlecchino con inchini e reverenze, e ci fu divertimento per tutti, poiché pensavano che l’Arlecchino fosse un normale attore vestito in modo bizzarro; tutti, cioè, tranne le autorità, che erano state spedite là dall’ufficio dell’Uomo del Tic-Tac, e che stavano là appese come le merci in procinto di venir caricate su una nave, trascinate sopra l’anfiteatro in maniera del tutto indecorosa.
(In un’altra parte della stessa città, dove l’Arlecchino svolgeva le sue “attività”, del tutto irrelato a ciò che qui ci riguarda, se non in quanto illustra il potere e l’importanza dell’Uomo del Tic-Tac, avvenne che un uomo chiamato Marshall Delahanty ricevette la comunicazione del suo spegnimento dall’ufficio dell’Uomo del Tic-Tac. La moglie ricevette la notifica del fattorino grigio-vestito che la consegnò con la tradizionale “espressione di rammarico” orribilmente dipinta sulla faccia. Lei capì di cosa si trattava, senza bisogno di aprire la busta. Era un tipo di bigliettino che a quei tempi tutti riconoscevano al volo. Soffocò un grido, e lo tenne come se fosse un vetrino coperto di botulino, e pregò che non fosse per lei. Che sia per Marsh, pregò, brutalmente, realisticamente, o per uno dei ragazzi, ma non per me, ti prego, buon Dio, non per me. E poi l’aprì, ed era per Marsh, e lei provò nello stesso istante un senso di orrore e di sollievo. Il proiettile se l’era buscato un altro soldato della fila. — Marshall! — urlò. — Marshall! Terminazione, Marshall! OmioDio, Marshall, cosafaremo, cosafaremo, Marshall, ohmiodiomarshall… — E in casa loro, quella notte, vi fu il suono della carta strappata e della paura, e il fetore della follia saliva e saliva e non c’era nulla, assolutamente nulla che loro potessero fare.
(Ma Marshall Delahanty cercò di fuggire. E il giorno dopo, di buon’ora, quando venne il momento dello spegnimento, era nel cuore della foresta a duecento miglia di distanza, e l’ufficio dell’Uomo del Tic-Tac scaricò la cardiolastra, e Marshall Delahanty si accasciò, mentre correva, e il suo cuore si fermò, e il sangue si inaridì mentre saliva al cervello, e lui morì, ecco tutto. Una lampadina si spense nella mappa del suo settore, nell’ufficio del Maestro Cronometrista, mentre la notifica veniva registrata per la riproduzione in facsimile, e Georgette Delahanty veniva iscritta d’ufficio nei ruoli dell’assistenza pubblica, in attesa che potesse risposarsi. Qui finisce la nota, ed è tutto ciò che è necessario dire, ma non ridete, perché è quello che sarebbe accaduto all’Arlecchino, se mai l’Uomo del Tic-Tac avesse scoperto il suo vero nome. Non è divertente).
Il livello commerciale della città era affollato dei colori del giovedì, indossati dai compratori. Donne con chitoni giallo-canarino e uomini in costumi pseudotirolesi, che erano di giada e di cuoio, aderentissimi, a parte i calzoni a sbuffo.
Quando l’Arlecchino apparve sul guscio ancora in costruzione del nuovo Centro Acquisti Efficienza, con il megafono accostato alle labbra ridenti da folletto, tutti lo indicarono e spalancarono gli occhi, e lui li rimproverò.
— Perché vi lasciate dar ordini? Perché lasciate che vi dicano di affrettarvi e di correre come formiche o bruchi? Prendetevela con calma! Passeggiate un po’! Godetevi il sole, godetevi la brezza, lasciate che la vita vi trasporti secondo il vostro ritmo! Non siate schiavi del tempo, è un modo orribile di morire, lentamente, a poco a poco… abbasso l’Uomo del Tic-Tac!
Chi è quel pazzo? chiedevano quasi tutti. Chi è quel pazzo, oh, arriverò in ritardo debbo scappare…
E la squadra addetta alla costruzione del Centro Acquisti ricevette un ordine urgente dall’ufficio del Maestro Cronometrista: il pericoloso criminale conosciuto come l’Arlecchino era sulla loro guglia, e il loro aiuto era indispensabile per catturarlo. Gli operai risposero di no, perché sarebbero rimasti indietro con le tabelle orarie del lavoro di costruzione, ma l’Uomo del Tic-Tac tirò i fili giusti, e gli operai ricevettero l’ordine di interrompere il lavoro e di catturare quel pagliaccio con il megafono, lassù sulla guglia. Perciò dodici operai robusti, o più, cominciarono a salire sulle piattaforme da costruzione, attivando le lastre antigravità e ascendendo verso l’Arlecchino.
Dopo la disfatta (in cui, grazie alla sollecitudine dell’Arlecchino per la sicurezza di tutti, nessuno rimase ferito gravemente), gli operai cercarono di riorganizzarsi e di assaltarlo di nuovo, ma era troppo tardi. Era svanito. Tuttavia aveva attirato una grande folla, e il ciclo degli acquisti venne sbilanciato di varie ore, addirittura. Perciò le esigenze d’approvvigionamento del Sistema rimasero indietro, e quindi vennero presi provvedimenti per accelerare il ciclo durante il resto della giornata, ma finì per crearsi una grande confusione e così vendettero troppe valvole per galleggianti e non abbastanza maniglie, il che significava che la proporzione era squilibrata, il che rese necessario l’invio precipitoso di casse e casse di Smash-O a magazzini che di solito avevano bisogno di una cassa ogni tre o quattro ore. Le spedizioni andarono a rotoli, lo smistamento diventò caotico e, alla fine, persino le industrie ne risentirono.
— Non fatevi più vedere fino a quando l’avrete preso! — disse l’Uomo del Tic-Tac, molto sommessamente, molto sinceramente, molto minacciosamente.
Usarono i cani. Usarono le sonde. Usarono i rilevatori delle cardiolastre. Usarono la corruzione. Usarono adesivi. Usarono l’intimidazione. Usarono il tormento. Usarono le torture. Usarono i confidenti. Usarono i poliziotti. Usarono mandati di perquisizione e di cattura. Usarono gli incentivi. Usarono le impronte digitali. Usarono il metodo Bertillon. Usarono l’astuzia. Usarono l’inganno. Usarono il tradimento. Usarono Raoul Mitgong, ma non servì a molto. Usarono la fisica applicata. Usarono le tecniche della criminologia.
E che diavolo: lo presero.
Dopotutto, il suo nome era Everett C. Marm, e non era niente di speciale, solo un uomo che non aveva il senso del tempo.
— Pentiti, Arlecchino! — disse l’Uomo del Tic-Tac.
— Vai all’inferno — rispose l’Arlecchino, con un sogghigno.
— Hai accumulato un ritardo di sessantatré anni, cinque mesi, tre settimane, due giorni, dodici ore, quarantun minuti, cinquantanove secondi, zero virgola tre sei uno uno uno microsecondi. Hai consumato tutto quello di cui potevi disporre, e anche più. Ti spegnerò.
— Vai a spaventare qualcun altro. Preferisco esser morto, piuttosto che vivere in un mondo stupido con un babau come te.
— È il mio lavoro.
— E te ne gonfi. Sei un tiranno. Non hai il diritto di ordinare alla gente di fare questo e quello e di ucciderla se arriva in ritardo.
— Tu non sai adattarti. Non sai integrarti.
— Slegami, e t’integrerò un pugno in bocca.
— Sei un non conformista.
— Non era un reato.
— Adesso lo è. Vivi nel mondo che ti circonda.
— Lo odio. È un mondo orribile.
— Non tutti la pensano così. Molti amano l’ordine.
— Io no, e gran parte della gente che conosco non l’ama.
— Questo non è vero. Come credi che ti abbiamo preso?
— Non m’interessa.
— Una ragazza graziosa chiamata Alice ci ha detto chi eri.
— È una menzogna.
— È vero. L’esasperavi. Lei vuole integrarsi, lei vuole conformarsi. Ti spegnerò.
— E allora sbrigati a farlo, e finiscila di discutere con me.
— Non ti spegnerò.
— Sei un idiota!
— Pentiti, Arlecchino! — disse l’Uomo del Tic-Tac.
— Vai al diavolo.
Perciò lo mandarono a Coventry. E a Coventry se lo lavorarono. Fu proprio come fecero a Winston Smith in 1984, che era un libro di cui nessuno di loro sapeva niente, ma le tecniche in verità sono molto antiche, e le usarono con Everett C. Marm, e così un giorno, molto tempo dopo, l’Arlecchino apparve sui teleschermi, con l’aria da folletto e le fossette e gli occhi luminosi, senza l’aspetto di chi ha subito il lavaggio del cervello, e disse che aveva sbagliato, che era una bella cosa, una cosa bellissima, essere integrati, ed essere puntuali, hip-ho, e via che andiamo, e tutti lo guardarono sugli schermi pubblici che coprivano un intero isolato della città, e si dissero, ecco, vedi, era proprio un pazzo, dopotutto, e se il Sistema va così, allora lasciamolo così, perché è inutile combattere con il consiglio comunale o, come in questo caso, con l’Uomo del Tic-Tac. E così Everett C. Marm venne annientato, e fu una grossa perdita, per via di quello che aveva detto un tempo Thoreau, ma non si può fare la frittata senza rompere le uova, e in tutte le rivoluzioni muoiono alcuni che non dovrebbero, ma è inevitabile, perché è così che vanno le cose, e se riuscite ad apportare anche un cambiamento piccolo piccolo, allora sembra che ne sia valsa la pena. O meglio, per illustrare più esattamente:
— Uh, mi scusi, signore, io, uh, non come come uh, come uh, come dirglielo, ma è in ritardo di tre minuti. La tabella oraria è un po’, uh, un po’ sbilanciata.
E sogghignò timidamente.
— È ridicolo — mormorò l’Uomo del Tic-Tac dietro la maschera. — Controlli il suo orologio. — E poi entrò nel suo ufficio, facendo le fusa, le fusa, le fusa, le fusa.