Connie Willis Il raggio di Schwarzschild

«Quando una stella collassa, in qualche modo è come se cadesse su se stessa.»

Travers curvò una mano a formare un semicerchio e poi vi infilò le dita dell’altra mano. «E a volte raggiunge un punto di non ritorno in cui la spinta gravitazionale prende il sopravvento sulle forze elettriche e nucleari, e quando raggiunge quel punto niente può impedirle di collassare. Diventa un buco nero.» Richiuse la mano a pugno. «E quel diametro critico, quel punto oltre il quale non c’è più ritorno, è chiamato raggio di Schwarzschild.» Travers fece una pausa, aspettando che dicessi qualcosa.

Era una settimana che mi veniva a trovare tutti i giorni; si metteva a sedere rigido su una delle mie sedie, un po’ a disagio in camìcia e cravatta a cui non era abituato, e mi parlava di buchi neri e relatività, anche se, prima di andare in pensione, all’università io insegnavo biologia, non fisica. Naturalmente qualcuno gli aveva detto che conoscevo Schwarzschild.

«Il raggio di Schwarzschild?» ripetei con la mia voce tremula da vecchio, come se non mi ricordassi nemmeno di averlo sentito mai nominare, e Travers assunse un’espressione disgustata. Avrebbe voluto che gli dicessi: «Il raggio di Schwarzschild! Ah, sì, ho prestato servizio con Karl Schwarzschild sul fronte russo nella prima guerra mondiale!». E che gli spiegassi come lui aveva formulato la sua teoria dei buchi neri mentre era nell’artiglieria, ma non avevo ancora deciso che cosa dirgli. «L’orizzonte degli eventi,» mi limitai a dire.

«Già. Gli hanno dato il nome di Schwarzschild perché fu lui a elaborare la teoria,» disse Travers, e mi fece venire in mente Muller e il suo gran parlare di teorie. Travers aveva la stessa età di Muller, gli stessi capelli biondi e ispidi e la stessa insaziabile curiosità, e forse proprio per quello gli permettevo di venirmi a trovare tutti i giorni, anche se era pericoloso farlo avvicinare così tanto.


«Ho messo a punto una teoria delle stelle,» dice Muller mentre ci scaldiamo le mani sulla stufa a olio Primus in modo che abbiano sensibilità sufficiente a tenere la valvola autoregolatrice senza far cadere il liquido. «Non sono globi di fuoco come affermano gli scienziati. Sono ghiacciate.»

«Come possiamo vederle se sono ghiacciate?» domando. Muller si offende se non discuto con lui. La discussione fa parte della teoria.

«Guarda la trasmittente!» dice, indicando l’apparecchio sventrato che giace sul tavolo. Ne vediamo la parte posteriore, e sul tubo di vetro della valvola si nota il riflesso rossastro della fiamma della stufa. «La luce è il riflesso sul ghiaccio della stella.»

«Un riflesso di che cosa?»

«Dei proiettili, naturalmente.»

Non gli dico che le stelle esistevano ancor prima che ci fosse questa guerra, perché Muller non saprebbe che cosa rispondere, e non ho nessuna voglia di distruggere la sua teoria; e poi non sono del tutto certo che ci sia stato un tempo in cui questa guerra non esisteva. Le bombe a stella sono sempre esplose sui crateri innevati della Terra di Nessuno, frantumandosi in una nebbiolina biancorossa, e forse la teoria di Muller è esatta.


«A questo punto,» disse Travers, «allo stato attuale, nessuna informazione può più essere trasmessa al di fuori del buco nero, perché la gravità è diventata molto forte, e così il collasso della stella appare ghiacciato al raggio di Schwarzschild.»

«Ghiacciato,» ripetei, pensando a Muller.

«Proprio così. Infatti i russi chiamano i buchi neri “stelle ghiacciate”. Lei è stato sul fronte russo, vero?»

«Che cosa?»

«Nella prima guerra mondiale.»

«Ma la stella non si ghiaccia realmente,» affermai. «Continua a collassare.»

«Già, è così,» rispose Travers. «Continua a col lassare su se stessa fino a quando gli stessi atomi vengono privati dei loro elettroni e non resta niente a parte ciò che chiamano una nuda singolarità, ma noi non possiamo vedere oltre il raggio di Schwarzschild. e nessuno all’interno di un buco nero ci può dire cosa succede là dentro perché non può inviare messaggi, e così nessuno può sapere quello che avviene all’interno di un buco nero.»

«Lo so,» dissi, ma lui non mi sentì.

Si chinò in avanti. «Com’era al fronte?»


Fa così freddo che possiamo lavorare alla trasmittente solo pochi minuti per volta prima che le nostre mani si irrigidiscano e diventino insensibili, e abbiamo paura di far cadere il liquido dalla valvola. Muller avvicina i guanti alla stufa a olio e poi li indossa. Io sprofondo le mani nelle tasche irrigidite dal ghiaccio.

Stiamo aggiustando l’apparecchio radiotrasmittente. Eisner, che consegnava i messaggi ai diversi settori, è andato a finire al fronte quando non è più riuscito a far funzionare la sua motocicletta. Se non riusciamo a sistemare la trasmittente, non saremo più dei radiotelegrafisti e diventeremo soldati, e ci sbatteranno al fronte.

Ci siamo già molto vicini. Se non nevicasse potremmo vedere il filo spinato e la neve butterata della Terra di Nessuno, e i grossi secchi di carbone che i russi qualche volta calano nelle trincee di collegamento. Un proiettile ha colpito la nostra baracca due settimane fa. Ci troviamo davanti alle linee della nostra artiglieria, e ogni tanto ci piove addosso anche qualche proiettile dei nostri cannoni, perché i fusti sono consumati. Ma non siamo al fronte, e proteggiamo la valvola autoregolatrice a costo della nostra vita.

«Ieri sera hanno inviato l’unità di Eisner a posare del filo spinato,» dice Muller, «e non sono ancora tornati. Ho una teoria su quello che gli è successo.»

«È arrivata la posta?» chiedo, strofinandomi gli occhi doloranti e tornando subito dopo a infilarmi le mani in tasca. Devo procurarmi dei guanti nuovi, ma per il momento il furiere non ne ha a disposizione. Ho scritto tre volte a mia madre perché me ne lavori un paio a maglia, ma ancora non me li ha fatti avere.

«Ho una teoria sull’unità di Eisner,» insiste cocciuto. «I russi hanno un magnete che li ha attirati tutti verso il fronte.»

«I magneti attirano il ferro, non le persone,» dico.

Ho una teoria sulle teorie di Muller. Le trincee di collegamento sono piene di oggetti che gli uomini diretti al fronte hanno gettato via: borracce d’acqua, zaini e baionette. Qualche volta Hans e io ci siamo domandati come mai si fossero liberati di oggetti così importanti.

«Forse erano troppo carichi,» dicevo io, anche se questo non spiegava la presenza di stivali e baionette.

«Forse sapevano che stavano per morire,» diceva Hans mentre raccoglieva un elmetto.

Io cercavo di tirarlo su di morale. «Ieri, quando sono andato dal furiere, mi sono cascati i guanti dalla tasca. Non sono più riuscito a trovarli. Devono essere da qualche parte, dentro questa trincea.»

«Sì,» diceva lui, rigirando l’elmetto fra le mani. «Forse mentre ci si avvicina al fronte, queste cose gli sono semplicemente cadute giù.»

La mia teoria è che ciò che accade alle borracce d’acqua e agli elmetti e alle baionette è la stessa cosa che è successa a Muller. Prima della guerra era studente universitario, ma la sua conoscenza scientifica e la sua intelligenza gli sono cadute di dosso, e adesso che siamo così vicini al fronte gli sono rimaste solo le sue teorie. E la sua curiosità, che è una cosa pericolosa da conservare.

«Esattamente. I magneti attirano il ferro, e infatti loro stavano trasportando del filo spinato!» afferma trionfante. «E così sono stati attratti dal magnete.»

Appoggio le mani praticamente sopra la stufa e le strofino, cercando di sciogliere l’intorpidimento. «Sarà meglio che rimettiamo la valvola nella trasmittente, altrimenti questo tuo magnete risucchierà anche quella verso il fronte.»

Torno alla trasmittente. Muller rimane accanto alla stufa, riflettendo sul suo magnete. La porta si apre con un rumore secco. Non è una porta vera e propria, solo una lastra metallica fissata al trave che sostiene la trincea, e bloccata da un cuneo, e quando qualcuno ci si appoggia cade all’interno, portandosi appresso la neve.

La neve turbina dentro, e anche la luce, e il rumore che proviene dal fronte, un rombo soffocato come un abbaiare di cani. Mi stringo al petto la valvola e Muller si lancia sulla trasmittente come se fosse un compagno ferito. Qualcuno imbacuccato in un cappottone di lana, con i mezzi guanti e il berretto di lana tirato fin sulle orecchie, si staglia contro la luce rossastra sulla soglia, ammiccando verso di noi.

«È qui il soldato semplice Rottschieben? Devo controllare i suoi occhi,» dice, e mi accorgo che è il dottor Funkenheld.

«Entri e chiuda la porta,» dico, sempre proteggendo accuratamente la valvola, ma Muller ha già incastrato la lastra contro il trave.

«Ha notizie?» chiede Muller al dottore, ansioso di conoscere nuovi fatti dai quali poter elaborare le sue teorie. «La pattuglia che doveva mettere il filo spinato è tornata indietro? Ci sarà un bombardamento stanotte?»

Il dottor Funkenheld si toglie i mezzi guanti. «Devo esaminare i tuoi occhi,» dice rivolto a me. La sua voce mi spaventa. Per tutto il corso della guerra ha sempre conservato la sua tranquilla voce da capezzale, rivolgendosi ai feriti nel posto di medicazione o nelle postazioni dei barellieri come se si trovasse nella sua clinica di Stoccarda, ma adesso sembra agitato, e io temo che sia imminente un bombardamento e che ci sia bisogno di me al fronte.

Quando sono andato in infermeria a farmi dare un farmaco per gli occhi, gli ho detto stupidamente che avevo studiato medicina a Jena con il dottor Zuschauer. Adesso ho paura che mi chiederà di assisterlo, il che significa dover andare al fronte. «Ti fanno ancora male gli occhi?» mi domanda.

Passo la valvola a Muller e mi sposto verso la lanterna che pende da un chiodo nel trave.

«Penso che dovrebbe essere rimandato a casa come invalido, Herr Doktor,» dice Muller. Naturalmente sa che è impossibile. Era alla trasmittente il giorno in cui ci venne comunicato che nessuno poteva essere rimandato a casa per sintomi da assideramento o “altre malattie non contagiose”.

«Può procurarmi una luce migliore?» gli chiede il dottore.

La curiosità di Muller è così forte che non sopporta l’idea di lasciare un luogo in cui si svolga qualcosa di interessante. Se andasse al fronte non credo che sarebbe capace di tornare indietro, e adesso mi aspetto che si inventi qualche scusa per restare, ma ho dimenticato che è ancora più incuriosito dal lavoro di posa del filo spinato. «Vado a vedere che cosa è successo all’unità di Eisner,» dice, e apre la porta. La neve svolazza dentro, come se fosse rimasta in attesa fuori pronta a entrare, e il dottore e io dobbiamo appoggiarci contro la porta per richiuderla.

«Gli occhi continuano a farmi male,» dico mentre stiamo ancora sospingendo la grossa lastra metallica, in modo che non mi chieda di fargli da assistente. «È come se ci fosse entrata della sabbia.»

«Ho un paziente con una malattia che non riesco a diagnosticare,» mi dice. Sono sollevato, anche se le malattie possono ucciderci con la stessa facilità di un mortaio da trincea. Ogni giorno, all’infermeria, i soldati muoiono di polmonite e di dissenteria e di avvelenamento del sangue, ma noi non ne abbiamo paura come l’abbiamo del fronte.

«Il paziente ha febbre, escoriazioni e bolle in suppurazione,» continua il dottor Funkenheld.

«Non potrebbero essere foruncoli?» azzardo, anche se naturalmente lui è perfettamente in grado di riconoscere una cosa semplice come i foruncoli, ma non mi sta ascoltando, e mi rendo conto che non è venuto da me per avere una diagnosi.

«L’uomo è uno scienziato, un ebreo di nome Schwarzschild in forza all’artiglieria,» dice, e poiché l’artiglieria è ancora più lontana dal fronte rispetto a noi, mi offro volontario per andare a vedere il paziente, ma non è nemmeno questo che vuole.

«Devo mettermi in contatto con il quartier generale medico, a Bialystok.» dice.

«La trasmittente è rotta,» dico, perché non voglio rivelargli per quale motivo mi sia impossibile trasmettere un messaggio per lui. Siamo autorizzati a inviare solo messaggi militari, e devono essere in codice telegrafico. Ci vorrebbero delle ore per mandare il suo messaggio, anche se t’osse possibile. Gli mostro il cavo troncato. «In ogni caso deve avere l’autorizzazione dal comandante,» aggiungo, ma lui sta già scrivendo il nome e l’indirizzo su un foglio di carta, come se questo fosse un ufficio telegrafico.

«Può trasmettere il messaggio quando la trasmittente sarà aggiustata. Ho scritto i sintomi.»

Rimonto la parte posteriore dell’apparecchio. In quel momento arriva Muller, che apre con un calcio la porta, e la neve irrompe turbinando, e facendo svolazzare il biglietto del dottor Funkenheld per tutta la trincea. Lo afferro prima che scenda a spirale verso la stufa.

«L’unità per la posa del filo spinato è stata tenuta inchiodata tutta la notte,» dice Muller mettendo sul tavolo una lampada portatile. Deve essersela procurata in infermeria. «Cinque di loro sono morti congelati, gli altri otto hanno tutti sintomi da assideramento. Il comandante pensa che forse stanotte ci sarà un bombardamento.» Non parla di Eisner, e non dice che cosa sia successo al resto dei trenta uomini che componevano la sua unità, ma io lo so. Se li è presi il fronte. Aspetto, stringendo il messaggio fra le dita intorpidite, e sperando che il dottor Funkenheld dirà: «Devo andare a occuparmi di quei soldati.»

«Fammi esaminare i tuoi occhi,» dice il dottore, e mostra a Muller come deve tenere la lampada. Entrambi mi scrutano gli occhi. «Ho una pomata che dovrai usare due volte al giorno,» dice, tirando fuori dalla borsa un flaconcino piatto. «Brucerà un poco.»

«Allora me lo sfrego sulle mani. Me le scalderà,» dico, pensando a Eisner congelato al fronte, forse con ancora il filo spinato fra le mani.

Mi tira giù la palpebra inferiore e ci sfrega sopra la pomata con il mignolo. Non brucia, ma dopo aver aperto e richiuso l’occhio tutto si colora di una tinta rossastra. «Ce la fate ad aggiustare la trasmittente per domani?» chiede.

«Non so. Forse.»

Muller non ha messo giù la lampada. Alla sua luce, vedo che si è completamente dimenticato dell’unità per la posa del filo spinato e del magnete russo, e si sta chiedendo invece cosa voglia farci il dottore con la trasmittente.

Il dottore si rimette i mezzi guanti e prende la borsa. Mi rendo conto troppo tardi che avrei dovuto proporgli di spedire il messaggio in cambio dei suoi guanti. «Verrò a controllarti gli occhi domani,» dice, e apre la porta facendo entrare la neve. Il suono del fronte è vicino.

Appena se ne è andato, riferisco a Muller di Schwarzschild e del messaggio che il dottore vuole spedire. Non mi lascerà in pace finché non gliel’avrò detto, e non c’è tempo da perdere per la sua curiosità. Dobbiamo aggiustare la trasmittente.


«Se lei era alla trasmittente, avrà dovuto mandare qualche messaggio a Schwarzschild,» disse Travers ansioso. «Ha mai inviato messaggi a Einstein? Hanno la lettera che Einstein gli scrisse dopo che lui ebbe esposto la teoria, ma se Schwarzschild gli avesse inviato qualche messaggio, sarebbe grandioso. Mi risolverebbe il lavoro.»

«Lei ha detto che nessun messaggio può uscire da un buco nero?» dissi. «Ma può farlo da una stella che collassa. Non è così?»

«Va bene,» disse Travers spazientito, e curvò di nuovo le dita a semicerchio. «Supponga di avere un osservatore fisso qua.» Allontanò la mano incurvata e tenne alto l’indice dell’altra a rappresentare l’osservatore fisso. «E c’è qualcuno nella stella. Diciamo che quando la stella inizia a collassare, la persona al suo interno emette un raggio luce in direzione dell’osservatore fisso. Se la stella non ha raggiunto il raggio di Schwarzschild, l’osservatore fisso potrà vedere la luce, ma ci vorrà più tempo perché questa lo raggiunga, dato che la gravità del buco nero sta attirando la luce al suo interno, dunque sembrerà che il tempo all’interno della stella scorra più lentamente, e le lunghezze d’onda saranno state allungate, per cui la luce sarà più rossa. Naturalmente questo è solo un problema ipotetico. Nessuno potrebbe mai trovarsi in una stella che collassa per inviare i messaggi.»

«Abbiamo spedito dei messaggi,» dissi. «Ho scritto a mia madre per chiederle di lavorarmi a maglia un paio di guanti.»


Ci sono ancora problemi con la trasmittente. Abbiamo ricevuto un solo messaggio in due settimane. Diceva: «La resistenza russa sta cedendo,» e c’era così tanta elettricità statica che non abbiamo capito il resto. Abbiamo smontato due volte la trasmittente, pezzo per pezzo. La prima volta abbiamo trovato un cavo staccato, ma la seconda niente. Se ci fosse Hans, troverebbe subito il problema.

«Ho una teoria sulla trasmittente,» dice Muller. Ha elaborato dieci teorie in altrettanti giorni: il magnete dei russi sta risucchiando i nostri segnali nella sua direzione; le luci settentrionali, che si sono spostate inquiete all’orizzonte, creano una cortina che blocca i segnali della trasmittente; la resistenza russa non sta cedendo affatto. Ci stanno attirando sempre più in una trappola.

Dico: «Ci provo ancora. Forse il problema si è risolto,» e mi metto le cuffie in modo da non dover ascoltare la sua nuova teoria. Riesco solo a sentire un ruggito assordante che mi sembra proprio il rumore del fronte.

Tiro fuori il foglio di carta piegato che mi ha dato il dottor Funkenheld e lo appoggio sulla trasmittente. Viene quasi tutte le sere a vedere se ho ricevuto risposte al suo messaggio, e io mi tolgo le cuffie e gli faccio ascoltare l’elettricità statica. Gli dico che non possiamo collegarci, e benché questo sia è vero non è il motivo reale per cui non ho spedito il messaggio. Ho paura che lo scopra il comandante. Ho paura che mi mandino al fronte.

Ho raggiunto un compromesso scrivendo una lettera al professore con cui ho studiato medicina a Jena, ma ancora non mi ha risposto, quindi devo continuare a fingere col dottore.

«Non ce n’è bisogno,» dice Muller. Si siede sulla trasmittente, con una gamba penzoloni. Prende il foglietto con i sintomi scritti sopra e lo avvicina alla fiamma della stufa. Tento di afferrarla ma ha già preso fuoco. «L’ho inviato io per te.»

«Non ci credo. Non è mai uscito nulla da qua dentro.»

«Non hai notato che le luci settentrionali non sono apparse ieri sera?»

Non l’avevo notato. La pomata che mi ha dato il dottore mi fa vedere tutto rosso di notte, e non credo alle teorie di Muller. «E non esce niente in questo momento,» dico, e gli passo le cuffie per fargli sentire il rumore delle scariche elettriche. Ascolta, ancora dondolando la gamba. «Ci inguaierai tutti e due, perché l’hai fatto?»

«Ero curioso.» Se ci mandano al fronte, la sua curiosità ci farà ammazzare. Smonterebbe una mina per vedere come funziona. «Non possiamo cacciarci nei guai finché si tratta di messaggi militari. Ho detto che il comandante aveva paura che i russi stessero usando un gas velenoso.» Continua a oscillare la gamba e sogghigna perché adesso sono io quello curioso.

«E allora, ti hanno dato una risposta?»

«Sì,» dice con tono esasperante, e si mette le cuffie. «Non è un gas velenoso.»

Alzo le spalle come se non mi importi nulla di ricevere una risposta. Mi metto il berretto e la sciarpa che mi ha lavorato mia madre e apro la porta. «Vado a vedere se è arrivata posta. Forse c’è una lettera del mio professore.»

«Natura della malattia sconosciuta,» urla Muller contro la violenza improvvisa della neve. «Forse impetigine o scompenso ghiandolare.»

Gli restituisco una sorriso fiacco e dico: «Se c’è un pacco da parte di mia madre, ti regalo metà di quello che c’è dentro.»

«Anche se ci fossero i guanti?»

«No, i guanti no,» rispondo, e vado a cercare il dottore.

Al posto di medicazione mi dicono che è andato a visitare Schwarzschild e mi indirizzano verso il quartier generale del corpo d’artiglieria. Non è tanto lontano, ma nevica e le mie mani sono già ghiacciate. Vado dal furiere e gli chiedo se è arrivata posta.

C’è una nuova recluta, che tenta di aggiustare la motocicletta di Eisner. Tutti i pezzi sono in terra, sparsi in cerchio intorno a lui. Indica un sacco di tela e dice: «È tutta la posta che c’è. Sfogliatela da solo.»

Della neve è entrata nel sacco e si è sciolta. L’inchiostro sulle buste si è stinto; le osservo da vicino, cercando di leggerne i nomi. Mi cominciano a far male gli occhi. Non c’è un pacco di mia madre o una lettera del mio professore, ma c’è una lettera per il luogotenente Schwarzschild. Il mittente è un “dottore.” Forse ha scritto lui stesso a un dottore.

«Porto un messaggio al quartier generale dell’artiglieria,» dico, mostrando la lettera alla recluta. «Consegno anche questa.» La recluta annuisce e continua a lavorare.

Nel frattempo si è fatto scuro, e nevica più fitto. Affondo le mani nelle tasche congelate della giacca e mi dirigo verso il quartier generale dell’artiglieria uscendo dalla parte posteriore. È buio pesto nelle trincee di comunicazione e il vento fa roteare la neve incanalandola ululante dentro di esse. Mi tolgo la sciarpa e me l’avvolgo attorno alle mani come un manicotto da donna.

Una striscia di rosso si muove inquieta all’orizzonte, ma non so se sia il fronte o le luci settentrionali di Muller, e non ci sono esplosioni che mi possano guidare. Siamo a corto di proiettili, per cui di solito non apriamo il fuoco prima delle nove. I russi cominciano ancora più tardi. A volte sento il suono delle mitragliatrici che fanno fuoco, ma viene distorto dalla neve e dal vento, e non potrei dire da che parte proviene.

Per quello che mi ricordo, la trincea di comunicazione sembra più stretta e profonda di quando io e Hans portammo su la trasmittente per la prima volta. Ci impiego molto più del previsto per giungere alla ramificazione che mi condurrà a nord verso il quartier generale. Il fronte si è andato ritirando, i depositi di munizioni, gli alloggi e gli ospedali di smistamento si sono avvicinati sempre più dietro a noi. Il quartier generale dell’artiglieria è stato spostato dal villaggio in superficie a un rifugio sotterraneo vicino alla linea dell’artiglieria, nemmeno un chilometro alle nostre spalle. Sta per cominciare il fuoco notturno. Sento un brontolio basso, come un tuono.

Sembra che il ruggito sia davanti a me, mi fermo e mi guardo intorno, chiedendomi se per caso non mi sia girato su me stesso, benché non abbia abbandonato le trincee. Riparto di nuovo, e quasi subito vedo la ramificazione e il quartier generale.

Non c’è porta, solo una coperta che chiude l’entrata, tolgo le mani dal manicotto e mi piego per infilarmi dentro a un buco piccolo come una tana di lepre, con il soffitto di terra sorretto da travi così basse che devo stare sempre curvo. Ora che sono uscito dal ruggito della neve, il suono del fronte si scinde nello scoppio singolo di un pezzo da quattro, il lamento di una granata illuminante, e al di sotto il crepitio quasi ininterrotto delle mitragliatrici. Le trincee devono essere meno profonde qui. Io e Muller non riusciamo quasi a sentire il fronte dalla baracca della trasmittente.

C’è un uomo seduto a un tavolo sghembo sul quale sono sparsi libri e fogli di carta. Sul tavolo c’è una candela con un tubo di vetro rosso, o forse solo a me sembra tale. Qualunque cosa nel rifugio, anche l’uomo, mi sembra vagamente rossa. Indossa un’uniforme senza giacca e guanti con le dita tagliate, ma non c’è nessuna stufa. Mi si sono già congelate le mani.

Un mortaio da trincea ruggisce, e zolle di terra ghiacciata si staccano dal soffitto franando sul tavolo a ciottoli. L’uomo spazza via la terra dalle carte e alza lo sguardo.

«Cerco il dottor Funkenheld,» dico.

«Non c’è.» Si alza in piedi e gira intorno al tavolo, con movimenti rigidi, come un vecchio, sebbene non sembri aver superato i quaranta. Porta i baffi, e la sua faccia mi sembra sporca nella luce rossa.

«Ho un messaggio da consegnargli.»

Ruggisce un pezzo da otto, e ci cade addosso altra terra. L’uomo alza il braccio per togliersi la terra dalla spalla. La manica dell’uniforme è stata fatta a brandelli. Tutto il dorso della mano che ha sollevato e il lato del braccio sono ricoperti di piaghe rosse piene di pus. Lo osservo di nuovo in faccia. Le piaghe sui baffi e intorno al naso e la bocca si sono seccate e hanno fatto la crosta. Escoriazioni. Bolle in suppurazione. Il cannone ruggisce di nuovo e altra terra gli cade sulle mani spellate.

«Ho un messaggio da consegnargli,» ripeto, ritraendomi. Infilo la mano nella tasca della giacca per fargli vedere il messaggio, e invece ne viene fuori la lettera. «C’era una lettera per lei, tenente Schwarzschild.» Gliela passo tenendola per un angolo in modo che non mi tocchi quando la prende.

Mi si avvicina per prendere la lettera, contraendo i muscoli della mascella, e penso con orrore che deve avere delle piaghe anche sulle gambe. «Chi è il mittente?» dice. «Ah, Herr professor Einstein. Bene,» e la gira. Mette le dita sul lembo per aprirla e urla di dolore. La lettera gli cade in terra.

«Me la leggerebbe lei?» chiede, e crolla sulla sedia, appoggiando la testa contro il petto. Vedo che anche le unghie sono piagate.

Le mie mani non sentono più nulla. Prendo la busta dagli angoli e la giro. Un po’ di pelle del suo dito è rimasta attaccata al lembo. Mi allontano dal tavolo. «Devo trovare il dottore, è un’emergenza.»

«Non lo troverebbe,» dice. Il sangue gli gocciola dalla punta del dito scendendo giù fino alla piega sull’unghia. «È andato al fronte.»

«Che?» domando, continuando ad arretrare finché arrivo alla coperta. «Non la capisco.»

«È andato al fronte,» mi spiega, più lentamente, e stavolta riesco a decifrare le parole, ma non hanno senso. Come fa il dottore a stare al fronte? È questo il fronte.

Spinge la candela dalla mia parte. «Le ordino di leggermi la lettera.»

Non sento più niente nelle dita. Apro la busta da un lato, quasi strappando la lettera in due. È una lettera lunga, piena di equazioni e cifre, ma le parole sono deformate e si leggono a fatica. «“Mio stimato collega! Ho letto la sua dissertazione con estremo interesse. Non mi aspettavo che si potesse formulare la soluzione esatta del problema in modo così semplice. La trattazione analitica del problema mi sembra splendida. Giovedì prossimo presenterò il lavoro all’Accademia con diversi interventi chiarificatori!”»

«Formulata in modo così semplice,» dice Schwarzschild, come se stesse soffrendo. «Basta così. Metta giù la lettera. Finisco di leggerla da solo.»

Appoggio la lettera sul tavolo davanti a lui, e un attimo dopo sono giù in trincea che corro nel buio con il suono del fronte che mi circonda, un ruggito che scuote la terra. Alla prima curva, Muller mi afferra un braccio e mi blocca. «Che ci fai qui?» grido. «Torna indietro! Indietro!»

«Indietro?» dice. «Il fronte è da quella parte.» Indica la direzione da cui è venuto. Ma il fronte non è da quella parte. È dietro di me, nel quartier generale dell’artiglieria. «Ti avevo detto che ci sarebbe stato un bombardamento stanotte. Hai visto il dottore? Gli hai dato il messaggio? Che ha detto?»


«Dunque lei ha davvero tenuto in mano la lettera di Einstein?» chiese Travers. «Dev’essere stato eccitante! Solo due mesi dopo Einstein rese pubblica la sua teoria della relatività generale. E anni prima che ci si rendesse conto dell’esistenza dei buchi neri. Quando è stato esattamente?» Tirò fuori un quadernetto e iniziò a scribacchiarci sopra degli appunti. «Mio stimato collega…» borbottò fra sé e sé. «Formulata in modo così semplice. Questa roba è grande. Cioè, sono stato mesi e mesi alla ricerca di materiale su Schwarzschild per il mio saggio, ma praticamente non c’è niente su di lui. Immagino a causa della guerra.»

«Nessuna informazione esce da un buco nero una volta oltrepassato il raggio di Schwarzschild,» dissi.

«Ehi, forte!» esclamò, scarabocchiando di nuovo. «Posso utilizzarlo nella mia ricerca?»


Adesso sono io quello che siede ininterrottamente davanti alla trasmittente a spedire messaggi alla Croce Rossa, al mio professore a Jena, al dottor Einstein. Mi si sono congelati l’indice e il pollice della mano destra e devo battere sui tasti con la sinistra. Ma non parte niente, e io devo assolutamente riuscirci. È necessario che qualcuno mi dica il nome della malattia di Schwarzschild.

«Ho una teoria,» dice Muller. «Gli ebrei hanno preso il potere e hanno firmato un trattato coi russi. Siamo totalmente tagliati fuori.»

«Vado a vedere se c’è posta,» dico, in modo da non dover più ascoltare altre sue teorie, ma il dottore mi ferma mentre sto uscendo dal rifugio.

Gli riferisco il messaggio. «Impetigine!» urla il dottore. «L’hai visto! Ti sembrava impetigine?»

Scuoto la testa, dato che è impossibile dirgli ciò che mi sembrava.

«Che sintomi presenta?» chiede Muller, ardente di curiosità. Non gli ho parlato di Schwarzschild. Ho paura che se gliene parlassi diventerebbe solo più curioso e insisterebbe per andare al fronte a vederlo di persona.

«Fammi dare una controllata ai tuoi occhi,» dice il dottore nella sua bella voce rassicurante. Vorrei tanto che chiedesse a Muller di andare a prendere un’altra lampada per potergli domandare come sta Schwarzschild, ma si è portato una candela. Me la tiene così vicina al viso che riesco a vedere solo la fiamma rossa.

«È peggiorato il tenente Schwarzschild? Che sintomi presenta?» chiede Muller, piegandosi in avanti.

I sintomi sono crateri di proiettili, penso. Mi pento di non averne fatto parola con Muller perché adesso è solo più incuriosito di prima. Fino a ora gli ho detto tutto, anche come è morto Hans quando hanno colpito la baracca della trasmittente, come ha appoggiato delicatamente la valvola autoregolatrice sopra la trasmittente prima di provare a espellere tossendo quello che gli rimaneva del petto e prenderlo con le mani. Ma questo non glielo posso dire.

«Quali sono i suoi sintomi?» insiste Muller, con il naso quasi sulla fiamma, ma il dottore gli volta le spalle come se non lo sentisse e spegne la candela. Il dottore toglie la fasciatura e mi dà un’occhiata alle dita. Sono gonfie e rosse. Muller fa capolino da dietro le spalle del dottore. «Ho una teoria sulla malattia del tenente Schwarzschild,» dice.

«Sta’ zitto,» dico. «Ne ho abbastanza delle tue stupide teorie,» e non mi importa nemmeno del suo sguardo offeso e di come se ne torni a sedere vicino alla trasmittente. Perché adesso ce l’ho io una teoria, ed è molto più terribile di qualunque cosa Muller possa immaginarsi.

Tutti noi, Muller e la recluta che tenta di rimettere insieme la motocicletta di Eisner e forse anche il dottore con la voce pacata da capezzale, abbiamo paura del fronte. Ma questa paura non è completa, perché al suo interno giace inespressa la convinzione che il fronte sia qualcosa di separato da noi stessi, qualcosa dal quale ci si può tenere a distanza occupandosi della trasmittente o aggiustando la motocicletta, qualcosa cui possiamo sopravvivere schiacciando il volto nella terra ghiacciata, e anche qualcosa da cui possiamo fuggire facendoci riformare.

Ma il fronte non è separato. È dentro Schwarzschild, e i sintomi che ho comunicato quando ho spedito il messaggio all’esterno, escoriazioni e bolle in suppurazione, non sono proprio il suo problema principale. Le lesioni sulla pelle sono solo il filo spinato e le trincee di collegamento e i crateri da proiettili di un fronte che sta da qualche parte dentro di lui.

Il dottore mi applica una nuova fasciatura di garza sulla mano. «Ho provato a far riformare Schwarzschild,» dice, e Muller lo osserva, sbalordito. «Le linee di rifornimento sono bloccate dalla neve.»

«Schwarzschild non può essere riformato,» dico. «Il fronte è dentro di lui.»

Il dottore rimette a posto il rotolo di garza e chiude la borsa. «Quando la strada verrà sgombrata, ti faccio riformare per sintomi da assideramento. Anche Muller.»

Muller è tanto sorpreso che si lascia sfuggire: «Non ho sintomi da assideramento.»

Ma il dottore non ascolta più. «Dovete fuggire entrambi,» dice, e non sono nemmeno sicuro che si stia ascoltando mentre lo dice, «finché potete.»

«Ho una teoria sul perché non mi hai parlato dei problemi di Schwarzschild,» dice Muller appena il dottore se ne è andato.

«Vado a prendere la posta.»

«Non ce ne sarà,» mi urla dietro Muller. «Le linee di rifornimento sono bloccate.» E invece c’è posta, sparpagliata fra i pezzi della motocicletta. Ne mancano solo pochi. Appena la strada verrà liberata, la recluta potrà montare in sella e andarsene.

Raccolgo le lettere e le porto alla luce della lanterna per leggerle, ma i miei occhi sono messi proprio male, non vedo altro che macchie rosse. «Le porto alla baracca della trasmittente,» dico, e la recluta annuisce senza nemmeno girarsi.

Comincia a nevicare. Muller mi intercetta sulla porta ma io entro passandogli accanto e alzo al massimo la fiamma della stufa, tenendoci le lettere dietro.

«Te le leggo io,» dice Muller curioso, frugando tra le buste che ho scartato. «Guarda qua, c’è una lettera di tua madre. Forse ti ha mandato i guanti.»

Osservo minutamente le lettere una per una mentre lui apre per me quella di mia madre. Sebbene le tenga cosi vicine alla fiamma che la carta si comincia a bruciacchiare, non riesco a distinguerne i nomi.

«“Caro figlio,”» legge Muller, «“non ho tue notizie da tre mesi. Ti hanno ferito? Stai male? Ti serve niente?”»

L’ultima lettera è da parte del professor Zuschauer a Jena. Riesco a leggerne il nome abbastanza chiaramente nell’angolo della busta, ma il mio è solo una macchia illeggibile. La apro. Non c’è scritto niente sulla carta rossa.

La passo a Muller. «Leggimela,» dico.

«Non ho ancora finito quella di tua madre,» dice Muller, ma poi prende la lettera e la legge: «“Caro Herr Rottschieben, ho ricevuto la sua lettera ieri. Quasi non riuscivo a capire la sua scrittura. Non avete penne decenti al fronte? La malattia di cui mi parla si chiama malattia di Neumann o pemfigo…”»

Gli strappo via la lettera dalle mani e corro verso la porta. «Fammi venire con te!» strilla Muller.

«Devi rimanere a controllare la trasmittente!» rispondo euforico, correndo poi lungo la trincea di comunicazione. Schwarzschild non ha il fronte dentro. Ha il pemfigo, ha la malattia di Neumann, e ora lo si può riformare e mandare a casa, in ospedale.

Cado e penso di essere inciampato su un elmetto o una scatoletta di carne gettati via, ma c’è un crollo, e terra e materiale di rinforzo mi cadono tutto attorno. Sento il ronzio basso di una bomba antiuomo e mi appiattisco nella trincea, ma il ronzio non si trasforma in lamento. Si interrompe, c’è un altro crollo e la trincea mi frana addosso.

Mi arrampico mani e piedi fuori dalla trincea prima che mi soffochi e striscio lungo il bordo verso il rifugio sotterraneo di Schwarzschild, ma la trincea è franata in tutta la sua lunghezza e quando emergo al di sopra della terra crollata, mi smarrisco nel turbinio della neve.

Non saprei dire da che parte è il fronte, ma sento che è molto vicino. Il rumore mi giunge da tutte le direzioni, un ruggito assordante nel quale non si distingue alcun singolo suono. La neve è tanto fitta che non riesco nemmeno a vedere le vampate di fuoco dei cannoni quando sparano, e non c’è tratto dell’orizzonte che sembri più rosso dell’altro. È tutto rosso, anche la neve.

Striscio in direzione di ciò che suppongo sia la trincea, ma appena lo faccio mi trovo nel filo spinato. Mi fermo, col fiatone, faccia e mani immerse nella neve. Sono dalla parte sbagliata. Sono al fronte. Distinguo un suono all’interno della confusione generale, un rumore di copertoni sulla neve, e penso che sia un carro armato e proprio non ce la faccio a respirare. Il rumore si fa più vicino, ma riesco ad alzare gli occhi e vedo la recluta che lavorava in fureria.

È molto lontano, al di là di un filo spinato tutto attorcigliato, ma lo distinguo abbastanza chiaramente a dispetto della neve. Ha aggiustato la motocicletta, e mentre lo sto a guardare vi si lancia a cavalcioni e preme sull’acceleratore. «Vai!» urlo. «Vattene via!» La motocicletta fa un salto in avanti. «Vai!»

La moto si dirige verso di me, in piena accelerazione. Si impenna, e penso che stia per saltare sopra il filo spinato, e invece crolla in terra, prima il veicolo e poi la recluta che rotolano lentamente fino a incastrarsi negli spuntoni di ferro. La terra trema e cado anch’io.

Sono finito nel rifugio di Schwarzschild. Metà è franato, con le travi di legno che spuntano ormai a pezzi dal mucchio di terra e neve, ma la coperta è ancora sulla porta, e Schwarzschild se ne sta appoggiato a una sedia. Il dottore è piegato su di lui. Schwarzschild si è tolto la camicia. Sembra che al petto gli sia accaduto la stessa cosa successa ad Hans.

Il fronte ruggisce e crolla un’altra parte del soffitto. «È tutto a posto! È una malattia!» urlo cercando di farmi sentire. «Le ho portato una lettera per dimostrarglielo,» e gli passo la lettera che ho tenuta stretta nella mia mano insensibile.

Il dottore afferra la lettera. La neve entra vorticosa attraverso il tetto distrutto, ma Schwarzschild non si rimette la camicia. Rimane a osservare, apatico, mentre il dottore legge.

«“I sintomi di cui mi parla sono quasi sicuramente quelli della malattia di Neumann o pemfigo comune. Ho avuto in cura due pazienti con questa malattia, entrambi ebrei. È una malattia delle membrane mucose e non è contagiosa. Le cause sono sconosciute. Conduce sempre alla morte.”» Il dottor Funkenheld appallottola la carta. «Si è fatto tutta questa strada in mezzo a un bombardamento per dirmi che non c’è speranza?» grida con una voce che non riconosco nemmeno, tanto è differente dal suo pacato tono da dottore. «Avrebbe dovuto tentare di fuggire. Avrebbe…» e sparisce sotto una frana di terra e schegge di legno.

Mi faccio strada verso Schwarzschild nel maelstrom di polvere rossa e neve. «Si rimetta la camicia!» gli urlo. «Dobbiamo andarcene!» Striscio verso la porta per vedere se si riesce a uscire dalla trincea di comunicazione.

Muller entra tirando via la coperta. Trasporta in mano, incredibile a credersi, la trasmittente. Dietro a lui seguono le cuffie nella neve. «Sono venuto a vedere che cosa ti era successo. Pensavo che fossi morto. Le trincee di comunicazione sono state fatte a pezzi.»

Era come temevo. La curiosità ha avuto la meglio su di lui e adesso è intrappolato anche lui, benché non sembri rendersene conto. Mette la trasmittente sul tavolo senza guardare. Tiene gli occhi su Schwarzschild, appoggiato contro ciò che rimane del muro del rifugio, con la camicia sulle mani.

«La camicia!» grido, e giro intorno al tavolo per aiutare Schwarzschild a metterla sopra i crateri da proiettili della sua pelle distrutta. Il vento urla entrando dall’imboccatura del rifugio. Afferro il braccio di Schwarzschild e la sua pelle mi rimane attaccata alle mani. Si accascia sul tavolo e la trasmittente si rovescia. Riesco a sentire il tintinnio della valvola che va in pezzi, dopodiché il rifugio crolla del tutto e ci ritroviamo sotto il tavolo. Non vedo niente.

«Muller!» strillo. «Dove sei?»

«Sono ferito,» dice.

Lo cerco nell’oscurità, ma sono incastrato sotto Schwarzschild e non riesco a muovermi. «Dove sei ferito?»

«Al braccio,» risponde, e sento che prova a muoverlo. Lo spostamento rimuove altra terra che ci cade intorno, escludendo ogni suono proveniente dal fronte. Sento lo scricchiolio delle gambe del tavolo che stanno per spezzarsi.

«Schwarzschild?» dico. Non risponde, ma so che è ancora vivo. Il suo corpo scotta come la stufa. La mia mano è sotto di lui e provo a spostarla, inutilmente. La terra cade come neve, accumulandosi intorno a noi. L’oscurità si colora di rosso per un po’, poi non vedo nemmeno quella.

«Ho una teoria,» dice Muller con una voce così priva di curiosità che potrebbe essere la mia. «È la fine del mondo.»


«È stato in seguito a ciò che Schwarzschild fu congedato per malattia?» chiese Travers. «O riformato, o come dite voi tedeschi? Be’, sì, per forza, visto che è morto a marzo. Che ne è stato di Muller?»

Avevo sperato che se ne andasse via dopo avergli detto quello che era successo a Schwarzschild, ma non aveva fatto alcuna mossa per andarsene. «Muller è stato riformato con un braccio rotto. È diventato uno scienziato.»

«Come lei.» Aprì di nuovo il quadernetto. «In seguito ha più rivisto Schwarzschild?»

La domanda è insensata.

«Dopo essere usciti da lì? Prima della sua morte?»

Apparentemente ci vuole molto tempo perché le sue parole mi raggiungano. Il messaggio si piega e si distorce spostandosi verso il rosso, e quasi non riesco a distinguerlo. «No,» rispondo, benché sia una bugia.

Travers scarabocchia. «Le sono molto grato di tutto, dottor Rottschieben. Sono sempre stato incuriosito da Schwarzschild, e ora che mi ha raccontato tutta questa storia, lo sono ancora di più,» dice Travers. I messaggi in arrivo sono distorti dalla bufera gravitazionale e trasformati in qualcosa di assolutamente diverso da un discorso. «Se mi volesse aiutare, mi piacerebbe scrivere la tesi su di lui.»

Vai. Vai via. «Era una bugia,» dico. «Non ho mai conosciuto Schwarzschild. L’ho visto una volta, da lontano… come suo osservatore fisso.»

Travers alza lo sguardo dai suoi appunti con aria speranzosa, come se ancora aspettasse la mia risposta.

«Schwarzschild non è nemmeno stato mai in Russia,» dico mentendo. «Ha passato tutto l’inverno in ospedale a Göttingen. Le ho mentito. Era solo un problema ipotetico.»

Aspetta, con la matita pronta.

«Non può rimanere là!» grido. «Deve andarsene. Non c’è una distanza di sicurezza alla quale un osservatore fisso si può tenere senza venire risucchiato, e una volta dentro il raggio di Schwarzschild, non c’è via di uscita. Ma non capisce? Siamo ancora là!»

Siamo ancora là, intrappolati nelle trincee del fronte russo, mentre la stella morente si estingue, scendendo a spirale verso quel centro dove il tempo cessa di esistere, dove ogni cosa cessa di esistere a parte la nuda singolarità che in qualche modo è Schwarzschild.

Muller tenta di tirare fuori dalla terra la trasmittente con il braccio rotto per inviare un messaggio che nessuno ascolterà: «Aiuto! Aiuto!», e io mi dibatto per liberarmi le mani che, nonostante il calore di Schwarzschild, sono tanto fredde che non le sento più, e proprio al centro c’è Schwarzschild che si estingue, il buco nero dentro di lui che lo fa implodere cellula dopo cellula, trascinandolo nell’oscurità, e noi con lui.

«È una trappola!» grido a Travers dal centro, e il messaggio lotta per uscire, tornando poi indietro.

«Mi domando come abbia fatto ad arrivarci.» dice Travers, e adesso lo sento distintamente. «Voglio dire, si può immaginare di dover elaborare qualcosa come la teoria dei buchi neri nel bel mezzo di una guerra e mentre si è affetti da una malattia mortale? E ci pensi un po’, quando scoprì la teoria non aveva alcuna idea dell’esistenza dei buchi neri.»

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