Dopo un’oziosa discussione con il disinfestatore che veniva una volta il mese a irrorare l’esterno della sua casa nella sezione Ruxton di Baltimora, William Sterog rubò una tanica di Malathion, un veleno insetticida mortale, dal camion dell’uomo, e uscì una mattina presto, seguendo il percorso del lattaio del quartiere, e versò quantità medio-grandi in ogni bottiglia lasciata sui gradini di settanta case. Dopo sei ore dall’azione di Bill Sterog, duecento tra uomini, donne e bambini morirono tra convulsioni e dolori.
Venuto a sapere che una zia abitante a Buffalo stava morendo di cancro alle ghiandole linfatiche, William Sterog aiutò sua madre a preparare in fretta tre valigie e la condusse al Friendship Airport, dove la caricò su un jet delle Eastern Airlines con una semplice ma efficiente bomba a orologeria costruita con una sveglia Westclox Travelalarm e quattro bastoncini di dinamite, e sistemata in una delle tre valigie. Il jet esplose nei pressi di Harrisburg, Pennsylvania. Novantatré persone, inclusa la madre di Bill Sterog, furono uccise nell’esplosione, e i rottami in fiamme causarono altri sette morti, precipitando in una piscina pubblica.
Una domenica di novembre, William Sterog andò alla Babe Ruth Plaza sulla 33a Strada, dove divenne uno dei 54.000 tifosi che stipavano il Memorial Stadium per vedere i Baltimore Colts che giocavano contro i Green Bay Packers. Aveva un vestito pesante, calzoni di flanella grigia, pullover blu a collo di tartaruga e un pesante maglione di lana irlandese lavorata a mano sotto l’impermeabile. Quando restavano da giocare tre minuti e tredici secondi del quarto tempo, e il Baltimore premeva diciassette a sedici sulla linea delle diciotto iarde del Green Bay, Bill Sterog si fece largo tra la folla verso l’uscita al di sopra dei posti del mezzanino, e frugò sotto l’impermeabile per prendere il mitra M-3, residuato dell’Esercito, che aveva comprato per $ 49,95 da un commerciante d’armi di Alexandria, Virginia, che vendeva per corrispondenza. Mentre 53.999 tifosi urlanti balzavano in piedi — migliorando ancora le sue possibilità di tiro — e mentre la palla finiva al quarterback, che la tratteneva per il tackle difensivo con ogni probabilità di segnare, Bill Sterog aprì il fuoco contro le schiene dei tifosi schierati sotto di lui. Prima che la folla potesse bloccarlo, aveva ucciso quarantaquattro persone.
Quando la prima Spedizione alla galassia ellittica dello Scultore scese sul secondo pianeta di una stella di quarta grandezza che la Spedizione aveva chiamato Flammarion Theta, trovò una statua alta undici metri di una sostanza biancazzurra sconosciuta — non esattamente pietra, più simile a metallo — in forma d’uomo. La figura era scalza, drappeggiata in un indumento che somigliava vagamente a una toga, aveva la testa racchiusa in una calotta aderente, e teneva nella mano sinistra uno strano oggetto, un anello con una sfera, di una sostanza ancora diversa. Il volto della statua aveva un’espressione curiosamente beata. Aveva zigomi alti: occhi profondamente incassati; bocca minuscola, quasi aliena; e naso ampio, con le narici larghe. La statua torreggiava enorme tra le strutture crivellate e curvilinee ideate da un architetto dimenticato. I membri della spedizione fecero commenti sull’espressione che ognuno di loro aveva notato sul volto della statua. Nessuno di costoro, ritti sotto una splendida luna bronzea che spartiva il cielo serotino con un sole calante dal colore molto dissimile da quello che brillava fioco su una Terra incredìbilmente lontana nel tempo e nello spazio, aveva mai sentito parlare di William Sterog. E nessuno di loro poté dire che l’espressione della statua gigantesca era la stessa di Bill Sterog, quando disse al giudice che stava per condannarlo a morire nella camera a gas: — Io amo tutti al mondo. È vero. Così mi aiuti Dio, vi amo, vi amo tutti. — Urlava.
Il Crocevia dei Quando, attraverso gli interstizi del pensiero chiamati tempo, attraverso immagini riflesse chiamate spazio: un altro allora, un altro ora. Questo posto, là. Al di là dei concetti, la transmogrificazione della semplicità finalmente etichettate se. Quaranta e più passi a lato, ma più tardi, molto più tardi. Là, in quel centro supremo, dove tutto si irradia verso l’esterno, diventando infinitamente più complesso, l’enigma della simmetria, dell’armonia, della proporzione che canta con ordine perfettamente intonato in questo posto, dove tutto incominciò, incomincia e incomincerà. Il centro. Il Crocevia dei Quando.
Oppure: cento milioni d’anni nel futuro. E: cento milioni di parsec al di là del limite più remoto dello spazio misurabile. E: distorsioni di parallasse innumerevoli attraverso gli universi delle esistenze parallele. Infine: un infinito di balzi motivati dalla mente al di là del pensiero umano.
Là: il Crocevia dei Quando.
Sul livello malva, accovacciato su onde di un magenta più scuro che nascondevano la sua forma arcuata, il pazzo attendeva. Era un drago, tozzo e con il torso arrotondato, la coda affusolata e coriacea ripiegata sotto il capo: i piccoli, solidi scudi ossei si alzavano perpendicolarmente dal dorso arcuato, scendendo fino all’estremità della coda, con le punte rivolte in alto; le braccia unghiute, più corte, ripiegate sul petto massiccio. Aveva le sette teste canine di un antico Cerbero. Ogni testa osservava, attendeva, famelica, demente.
Vide il brillante cuneo giallo di luce che si muoveva a caso nel malva, facendosi sempre più vicino. Sapeva che non poteva fuggire, il movimento lo avrebbe tradito, la luce spettrale l’avrebbe trovato immediatamente. La paura soffocava il pazzo. Lo spettro l’aveva inseguito attraverso l’innocenza e l’umiltà e altri nove offuscamenti emotivi che lui aveva tentato. Doveva fare qualcosa, far perdere le sue tracce. Ma era solo, su quel livello. Era stato chiuso qualche tempo prima, per ripulirlo delle emozioni residue. Se lui non fosse stato così terribilmente confuso per via delle uccisioni, se non fosse sprofondato nel disorientamento, non si sarebbe mai messo in trappola in un livello chiuso.
Adesso che era lì, adesso che non sapeva dove nascondersi, dove fuggire per sottrarsi alla luce spettrale che l’avrebbe stanato sistematicamente. Allora lo avrebbero ripulito.
Il pazzo scelse l’unica possibilità: chiuse la propria mente, tutti i sette cervelli, come era chiuso il livello malva. Escluse tutti i pensieri, spense i fuochi delle emozioni, interruppe i circuiti neurali che trasmettevano energia alla sua mente. Come una grande macchina che degrada dalla massima efficienza, i suoi pensieri rallentarono, avvizzirono, impallidirono. Poi vi fu un vuoto, là dove era stato lui. Le sette teste canine dormivano.
Il drago aveva cessato di esistere, dal punto di vista del pensiero, e la luce spettrale lo sfiorò, senza trovare nulla su cui indugiare. Ma coloro che cercavano il pazzo erano sani di mente, non squilibrati come lui; la loro sanità mentale era bene ordinata, e nell’ordine essi presero in considerazione ogni esigenza. La luce spettrale fu seguita da raggi termocercatori, da sensori rilevatori di massa, da rintracciatori in grado di stanare la pista della materia estranea in un livello chiuso.
Trovarono il pazzo. Lo individuarono, spento come un sole divenuto freddo, e lo trasferirono; lui non si accorse del movimento; era isolato nei suoi crani silenziosi.
Ma quando decise di riaprire i suoi pensieri, nell’eterno disorientamento che segue una chiusura totale, si trovò bloccato in stasi in un reparto di drenaggio al Terzo Livello Rosso Attivo. E allora urlò con tutte le sue sette gole.
Il suono, naturalmente, si perse nelle sordine laringee che avevo inserito, prima che lui si rigirasse. La mancanza del suono lo atterrì ancora di più.
Era incorporato in una sostanza ambrata che gli aderiva addosso delicatamente; se fosse stato in un’era molto più antica, su un altro mondo, in un altro continuum, sarebbe finito semplicemente su un letto di contenzione in un manicomio. Ma il drago era bloccato in stasi su un livello rosso, al Crocevia dei Quando. Il suo letto d’ospedale era antigravità, senza peso, totalmente rilassante, e gli propinava, attraverso la pelle coriacea, sostanze nutrienti, tonici e tranquillanti. Era in attesa di venir drenato.
Linah entrò fluttuando nel reparto, seguito da Semph, lo scopritore del drenaggio. E la sua nemesi più eloquente, Linah, che cercava l’Elevazione Pubblica al grado di Prefetto. Fluttuarono lungo le file dei pazienti racchiusi nell’ambra: i rospi, i cubi cristallini dalle palpebre a tamburo, gli esseri con esoscheletri, i metamorfi con pseudopodi, e il drago con sette teste. Si soffermarono davanti al pazzo, un poco più in alto di lui. Lui poteva guardarli, dal basso in alto: immagini viste sette volte: ma non era in grado di emettere il minimo suono.
— Se mai avessi avuto bisogno d’una ragione conclusiva, eccone una delle migliori — disse Linah, inclinando la testa verso il pazzo.
Semph immerse una canna d’analisi nella sostanza ambrata, la ritirò ed effettuò una rapida lettura delle condizioni del paziente. — Se mai avessi bisogno di un avvertimento più decisivo — disse sottovoce Semph — eccone uno dei migliori.
— La scienza si piega al volere delle masse — disse Linah.
— Preferirei non doverlo credere — si affrettò a rispondere Semph. C’era nella sua voce un tono indefinibile, ma che soverchiava l’aggressività delle sue parole.
— Provvedere io, Semph: credimi. Farò in modo che la Concordia approvi la risoluzione.
— Linah, da quanto tempo ci conosciamo?
— Dal tuo terzo flusso. Dal mio secondo.
— È esatto, più o meno. Ti ho mai detto una bugia? Ti ho mai chiesto di fare qualcosa che avrebbe potuto danneggiarti?
— No. No, a quanto ricordo.
— E allora perché non mi vuoi ascoltare, questa volta?
— Perché penso che tu abbia torto. Non sono un fanatico, Semph. Non è una questione politica. Sono fermamente convinto che questa sia l’occasione migliore che abbiamo mai avuto.
— Ma è un disastro per chiunque altro e dovunque, e Dio solo sa fin dove, attraverso la parallasse. Noi smettiamo di sporcare nel nostro nido, a spese di tutti gli altri nidi che siano mai esistiti.
Linah allargò le mani in un gesto rassegnato. — Sopravvivenza.
Semph scosse lentamente il capo, con una stanchezza che si rispecchiava nella sua espressione. — Vorrei poter drenare anche quello.
— E non puoi?
Semph scrollò le spalle. — Posso drenare qualunque cosa. Ma quel che resterebbe non ne varrebbe la pena.
La sostanza ambrata cambiò colore. Brillò, irradiandosi nel profondo con un’intensità azzurra. — Il paziente è pronto — disse Semph. — Linah, ancora una volta. Supplicherò, se sarà necessario. Ti prego. Attendi fino alla prossima seduta. Non è necessario che la Concordia lo faccia ora. Lasciami effettuare qualche altra prova, lasciami vedere fino a che punto risale questa sozzura, quanti danni può causare. Lasciami preparare qualche relazione.
Linah era incrollabile. Scosse il capo, con fare deciso. — Posso assistere al drenaggio con te?
Semph si lasciò sfuggire un lungo sospiro. Era stato sconfitto, e lo sapeva. — Sì, sta bene.
La sostanza ambrata, con il suo fardello silenzioso, cominciò a salire. Arrivò all’altezza dei due uomini, e scivolò dolcemente nell’aria in mezzo a loro. I due seguirono fluttuando il contenitore levigato in cui era incorporato il drago dalle sette teste canine, e Semph aveva l’aria di voler dire qualcosa d’altro. Ma non c’era nulla da dire.
La crisalide color ambra sbiadì e svanì, e gli uomini divennero incorporei e sparirono. Riapparvero tutti nella sala di drenaggio. Il podio luminoso era vuoto. La culla ambrata si posò senza far rumore, e la sostanza fluì via, dileguandosi e lasciando scoperto il drago.
Il pazzo tentò disperatamente di muoversi, di alzarsi di peso. Sette teste fremettero inutilmente. La pazzia che era in lui ebbe la meglio sui tranquillanti: fu preso da una frenesia ardente, dalla furia, da un odio cremisi. Ma non poteva muoversi. Poteva solo conservare la propria forma.
Semph girò la fascia che portava al polso sinistro. Divenne luminescente, di un color oro cupo. Il suono dell’aria che si precipitava a riempire il vuoto saturò la camera. Il podio era immerso in una luce argentea che sembrava scaturire dall’aria stessa, da una sorgente sconosciuta. Il drago venne inondato dalla luce d’argento, e le sette grandi bocche si aprirono una volta sola, scoprendo cerchi di zanne. Poi gli occhi dalle doppie palpebre si chiusero.
Il dolore, dentro le sue teste, era mostruoso. Uno strattone terribile, che diventò il risucchio di un milione di bocche. I suoi cervelli venivano aspirati, premuti, compressi, e poi ripuliti.
Semph e Linah distolsero lo sguardo dal corpo pulsante del drago, lo volsero verso la vasca di drenaggio nella parte opposta della sala. Mentre la guardavano, cominciò a riempirsi, dal fondo. Si riempiva di una nube turbinante quasi incolore, simile a fumo, irradiata di scintille. — Ecco — disse Semph, sebbene non ce ne fosse bisogno.
Linah staccò gli occhi dalla vasca. Il drago dalle sette teste canine si stava increspando. Come se lo vedessero attraverso un’acqua poco profonda, il pazzo stava incominciando a modificarsi. Via via che la vasca si riempiva, faticava sempre di più a mantenere la propria forma. Più densa diventava la nube di materia scintillante, e meno era costante la forma dell’essere sul podio.
Alla fine diventò impossibile, e il pazzo si arrese. La vasca si riempì più rapidamente, e la forma fremette e si alterò e si contrasse, e poi vi fu la sovrapposizione della forma di un uomo su quella del drago a sette teste. Poi la vasca si riempì per tre quarti, e il drago divenne un’ombra sommersa, un accenno, una parvenza di quello che era stato all’inizio del drenaggio. Ormai la forma d’uomo diventava sempre più dominante a ogni secondo.
Finalmente la vasca si riempì completamente, e un uomo normale giaceva sul podio: respirava pesantemente, a occhi chiusi, con i muscoli che sussultavano involontariamente.
— È drenato — disse Semph.
— È tutto nella vasca? — chiese sottovoce Linah.
— No, non ce n’è neppure un poco.
— Allora…
— Questo è il residuo. Innocuo. Reagenti purificati da un gruppo di sensitivi lo neutralizzeranno. Le essenze pericolose, le linee di forza degenerate che costituivano il campo… non ci sono più. Sono già state drenate.
Per la prima volta, Linah assunse un’espressione turbata. — E dov’è andato, tutto quanto?
— Tu ami il tuo simile uomo, dimmi?
— Ti prego, Semph! Ti ho chiesto dov’è andato a finire… quando è andato a finire?
— È io ti ho chiesto se ti stavano a cuore gli altri.
— Conosci la mia risposta… conosci me! Voglio sapere, dimmelo; quello che sai, almeno. Dove… quando?
— Allora mi perdonerai, Linah, perché anch’io amo i miei simili. In qualunque tempo fossero, in qualunque tempo siano: ci sono costretto, io lavoro in un campo inumano, e debbo aggrapparmi a questo. Quindi… mi perdonerai…
— Che cosa hai intenzione di…
In Indonesia c’è una frase per indicarlo: Djam Karet… l’ora che si prolunga.
Nella Stanza di Eliodoro, in Vaticano, la seconda delle grandi sale progettate per papa Giulio II, Raffaello dipinse (e i suoi allievi lo completarono) un magnifico affresco, raffigurante lo storico incontro tra papa Leone I e l’unno Attila, nell’anno 452.
Nell’affresco si rispecchia la convinzione di tutti i cristiani, secondo la quale l’autorità spirituale di Roma protesse la città nell’ora disperata, quando gli unni vennero per saccheggiarla e incendiarla. Raffaello vi ha dipinto san Pietro e san Paolo, che scendono dal cielo per conferire maggior forza all’intervento di papa Leone. La sua interpretazione è l’elaborazione della leggenda originale, in cui veniva ricordato solo l’apostolo Pietro… ritto dietro Leone con la spada sguainata. E la leggenda era un’elaborazione di quei pochi fatti che sono pervenuti relativamente inalterati dall’antichità: Leone non aveva con sé i cardinali, e certamente non aveva neppure il fantasma dell’apostolo. Era uno dei tre componenti la delegazione. Gli altri due erano dignitari laici dello stato romano. L’incontro non avvenne — come vorrebbe farci credere la leggenda — alle porte di Roma, bensì nell’Italia settentrionale, non lontano dall’odierna Peschiera.
Non si sa null’altro dell’incontro. Tuttavia Attila, che nessuno aveva mai fermato, non distrusse Roma. Tornò indietro.
Djam Karet. Il campo di linee di forza emesso da un Crocevia dei Quando al centro della parallasse, un campo che aveva pulsato attraverso il tempo e lo spazio e le menti degli uomini per il doppio di diecimila anni. Poi cessò all’improvviso, e l’unno Attila si strinse la testa fra le mani, e la sua mente si contorse come una fune dentro il suo cranio. I suoi occhi divennero vitrei, poi si schiarirono, ed egli trasse un profondo respiro. Poi diede al suo esercito il segnale di tornare indietro. Leone Magno ringraziò Dio e la memoria vivente di Cristo Salvatore. La leggenda aggiunse san Pietro. Raffaello aggiunse san Paolo.
Per il doppio di diecimila anni — Djam Karet — il campo aveva pulsato, e per un breve istante che poteva corrispondere a istanti o anni o millenni, era cessato.
La leggenda non racconta la verità. Più specificamente, non racconta tutta la verità: quarant’anni prima che Attila calasse in Italia, Roma era stata espugnata e saccheggiata dal goto Alarico. Djam Karet. Tre anni dopo la ritirata di Attila, Roma venne presa e saccheggiata di nuovo, questa volta da Genserico, re di tutti i vandali.
C’era una ragione, la sozzura della follia aveva smesso di fluire in ogni luogo e in ogni tempo dalla mente drenata di un drago a sette teste…
Semph, traditore della sua razza, aleggiava davanti alla Concordia. Il suo amico, l’uomo che ora cercava questo flusso finale, Linah, presiedeva l’udienza. Parlò sottovoce, ma eloquentemente, di ciò che aveva fatto il grande scienziato.
— La vasca si stava vuotando; lui mi ha detto: «Perdonami, perché amo gli uomini miei simili. In qualunque tempo fossero, in qualunque tempo siano; ci sono costretto, io lavoro in un campo inumano, e debbo aggrapparmi a questo. Perciò mi perdonerai». E poi si è messo in mezzo.
I sessanta membri della Concordia, un rappresentante per ognuna delle razze che esistevano nel centro, esseri simili a uccelli, e cose azzurre e uomini dalle grosse teste e profumi arancione con ciglia frementi… tutti guardarono Semph. Il corpo e la testa erano gualciti come un sacchetto di carta. Tutti i capelli erano scomposti. Gli occhi erano offuscati, acquosi. Nudo, tremolante, fluttuò leggermente da una parte, e poi una brezza vagabonda, nella sala priva di pareti, lo spinse indietro. Aveva drenato se stesso.
— Chiedo che questa Concordia pronunci una sentenza di flusso finale nei confronti di quest’uomo. Sebbene la sua interposizione sia durata solo pochi istanti, non possiamo sapere quali danni, quali effetti snaturati abbia causato al Crocevia dei Quando. Deduco che il suo intento fosse sovraccaricare il drenaggio e in tal modo renderlo inoperante. Quest’atto, l’atto di una bestia che potrebbe condannare le sessanta razze del centro a un futuro in cui prevalga ancora la follia, è un atto che può venire punito solo con la terminazione.
Sulle rive silenziose di un pensiero, l’uomo di papiro venne portato tra le braccia del suo amico, del suo giustiziere, il Prefetto. Là, nella quiete polverosa dell’appressarsi della notte, Linah depose Semph nell’ombra di un sospiro.
— Perché mi hai fermato? — chiese la grinza che era una bocca.
Linah distolse lo sguardo verso la tenebra.
— Perché?
— Perché qui, nel centro, c’è una possibilità.
— E per loro, tutti loro, là fuori… non ci sarà mai una possibilità?
Linah sedette lentamente, affondando le mani nella nebbia aurea, lasciandola fluire sui suoi polsi e poi nella carne del mondo in attesa. — Se possiamo incominciare qui, se possiamo spingere oltre i nostri confini, allora forse un giorno, chissà quando, potremo raggiungere la fine del tempo con quella piccola possibilità. Sino ad allora, è meglio avere un unico centro dove non vi sia la follia.
Semph parlò più in fretta. La fine avanzava a grandi passi rapidi verso di lui.
— Li hai condannati tutti. La pazzia è un vapore vivente. Una forza. Può essere racchiusa in una bottiglia. Il genio più potente nella bottiglia più facile da stappare. E tu li hai condannati tutti a vivere con essi, per sempre. In nome dell’amore.
Linah emise un suono che non era esattamente una parola, ma lo richiamò.
Semph gli sfiorò il polso con un tremito che era stato una mano. Le dita si fondevano nella mollezza e nel tepore. — Mi dispiace per te, Linah. La tua maledizione è di essere un vero uomo. Il mondo è fatto per coloro che lottano. Tu non hai mai imparato a farlo.
Linah non rispose. Pensava soltanto al drenaggio, che adesso era eterno. Messo in moto e tenuto in moto dalla sua stessa necessità.
— Farai un monumento funebre per me? — chiese Semph.
Linah annuì. — È tradizionale.
Semph sorrise dolcemente. — Allora fallo per loro; non per me. Sono stato io a ideare il veicolo della loro morte, e non ne ho bisogno. Ma scegli uno di loro: uno non molto importante, ma che possa significare tutto per loro, se lo scopriranno e se capiranno. Erigi in mio nome il monumento a quello. Lo farai?
Linah annuì.
— Lo farai? — chiese Semph. Aveva gli occhi chiusi, e non aveva potuto vedere il cenno.
— Sì, lo farò — disse Linah.
Ma Semph non poteva udirlo. Il flusso incominciò e finì, e Linah rimase solo nella conca di silenzio e di solitudine.
La statua venne collocata su un lontano pianeta di una stella lontana, in un tempo che era antico, sebbene non fosse ancora nato. Esisteva nelle menti degli uomini che sarebbero venuti più tardi. O mai.
Ma se fossero venuti, avrebbero compreso che l’inferno era con loro, che vi era un Paradiso che gli uomini chiamavano Paradiso, e che in esso vi era un centro dal quale fluiva tutta la follia; e che entro quel centro, vi era pace.
Tra le macerie di un edificio devastato che era stato una fabbrica di camicie, in quella che era stata Stoccarda, Friedrich Drucker trovò una cassetta multicolore. Reso pazzo dalla fame e dal ricordo di essersi nutrito per settimane di carne umana, l’uomo cercò di strappare il coperchio della cassetta con i moncherini insanguinati delle dita. Quando la cassetta si aprì, alla pressione esercitata su un certo punto, mille cicloni eruppero davanti al volto atterrito di Friedrich Drucker. Cicloni e forme scure, alate, senza volto, che sfrecciarono via nella notte, seguite da un’ultima spira di fumo purpureo che esalava un forte odore di gardenie putrefatte.
Ma se fossero venuti, avrebbero compreso che l’inferno era con loro, che vi era un paradiso che gli uomini chiamavano Paradiso, e che in esso vi era un centro dal quale fluiva tutta la follia; e che entro quel centro, vi era pace.