«Io non ricordo chi sia costui.»
Vincitore di due premi Nebula (nel 1974 con «The Death of Dr. Island» e nel 1982 con il romanzo L’artiglio del conciliatore) e autore dell’acclamatissimo ciclo del Nuovo Sole, Gene Wolfe è indubbiamente uno tra i massimi talenti della sf odierna.
Questo romanzo breve, una storia calda e sensibile, perfetta dal punto di vista stilistico, narra di un ragazzo con strani poteri che è un reietto in mondo futuro irregimentato in un apparente utopia. Una trama che suona familiare forse, ma vedrete quali sorprese è in grado di produrre Wolfe partendo da questi triti elementi.
Little Tib sentì arrivare il treno quand’era ancora molto lontano, e a udirlo furono i suoi piedi. Uscì dai binari e si fermò su una traversina di cemento, in ascolto. Poi appoggiò un orecchio su uno di quei nastri senza fine e lasciò che la canzone dell’acciaio si facesse vicina, sempre più vicina. Soltanto quando cominciò a sentir tremare il terreno rialzò la testa e scese giù dalla scarpata fra le lunghe erbe spinose, tastando il suolo davanti a sé con il bastone.
La cima del bastone produsse uno sciacquio. Lui non poté udirlo perché il rumore del treno era diventato un ruggito tonante; ma conosceva quel contatto, l’ingannevole sensazione di resistenza che il liquido trasmetteva all’esplorazione del bastone. Si chinò a tastare il punto in cui avrebbe potuto poggiare le ginocchia e lo sentì sgombro. C’era del terricio ma niente vetri rotti. In ginocchio annusò l’acqua: sapeva di buono ed era fresca sotto le dita, così bevve piegandosi sulla superficie e succhiandola con le labbra, poi se ne spruzzò un poco sul viso e sul collo.
— Ehi! — lo chiamò una voce autoritaria. — Ehi tu, ragazzo!
Little Tib si raddrizzò e raccolse il bastone. Quella, pensò, doveva essere Sugarland. Con un fremito disse: — Lei è un poliziotto, signore?
— Io sono il sovrintendente.
Era praticamente la stessa cosa. Little Tib girò la testa perché la voce potesse vederlo in faccia. Spesso aveva immaginato di giungere in Sugarland, e di cosa sarebbe successo una volta lì; ma non era mai stato a chiedersi quel che avrebbe detto a chi l’avesse fermato. Rispose: — La mia carta di… — Tacque. Il treno stava sempre sferragliando via, non molto lontano.
Un’altra voce disse: — Adesso non spaventi quel ragazzo. — Non era autoritaria questa; aveva un tono serio e responsabile.
— Tu dovresti essere a scuola, giovanotto — lo arringò la prima voce. — Sai chi sono io?
Little Tib annuì: — Il sovrintendente.
— Proprio così, sono il sovrintendente. Sono Mr. Parker, in persona. E il tuo insegnante deve avermi già parlato di te, ne sono certo.
— Avanti, non spaventi il ragazzo — disse ancora la seconda voce. — Cosa le ha fatto di male?
— Ha marinato la scuola: è così che dicono i ragazzi fra loro. Noi non usiamo questo termine, naturalmente. Sarai stato registrato assente. Come ti chiami?
— George Tibbs.
— Capisco. Io sono Mr. Parker, il sovrintendente. Questo è il mio aiutante; il suo nome è Nitty.
— Salve — disse Little Tib.
— Mr. Parker, forse a questo ragazzo assente piacerebbe mangiare qualcosa. Mi ha l’aria di essere assente da parecchio.
— Per pescare — disse Mr. Parker. — Credo sia questo che fa la maggior parte di loro.
— Tu non puoi vedere, è così? — Una mano si chiuse su un braccio di Little Tib. Era larga e dura, ma non ostile. — Attraversa da qui; c’è una pietra nel mezzo… coraggio.
Little Tib trovò il sasso con il bastone e vi poggiò un piede. La mano lo sostenne con forza. Per qualche istante si equilibrò sulla pietra, con il bastone nell’acqua, toccandone il fondo per rassicurarsi. — Ora un passo lungo. — Le sue scarpe giunsero all’asciutto sul terreno dall’altra parte. — Abbiamo messo il campo a poca distanza da qui. Mr. Parker, non pensa che a questo ragazzo assente piacerebbe una brioscia dolce?
Little Tib azzardò: — Sì, mi piacerebbe.
— Anche a me — disse Nitty.
— Allora, giovanotto, perché non sei a scuola?
— E come potrebbe vedere la lavagna?
— Abbiamo attrezzature speciali per i ciechi, Nitty. Alla Grovehurst c’è una classe studiata apposta per ovviare alla loro menomazione. In questo momento non ricordo il nome dell’insegnante, ma è una giovane donna molto ben preparata.
Little Tib chiese: — Grovehurst è a Sugarland?
— Grovehurst è a Martinsburg — disse Mr. Parker. — Io sono il sovrintentende della Scuola Pubblica di Martinsburg. A che distanza siamo da Martinsburg, Nitty?
— Due o trecento chilometri, suppongo.
— Ti iscriveremo a quella classe non appena tornati a Martinsburg, giovanotto.
— Mi permetto di ricordarle — intervenne Nitty, — che stiamo andando a Macon.
— Suppongo che i tuoi documenti siano in ordine, no? Il tuo libretto d’iscrizione alla scuola precedente? Il permesso d’uscita, il certificato di nascita, e la tua carta retinica della Riserva Federale?
Little Tib sedette senza dir niente. Qualcuno gli mise in mano una pasta appiccicosa, ma non se la portò alla bocca.
— Mr. Parker, credo che non abbia documenti.
— Questa è una grave…
— Perché dovrebbe avere dei documenti? Non ha nessun cane!
Little Tib cominciò a piangere. — Vedo! — disse Mr. Parker. — È cieco. Nitty, credo che le sue retine siano state distrutte. Di conseguenza non esiste affatto.
— Al diavolo, se non esiste!
— Un fantasma. Ciò che vediamo è un fantasma, Nitty. Socialmente non è reale… è stato privato dell’esistenza.
— Io non ho mai visto un fantasma in vita mia.
— Tu, sciocco bastardo! — esplose Mr. Parker.
— Non deve parlarmi in questo modo, Mr. Parker.
— Sciocco bastardo! È una vita intera che ho attorno soltanto degli sciocchi bastardi come te! — Anche Mr. Parker stava piangendo, adesso. Little Tib sentì una delle sue lacrime cadergli su una mano, grossa e calda. Pian piano smise di singhiozzare, poi tirò su con il naso. Sentir piangere un adulto, un uomo, era cosa fuori da ogni sua esperienza. Si portò alla bocca la brioscia e la assaggiò, sperando che sotto la crosta zuccherosa ci fosse anche l’uva secca.
— Mr. Parker… — mormorò Nitty. — Mr. Parker!
Dopo un po’ Mr. Parker disse: — Sì?
— Questo ragazzo… questo George potrebbe riuscire a prenderle, Mr. Parker. Lei ricorda quando ci siamo avvicinati a quell’edificio? Abbiamo girato tutto intorno. E c’era quella finestra, quella vecchia finestra con le sbarre di ferro e la serratura rotta. Io la spinsi e il vetro si mosse, l’avete visto. Ma né io né lei saremmo riusciti a entrare attraverso quelle sbarre.
— Questo ragazzo è cieco, Nitty — disse Mr. Parker.
— Certo, Mr. Parker. Ma lei sa com’era buio là dentro. Un uomo cosa farebbe? Accenderebbe la luce? No, magari userebbe una torcia elettrica incappucciata con del nastro adesivo, con una piccola fessura per lasciar uscire appena un raggio sottile. Ma un cieco potrebbe fare di più, senza luce, che un altro con un lucignolo così debole. Penso che lui sia ormai abituato alla cecità. Credo che sia capace di andare dove vuole anche senza gli occhi.
Una mano si poggiò su una spalla di Little Tib. Gli parve più piccola e morbida di quella che l’aveva aiutato ad attraversare il ruscello. — È un pazzo — disse la voce di Mr. Parker. — Questo Nitty è un pazzo. Lo sono anch’io; ma lui è pazzo più di me.
— Può farcela, Mr. Parker. Guardi com’è snello.
— E tu lo faresti? — chiese Mr. Parker.
Little Tib inghiottì un boccone. — Che cosa?
— Faresti una cosa per noi?
— Penso di sì.
— Nitty, accendi il fuoco — disse Mr. Parker. — Per questa sera non possiamo andare più avanti.
— E tanto varrebbe non andare da nessuna parte — borbottò Nitty.
— Vedi, George — disse Mr. Parker. — La mia autorità è stata temporaneamente sospesa. Qualche volta me lo dimentico.
Nitty fece udire una risatina, più lontano di dove Little Tib credeva che fosse. Doveva essersi mosso molto silenziosamente.
— Ma quando mi verrà restituita, potrò fare per te tutto quel che ho detto; metterti in una classe speciale per ciechi, ad esempio. Questo ti piacerebbe, George?
— Sì. — Alla sua sinistra, lontano, Little Tib poté udire il richiamo di un succiacapre e il rumore di Nitty che faceva legna.
— Sei scappato da casa, George?
— Sì — disse ancora Little Tib.
— Perché?
Little Tib scosse le spalle; era di nuovo sul punto di piangere. Qualcosa gli stringeva la gola, e i suoi occhi si riempirono di lacrime.
— Credo di sapere perché — disse Mr. Parker. — Forse potremo fare qualcosa in merito.
— Eccoci qua! — esclamò Nitty. Rovesciò a terra il suo fastello di legna, più o meno di fronte a Little Tib.
Più tardi, quando fu buio, Little Tib si distese al suolo con metà della coperta di Nitty sopra di sé, e l’altra metà sotto. Lì accanto il fuoco scoppiettava. Nitty disse che il fumo avrebbe tenuto lontano le zanzare. Little Tib si premette le nocche delle dita sugli occhi e vide lampi gialli e rossi balenare come un fuoco vero. Premette ancora e apparve una pepita d’oro su uno sfondo azzurro. Quelle furono le sole immagini che riuscì a far comparire per un po’, e ogni volta, nel richiamarle, ebbe paura che non sarebbero venute. Dall’altra parte del fuoco Mr. Parker emetteva il lento e pesante respiro di chi dorme.
Nitty si accostò a Little Tib, gli tirò la coperta fino al mento e gliela rimboccò attorno. — Così va meglio — disse Little Tib.
— Verrai a Martinsburg con noi — disse Nitty.
— Io sto andando a Sugarland.
— Dopo. Perché vuoi andare là?
Little Tib cercò di parlargli di Sugarland, ma non trovò le parole. Infine disse: — A Sugarland loro sanno chi sei.
— Uh, suppongo che sarebbe troppo tardi per me. Anche se scoprissi che qualcuno sapeva chi ero, non tornerò a esserlo più.
— Tu sei Nitty — disse Little Tib.
— Proprio così. E uscivo molto con le ragazze di quelle parti. Ma sai cosa dicevano? Dicevano: tu sei il custode della scuola, no? Oppure: tu sei quello che lavorava per Buster Johnson. Nessuna di loro sapeva chi ero. Gli unici a saperlo erano i ragazzini.
Little Tib sentì il fruscio del vestito di Nitty che si alzava, poi il lieve scalpiccio delle sue scarpe quando si allontanò. Si chiese se Nitty intendesse stare sveglio per tutta al notte, ma infine udì che si sdraiava.
Suo padre lo stava tenendo per mano. Erano scesi dal treno che li aveva portati in città, e camminavano lungo una delle strade principali. Lui ci vedeva. Sapeva che non avrebbe dovuto notare quel particolare, ma lo notava, e in qualche posto dietro questa consapevolezza sapeva anche che se si fosse svegliato avrebbe smesso di vederci. Guardò dentro le vetrine e vide grosse bambole vestite di pelliccia, e ogni abito sembrava inzuppato di luce. Girò lo sguardo sulla strada e poté vedere dozzine di auto passare come grossi insetti dai colori brillanti. — Di qua — disse Big Tib. Entrarono in un oggetto di vetro che li trasportò attorno e poi dentro un edificio, poi in un ascensore interamente in vetro che si arrampicò su per la parete come una formica. — Dovremmo comprare uno di questi — Little Tib, — così non saremmo costretti a fare le scale.
Alzò lo sguardo e vide che suo padre stava piangendo. Allora fu lui a mettere la sua carta nella macchina, poi sedette e osservò le luci colorate. La macchina era un uomo vestito di bianco che si tolse gli occhiali e disse: — Noi non sappiamo chi sia questo bambino, ma certamente non è nessuno. — Suo padre disse: — Guarda ancora la luce più brillante, Little Tib. — E qualcosa nella sua voce lo informò che l’uomo vestito di bianco era molto più forte di lui. Guardò la luce e cercò di non cadere.
E si svegliò. Era così buio che per un minuto si chiese dove fossero finite le luci colorate. Poi ricordò. Girò su se stesso e protese le mani dalla parte del fuoco finché non riuscì ad avvertirne il calore. Ora lo sentiva anche: crepitava e schioccava ancora, ogni tanto. Gli volse le spalle e tornò a distendersi come prima. Passò un treno, e dopo un poco udì il verso di un gufo.
Poteva vederci anche lì. Qualcosa dentro di lui gli disse quanto era fortunato a vederci due volte in una stessa notte. Poi dimenticò di pensarci e guardò i fiori. Erano grandi e rotondi, crescevano su lunghi steli, avevano petali gialli e il centro marrone, e quando non li fissava direttamente giravano e giravano. Loro potevano vederlo, perché tutti giravano la corolla a osservarlo, e quand’era lui a guardarli si fermavano.
A lungo andò avanti camminando fra i fiori. Pian piano essi divennero alti quanto le sue spalle.
Poi la città scese giù come una nuvola e si poggiò su una collina di fronte a lui. Appena fu a contatto del suolo fece finta d’essere sempre stata lì, ma Little Tib poteva sentirla ridere sotto i baffi. Aveva una cerchia di mura verdi, e al di là di quei bastioni c’erano torri, molto alte e anch’esse verdi, che si sarebbero dette di vetro.
Little Tib si avvicinò di corsa e fu quasi subito di fronte a una delle porte. I battenti erano altissimi, ma giusto poco più su della sua testa c’era una finestrella attraverso cui il guardaportone lo interrogò. — Voglio vedere il re — disse Little Tib. E il guardaportone si sporse ad afferrarlo con una mano robusta, lo tirò dentro attraverso la finestra e lo mise a terra accanto a sé. — Devi metterti questi — disse, e gli mostrò un paio di occhiali giocattolo come quelli che lui aveva visto una volta fra gli strumenti del dottore. Ma quando glieli mise sul naso essi non furono più occhiali, soltanto linee dipinte sul suo volto, circoli intorno agli occhi uniti da un segnetto ricurvo. Il guardaportone gli mise dinanzi uno specchio, e lui sperimentò l’improvvisa sconcertante sensazione di guardare il proprio volto.
Un momento più tardi stava già camminando per la città. Le case avevano giardini sui lati… giardini che risalivano verticalmente lungo i muri esterni, cosicché gli alberi sporgevano in fuori come pennoni. L’acqua nelle vaschette degli uccelli non si rovesciava mai, finché qualche passero non vi si poggiava. Allora una fine spruzzata di goccioline cadeva nella strada come pioggia.
Anche il palazzo reale aveva mura, benché fatte di alberi forniti di mani. Little Tib oltrepassò un portale formato da elefanti inginocchiati e vide una lunghissima rampa di scale. Era così immensa e alta che non sembrava esserci nessun palazzo: soltanto le scale che salivano a perdita d’occhio fra le nuvole. Il re stava scendendo lungo di esse, molto lentamente. Era una donna, bellissima, e per quanto non le assomigliasse neppure minimamente Little Tib seppe che era sua madre.
Aveva visto tante cose durante il sonno che quando si svegliò dovette fare uno sforzo per ricordare perché era così buio. Da qualche parte, nel fondo della sua mente, c’era ancora l’idea che svegliarsi significava luce, mentre dormire era il buio, e non già il contrario. Nitty disse: — Dovresti lavarti la faccia. Puoi trovare l’acqua senza difficoltà?
Little Tib stava ancora pensando al re-donna, e alle vesti che la facevano sembrare addobbata come un albero natalizio, ma andò a lavarsi. Si gettò acqua sul volto e sulle braccia, e intanto pensò se fosse il caso di parlare a Nitty di quel sogno. Ma prima che avesse finito ogni cosa era sfumata via, eccetto la faccia del re.
Per la più parte del tempo Mr. Parker parlava come se lui fosse importante e Nitty no; ma quando disse: — Mangeremo qualcosa stamattina Nitty? — parve il contrario.
— Mangeremo sul treno — disse Nitty.
— Adesso prenderemo un treno, George, per Martinsburg — disse Mr. Parker a Little Tib.
Little Tib pensò che il treno passava troppo svelto per lasciarsi prendere, ma non lo disse.
— Dovrebbe passarne uno fra poco — disse Nitty. — Devono rallentare perché c’è una strada che attraversa i binari, laggiù. E quando arrivano qui non hanno ancora ripreso velocità. Non è necessario correre: basta aggrapparsi e tirarsi su.
In lontananza un gallo cantò, rauco.
Mr. Parker disse: — Quando io ero giovane, George, tutti pensavano che presto i treni sarebbero scomparsi. Non dissero però con cosa sarebbero stati sostituiti. Più tardi si capì poi che era utile avere treni, a patto che essi fossero di linea molto moderna. Questo fu fatto, come suppongo tu abbia appreso l’altr’anno, sostituendo con il magnesio e la fibra di vetro e l’alluminio tutto l’acciaio impiegato in precedenza. Questo inoltre non solo cambiò l’immagine del treno, rendendola più gradevole, ma permise di risparmiare energia sul peso… che è lo scopo, almeno in apparenza, dei disegnatori di carrozzerie. — Mr. Parker fece una pausa, e Little Tib poté udire il fruscio dell’acqua lì accanto, e più distante quello del vento fra gli alberi.
— Restava soltanto la noiosa faccenda del personale — continuò Mr. Parker. — Fortunatamente fu scoperto che meccanismi, degli stessi tipi che avevano tolto di mezzo gli insegnanti e altri, potevano essere sotituiti ai frenatori e ai macchinisti. Chi avrebbe creduto che condurre un treno fosse una routine meccanica, come insegnare a una classe? Ma fu provato che era così.
— Vorrei che avessero tolto di mezzo anche quella polizia ferroviaria — borbottò Nitty.
— Tu, George, sei una vittima dello stesso sistema — continuò Mr. Parker. — Fu quella totale ridistribuzione del lavoro, con il conseguente nomadismo, che creò il presente metodo d’identificazione basato sul disegno della retina come il più degno di fiducia. Prendi Nitty e me, ad esempio. Noi stiamo andando a Macon…
— Noi stiamo andando a Martinsburg — disse Nitty. — Il treno che stiamo per prendere è diretto dall’altra parte. Dobbiamo entrare in quell’edificio perché lei possa riprogrammare il computer, ricorda?
— Stavo facendo un’ipotesi — disse Mr. Parker. — Poniamo il caso, dicevo, di andare a Macon. Lì entriamo in un negozio, registriamo il nostro disegno retinico, e riceviamo merci il cui costo viene detratto dall’ammontare del nostro deposito bancario. Nessun altro sistema d’identificazione è altrettanto sicuro e adattabile ai metodi di immagazzinamento dati.
— Quando giravi con il denaro in tasca te lo rubavano — disse Nitty.
— Gli imperatori della Cina adoperavano piastre d’argento stampate con il loro sigillo — continuò Mr. Parker. — Ma trasformando il denaro in registrazioni tenute dalla Federal Reserve Bank si elimina il costo della stampa di banconòte e della coniatura di monete, e naturalmente il controllo fiscale è assoluto. Nel frattempo l’identificazione retinica è il migliore dei…
Little Tib smise di ascoltare. Stava arrivando un treno. Poteva udirlo in lontananza; lo sentì passare su un ponte, da qualche parte, e farsi sempre più vicino. Cercò a tentoni il suo bastone e lo strinse saldamente.
Poi il rumore fu forte, ma la velocità d’avvicinamento era bassa e la motrice emise il suo fischio. Ad un tratto Nitty lo sollevò da terra con una delle sue forti braccia. Ci furono dei sobbalzi rapidi, un salto, delle improvvise oscillazioni a destra e a sinistra, e infine Nitty lo depose su una superficie piana. Erano sul treno. — Se vuoi — disse Nitty, — puoi sedere qui sul bordo e tenere i piedi penzoloni fuori. Ma fai attenzione.
Little Tib fece attenzione. — Dov’è Mr. Parker?
— È andato a sdraiarsi sul fondo. Vuole farsi un pisolino… lui dorme molto.
— Può sentirci?
— Ti piace sedere così? È una delle cose che mi divertono di più. So che non puoi vedere tutte le cose che ci passano davanti, però potrei descrivertele. Ora stiamo girando a destra. Risaliamo per un lunghissimo pendio e da questa parte del treno si vedono soltanto alberi di pino. Scommetto che nella boscaglia ci sono animali d’ogni genere. Ti piacciono gli animali, George? Gli orsi e i grossi felini selvatici?
— Può sentirci? — chiese ancora Little Tib.
— Non credo, solitamente si addormenta subito. Ma sarebbe meglio aspettare un po’ se vuoi che non ascolti quel che devi dirmi.
— Va bene.
— Adesso c’è una cosa di cui dobbiamo preoccuparci. Qualche volta questi treni sono ispezionati dalla polizia. Se trovano uno che viaggia a sbafo lo buttano giù. Non credo che farebbero questo con un ragazzino come te, però Mr. Parker e io verremmo buttati giù. In quanto a te, ti porterebbero con loro fino alla prossima città per consegnarti alla polizia municipale.
— Quelli non mi vogliono — disse Little Tib.
— Che intendi dire?
— Qualche volta mi prendono, però non riescono mai a sapere chi sono. Allora mi lasciano andar via.
— Suppongo che tu sia lontano da casa da molto più tempo di quel che credevo. Quanto è che non vedi mamma e papà?
— Non lo so.
— Dev’esserci un modo per identificare i ciechi. Ci sono molti ciechi.
— La macchina di solito sa chi sono i ciechi. Questo me l’hanno detto; ma non conosce me.
— Quelli ti prendono la foto della retina… sai cos’è?
Little Tib non disse niente.
— È la parte interna dell’occhio, quella che vede le immagini. Fai conto che il tuo occhio sia una macchina fotografica: hai una lente davanti e la pellicola dietro. Be’, la retina è la pellicola: è di questa che ti prendono una foto. Penso che la tua l’abbiano persa. Tu sai cos’hanno i tuoi occhi che non va?
— Sono cieco.
— Sì, ma non sai per quale motivo, eh, bambino? Vorrei che tu potessi vedere questa zona… stiamo oltrepassando una vallata, e sotto di noi ci sono alberi a non finire, e rocce, e ruscelli.
— Può sentirci, Mr. Parker? — chiese ancora Little Tib.
— Credo di no. Sembra che dorma della grossa.
— Lui chi è?
— È quel che ti ha detto. È il sovrintendente, solo che non lo vogliono più.
— È davvero pazzo?
— Sicuro. È un uomo pericoloso quando gli prendono i cinque minuti. Quando lo fecero sovrintendente gli misero quell’affanno nella testa per dargli più capacità, più ricordi e più matematica, e altre cose che lo avrebbero fatto lavorare meglio. Il distretto scolastico ne aveva acquistati molti; non so come li chiami tu, quegli oggettini con tanti microcircuiti dentro…
— E non gliel’hanno tolto dopo che ha smesso d’essere sovrintendente?
— Sicuro, ma la sua testa era abituata ad averlo dentro, ormai, o almeno credo. Piccolo, ti senti bene?
— Sto bene.
— Non ne hai l’aria: mi sembri pallido. Magari è perché ti sei tolto via un bel po’ di polvere quando ti ho mandato a lavarti la faccia. Che ne pensi, è per questo?
— Io mi sento benissimo.
— Vieni qui, fammi sentire se scotti. — Little Tib avvertì il rude contatto di un palmo calloso sulla fronte. — Mi pare che tu abbia un po’ di febbre.
— Non sono malato.
— Guarda là! Ah, se tu avessi potuto vederlo. C’era un orso laggiù: un grosso vecchio orso, nero come il carbone.
— Probabilmente era un cane.
— Credi che io non riconosca un orso? Si è alzato e ci ha salutati.
— Sul serio, Nitty?
— Be’, non come farebbe un uomo. Non ha mica gridato buongiorno o ehilà. Però ha sollevato una delle sue grosse vecchie zampe. — Nitty prese un braccio di Little Tib e glielo alzò.
Una voce strana, che a Little Tib parve la voce di una donna, disse: — Ehi, voi laggiù! — Sentì dei tonfi come se qualcuno avanzasse sul pavimento del vagone, poi i tonfi delle scarpe di qualcun altro.
— No, un momento! Un momento, vi dico! — esclamò Nitty.
— Stai calmo — disse la voce di un’altra donna.
— Non vorrete buttarci giù dal treno, eh? Io ho un bambino qui con me, un bambino cieco. Non può saltare giù da nessun treno.
— Che sta succedendo, Nitty? — disse Mr. Parker.
— Polizia ferroviaria, Mr. Parker. Sembra che ci butteranno giù da questo treno.
Little Tib poté udire il fruscio che Mr. Parker fece nell’alzarsi, e si chiese se fosse un uomo grosso oppure piccolo, e che età avesse. Di Nitty s’era fatto un’idea, ma di Mr. Parker non era certo, anche se stava cominciando a pensare che fosse molto giovane. Decise che doveva essere di media statura.
— Lasciate che io mi presenti — disse Mr. Parker. — Come sovrintendente, ho sotto di me tre scuole nella zona di Martinsburg.
— Ah, sì? — disse una delle donne.
— Ho cominciato dai gradi più bassi, come tutti i nostri nuovi insegnanti, del resto. Ma con l’anzianità potrò salire di grado. Voi che scuole avete fatto?
— Ci stai prendendo in giro?
— È solo che non ha capito bene — intervenne Nitty. — Si è appena svegliato; lo avete svegliato voi.
— Già.
— Volete buttarci giù dal treno?
— Dove state andando?
— Soltanto fino a Howard. Non più lontano, giuro. Adesso ascoltate, questo bambino è cieco e anche malato. Vogliamo portarlo da un dottore, a Howard… è scappato da casa.
Mr. Parker disse: — Non lascerò questa scuola finché non sarò pronto. Io sono in carica in tutto il distretto.
— Mr. Parker non è del tutto in sé — spiegò Nitty alle due donne.
— Che gli prende?
— Ogni tanto è così. Non sempre.
— Parla come se avesse il permesso di viaggiare gratis.
Little Tib domandò: — Come vi chiamate?
— Dico — tossicchiò Nitty, — il ragazzo ha ragione. Le persone educate si presentano.
— Io sono Alice — disse una delle donne.
— Micky — si presentò l’altra.
— Ma noi non vogliamo sapere i vostri nomi — proseguì Alice. — Vedi, supponi che si scopra che voi eravate sul treno: noi dovremmo riferire come vi chiamate.
— E dove state andando — aggiunse Micky.
— Siete simpatiche, voialtre. Perché vi siete messe nella polizia ferroviaria?
Alice rise. — Cosa fa una ragazza per bene come te in un posto come questo, eh? Ho già sentito altre volte questa domanda.
— Bada, Alice — disse Micky. — Questo cerca di farti la corte.
— Viaggiate insieme voi tre? — chiese Alice.
— Io sono in compagnia di Mr. Parker. Abbiamo incontrato il bambino per caso. È fuggito di casa perché la parte dei suoi occhi di cui prendono la foto è stata distrutta, e i suoi genitori non potevano ottenere l’assistenza governativa. Almeno, questo è ciò che credo. È così, George?
Mr. Parker disse: — Vi presenterò alle vostre nuove classi fra un momento, ragazze.
— Him ed io lavoravamo nella scuola — si affrettò a spiegare Nitty. — Era un buon lavoro, o così ci sembrava. Poi un giorno quel grosso computer, in città, ha detto: «Qui non c’è più bisogno di voi». E ce ne siamo andati.
— Non dovete giustificarvi con noi — disse Micky.
— È un sollievo sentirglielo dire. Lo faccio per Mr. Parker: a volte non si sente molto bene.
— Qual era il tuo lavoro.
— Manutenzione della scuola. Io mi occupavo dell’impianto di riscaldamento, facevo servizi per gli insegnanti, pulivo le apparecchiature e riparavo gli impianti elettrici in genere.
— Nitty! — chiamò Little Tib.
— Sono qui, ragazzo mio. Non me ne vado.
— Be’, noi dobbiamo proseguire — disse Micky. — Ci farebbero passare dei guai se non ispezionassimo questo treno. Voialtri non dimenticate che avete promesso di scendere a Howard. E non fatevi vedere da nessuno.
— Potete contare sulla nostra collaborazione — disse Mr. Parker.
Little Tib sentì lo scalpiccio delle due donne che si allontanavano verso il fondo del vagone, e il lieve grugnito con cui Alice sì aggrappò alla scaletta esterna per tirarsi su. Poi ci fu uno schiocco, come se qualcuno avesse stappato una bottiglia, e ad esso seguì il tonfo di qualcosa che rotolava sul pavimento accanto a loro.
D’un tratto nel naso e in bocca e nei polmoni gli entrò qualcosa che bruciava come il fuoco. Un groppo di catarro lo soffocò e gemendo lo spuntacchiò fuori. Desiderò disperatamente fuggire, e pensò al posto di quel mattino dove il ruscello tagliava le canne e i cespugli, freddo come il ghiaccio. Nitty stava gridando: — Gettala fuori! Gettala fuori! — E qualcuno, che gli parve Mr. Parker, corse a precipizio lungo un lato del vagone urtando nella parete. Little Tib era di nuovo sull’altura presso il ruscello e guardava giù nell’acqua scura e opaca, oltre le cime delle canne scosse dal vento dell’ovest.
Tornò a sedersi sul pavimento del vagone. Mr. Parker non doveva essersi fatto troppo male, e così anche Nitty, perché li sentì muoversi attorno.
— L’ha buttata fuori, Mr. Parker? — ansimò Nitty. — Meno male!
— Dev’essere stato il ragazzo, Nitty…
— Sì, Mr. Parker.
— Noi… noi siamo su un treno. E la polizia ferroviaria ci ha gettato una bomba a gas per farci saltare giù. È esatto?
— Proprio così. Esatto, Mr. Parker.
— Ho fatto un sogno strano. Ero nel corridoio centrale della Grovehurst School, con la schiena appoggiata agli armadietti. Potevo sentirli.
— Già.
— Stavo parlando a due nuovi insegnanti…
— Lo so. — Little Tib sentì le dita di Nitty sul volto e la voce di lui che mormorava: — Stai bene?
— … e tenevo loro il solito discorso orientativo. Poi qualcosa ha fatto un rumore sibilante, come un mortaretto. Mi sono girato e ho visto che uno dei ragazzi aveva tirato una bomba puzzolente… mi è passata davanti, lasciando una scia di fumo. Le sono corso dietro come correvo dietro alla palla quand’ero nella squadra della scuola, e ho urtato dritto nella parete.
— Può scommetterci che ci ha sbattuto. La sua faccia sembra conciata male, Mr. Parker.
— Mi sono ferito. Guarda, eccola qui!
— Vedo. Nessuno l’ha buttata fuori, allora.
— No. Toccala… senti? È ancora calda. Suppongo che il gas sia generato da una reazione chimica.
— Vuoi sentirla anche tu, George? Ecco, puoi prenderla in mano.
Little Tib avvertì il contatto di un cilindro metallico contro le dita, caldo e liscio. Sembrava un barattolo di Coca-Cola, con una strana protuberanza sulla cima.
— Mi chiedo cosa sia successo a tutto il gas — disse Nitty.
— Si è disperso fuori — disse Mr. Parker.
— Non può essersi disperso fuori. L’hanno tirata bene: giusto in fondo al vagone. Impossibile che sia uscito dal portello. E questi affari continuano a emettere gas per parecchio tempo.
— Dev’essere difettosa — osservò Mr. Parker.
— Forse. — La voce di Nitty era inespressiva.
— L’hanno tirata quelle donne? — chiese Little Tib.
— Proprio così. Hanno fatto finta di essere amichevoli, e poi vanno a giocarci uno sporco tiro come questo.
— Nitty, ho sete.
— L’avrei giurato, sì. Lo senta, Mr. Parker: scotta.
La mano di Mr. Parker era più piccola e morbida di quella di Nitty. — Forse è stato il gas.
— Scottava anche prima.
— Ho paura che su questo treno non esista un’infermeria.
— A Howard c’è un dottore. Pensavo di portarlo là e…
— Non abbiamo più denaro sui nostri conti, adesso.
Little Tib era esausto. Si distese sul pavimento del vagone, e quando sentì rotolare via il cilindro ormai vuoto del gas non ebbe la forza di riafferrarlo.
— … un bambino malato e… — sentì Nitty dire. La vettura vibrava sotto di lui, e le ruote mandavano ritmici clangori soffocati simili al pulsare del sangue nel cuore di un gigante.
Stava camminando per uno stretto sentiero polveroso. Tutti gli alberi su entrambi i lati avevano foglie rosse, e rossa era l’erba che cresceva attorno alle loro radici. Avevano anche facce, scolpite nei tronchi, e parlavano fra loro mentre lui li oltrepassava. Dai rami pendevano mele e ciliege.
Il sentiero girò intorno a una collinetta ricoperta da piante scarlatte. Fra la vegetazione cinguettavano dei cardinali, e uno di essi gli si appollaiò su una spalla. Little Tib ne fu felice, e gli disse: — Non voglio andare via, mai. Voglio stare qui per sempre, a camminare su questo sentiero.
— Sia fatta la tua volontà, figliolo — disse il cardinale. E si fece il segno della croce con un’ala.
Oltrepassarono una svolta e più avanti vide una casetta, non più grossa di un frigorifero. Era dipinta a strisce bianche e rosse, con un tetto a pan di zucchero. A Little Tib il suo aspetto non piacque ma fece qualche passo verso di essa.
Un uomo di altezza normale uscì dalla minuscola casa. Era fatto di rame, rossastro e lucido, scintillante come un tubo nuovo per una caldaia. Il suo corpo era cilindrico, la testa a forma di pentola e il collo era anch’esso un pezzo di tubo. Aveva grossi mustacchi stampati sulla sua faccia di rame, e si stava ripulendo con una lima. — E tu chi sei? — lo interrogò.
Little Tib glielo disse.
— Non ti riconosco — disse l’uomo di rame. — Vieni più vicino che possa vederti meglio.
Little Tib si avvicinò. Qualcosa stava tambureggiando bam bam bam fra le colline dietro la casetta bianca e rossa. Cercò di vedere cosa fosse ma erano ricoperte da una fitta nebbia, come se fosse mattina presto. — Cos’è quel rumore? — domandò all’uomo di rame.
— Quella è la gigantessa — rispose lui. — Non… riesci… a… vederla?
Little Tib disse che non ci riusciva.
— Allora… apri… la mia… chiave vocale… e io… ti… parlerò…
L’uomo di rame si girò, e Little Tib vide che sulla schiena aveva tre serrature. Quella di centro era contrassegnata da un’etichetta ramata con incise le parole: AZIONE VOCALE.
— … di… lei.
Una bella chiave pendeva da un gancetto accanto alla serratura. Lui la infilò nel foro e la girò.
— Così va meglio — sospirò l’uomo di rame. — Le mie parole, grazie all’aria che tu hai aperto, soffieranno via la nebbia e così potrai vederla. Io posso fermarla; ma se non lo facessi tu verresti ucciso.
Come l’uomo di rame aveva detto, la nebbia si stava sollevando. Parte di essa però non si muoveva: non era nebbia, sembrava piuttosto una montagna. Ma quando si mosse non fu più una montagna, bensì un’immensa donna vestita di foschia, alta il doppio delle colline fra cui stava in piedi. Impugnava una scopa, e mentre Little Tib la osservava un topo grosso come la motrice di un treno sbucò da una caverna in una delle alture. Bam fu il rumore che fece la scopa della gigantessa; ma il topo la evitò infilandosi in un’altra caverna. Un istante dopo corse di nuovo fuori. Bam! La donna era sua madre, ma lui capì che non poteva riconoscerlo… che in qualche modo la nebbia e la necessità di schiacciare il topo la separavano da lui.
— Quella è mia madre — disse all’uomo di rame. — E il topo era nella nostra cucina, nella casa nuova. Ma non lo colpiva come sta facendo adesso.
— Si limita a colpirlo una volta sola — spiegò l’uomo di rame. — Ma quella volta si ripete uguale; è per questo motivo che sbaglia sempre il colpo. Se però tu cercherai di proseguire sul sentiero, la scopa ti ucciderà e ti spazzerà via. A meno che io non la fermi.
— Posso passare fra un colpo e l’altro — disse Little Tib. Ne sarebbe stato capace.
— La scopa è più grossa di quel che pensi — disse l’uomo di rame. — E non potresti vederla bene come credi.
— Voglio che tu la fermi — disse Little Tib. Era sicuro che avrebbe potuto passare fra due colpi della scopa, ma gli dispiaceva per sua madre, che era costretta a cacciare il topo interminabilmente e senza riposo.
— Allora devi lasciare che io ti mostri il modo.
— Sentiamo — disse Little Tib.
— Bisogna che tu giri la mia chiave di movimento.
Sulla serratura più bassa c’era scritto: AZIONE DI MOVIMENTO. Era la più grossa. A lato pendeva la chiave, e quando lui l’ebbe infilata nel foro la girò facendola scattare più volte. — Così può bastare — disse l’uomo di rame. Little Tib rimise la chiave al suo posto e l’uomo di rame si volse verso di lui.
— Adesso devo guardare nei tuoi occhi — disse. Gli occhi di lui erano stampati nel rame, ma Little Tib sapeva che poteva vederci. L’altro gli prese la faccia fra le mani: erano più dure di quelle di Nitty, però più piccole e fredde. Little Tib vide gli occhi di lui farsi sempre più vicini.
Vide i suoi stessi occhi riflessi nella faccia di rame dell’uomo come in uno specchio, e dentro di essi c’erano dei bagliori simili alle fiamme di due candele in una chiesa. Le fiammelle s’ingrandivano. L’uomo di rame continuava ad accostare il volto al suo. Tutto cominciò a essere buio e sempre più buio. Little Tib disse: — Tu non mi conosci?
— Devi girare la mia chiave del pensiero — disse l’uomo di rame.
Little Tib allungò le mani dietro di lui, protendendo le braccia al massimo intorno a quel corpo di metallo rosso. Le sue dita trovarono la più piccola delle serrature, e accanto ad essa pendeva un piccolo gancio; ma non c’era nessuna chiave.
Un bambino stava piangendo. C’era odore di medicinali e una donna dalla voce strana disse: — Vediamo un po’. — Le mani di lei gli toccarono le guance. Le piccole fredde mani dell’uomo di rame. Little Tib ricordò che non poteva vedere niente adesso, non più.
— È malato, sì — disse la donna. — Scotta come il fuoco e si lamenta solo a toccarlo.
— Sì, signora — disse Nitty. — È sicuramente malato.
La voce di una ragazzina disse: — Che malattia ha, mamma?
— Ha la febbre, tesoro, e naturalmente è cieco.
Little Tib disse: — Io sto bene.
La voce di Mr. Parker lo tranquillizzò: — Starai meglio dopo che la dottoressa ti avrà visitato, George.
— Posso alzarmi — disse Little Tib. Aveva scoperto che Nitty lo teneva seduto sulle ginocchia, e questo lo imbarazzava.
— Ti sei svegliato? — domandò Nitty.
Little Tib mise i piedi al suolo e annaspò in cerca del suo bastone, ma era sparito.
— È un pezzo che dormi. Ti sei svegliato soltanto per metà anche quando siamo scesi dal treno.
— Salve — disse la ragazzina. Bam. Bam. Bam.
— Salve — le rispose Little Tib.
— Non farti toccare la faccia da lui, tesoro. Ha le mani sporche.
Little Tib sentì che Mr. Parker parlava con Nitty, ma non prestò loro attenzione.
— Io ho una bambola — gli disse la ragazzina, — e un cane. Si chiama Muggly. Il nome della bambola è Virginia Jane. — Bam.
— Cammini in modo buffo — disse Little Tib.
— Ci sono costretta.
Lui si chinò a toccarle una gamba. Abbassare la testa lo fece sentire strano. C’era un suono squillante, irreale, che sembrava aleggiare intorno e dentro di lui. Sentì con le dita l’orlo della gonna della ragazzina, poi la sua gamba, calda e asciutta, quindi un oggetto di gomma con delle parti metalliche, e strisce che gli ricordavano il collo dell’uomo di rame su tutti i lati. Le seguì con la mano e dentro di esse ritrovò la gamba di lei, ma era perfino più sottile del suo braccio.
— Attenti che non le faccia male — disse la donna.
Nitty disse: — Non le fa nessun male. Di che ha paura? Un ragazzino così!
Lui pensò alle proprie gambe che camminavano sul sentiero, che saltellavano fra i fiori verso la città verde. La gamba della ragazzina era come le sue, era più grossa di come l’aveva sentita, diventava sempre più grossa sotto le sue dita.
— Vieni — disse lei. — Mamma mi ha lasciato portare qui Virginia Jane. Vuoi vederla? — Bam. — Mamma, posso sciogliermi le cinghie?
— No, cara.
— Ma a casa tu me le togli sempre.
— Solo quando vai a letto, tesoro, o quando ti faccio il bagno.
— Ma non ne ho più bisogno, mamma. Vedi? Adesso mi stringono.
La donna urlò. Little Tib si coprì gli orecchi. Quando ancora vivevano nella vecchia casa, e sua madre e suo padre gridavano, lui si copriva gli orecchi a quel modo e loro nel vederlo la smettevano. Con la donna però non funzionò: lei continuò a gridare.
Una donna che lavorava alle dipendenze della dottoressa cercò di farla calmare. Infine la dottoressa in persona uscì e le diede qualcosa. Little Tib non poteva vedere cosa fosse, ma la sentì dire più volte: — Prenda questo. Prenda questo. — E come Dio volle la donna lo prese.
Poi la ragazzina e sua madre furono portate nell’ufficio della dottoressa. C’era molta più gente adesso, in sala d’attesa, di quanta Little Tib ne aveva udito all’inizio, e tutti stavano parlando. Nitty lo prese per un braccio. — Non voglio sedere sulle tue ginocchia — disse Little Tib. — Non mi piace sederti sulle ginocchia!
— E allora siedi qua — disse Nitty, quasi in un sussurro. — Toglieremo di mezzo Virginia Jane.
Little Tib s’arrampicò sopra una liscia sedia plasticata, con Nitty da una parte e Mr. Parker dall’altra.
— È un peccato — disse Nitty — che tu non abbia potuto vedere la gamba di quella bambina. Quando ci siamo messi a sedere qui era sottile come uno stecco. E quando l’hanno portata lì dentro era identica all’altra.
— Questo è bello — disse Little Tib.
— Ci stavamo domandando… tu hai qualcosa a che fare con quel che è successo?
Little Tib non lo sapeva, così rimase zitto.
— Non tormentarlo, Nitty — disse Mr. Parker.
— Non lo sto tormentando. Sto solo chiedendo una cosa: è importante.
— Sì, lo è — disse Mr. Parker. — Tu pensaci, George, e se poi avrai qualcosa da dire faccelo sapere. Noi ti ascolteremo.
Little Tib restò a lungo seduto dov’era, e infine la donna che lavorava per la dottoressa uscì. — È questo il ragazzo? — chiese.
— Ha la febbre — la informò Mr. Parker.
— Dobbiamo vedere il suo disegno retinico. Portatelo dentro.
— Inutile — disse Nitty. E Mr. Parker aggiunse: — Non potrete prendere il suo disegno retinico… le sue retine non esistono più.
La donna che lavorava per la dottoressa non disse nulla per un poco, poi: — Be’, ci proveremo lo stesso. — Prese per mano Little Tib, e lo condusse in una stanza dove c’era una macchina con molte luci. Lui sapeva che quella era una macchina con molte luci, perché l’aveva riconosciuta dall’odore e dal contatto dei sensori contro la sua faccia. Dopo un poco lei gli lasciò scostare gli occhi dai dischetti di plastica.
— Bisogna che la dottoressa lo visiti — disse Nitty. — So che senza un disegno retinico non potete mettere la visita in conto al governo. Ma il bambino è malato.
La donna disse: — Se aprirò una pratica su di lui vorranno sapere chi è.
— Gli tocchi la fronte: sta bruciando.
— Penseranno che è entrato illegalmente in questa regione. E una volta che un’indagine abbia preso inizio non la potrete più fermare.
— Possiamo parlare alla dottoressa? — chiese Mr. Parker.
— È quel che stavo cercando di dirvi. Non potete vederla.
— Voglio farmi visitare: io sono malato.
— Credevo che il malato fosse il bambino.
— Anch’io sono malato. Vieni qui. — Una mano di Mr. Parker guidò Little Tib fuori dalla poltroncina di fronte alla macchina delle luci, e fu l’altro a sedersi al suo posto. L’uomo si piegò in avanti e l’apparecchiatura mandò un ronzio. — Naturalmente — disse Mr. Parker, — dovrò portarlo dentro con me. È troppo piccolo perché lo si possa lasciar solo in una sala d’attesa.
— Lo può tener d’occhio quest’uomo.
— Lui ha fretta d’andarsene.
— Sissignore — annuì Nitty. — Non avrei indugiato finora, se qui non fosse così interessante.
Little Tib si aggrappò a una mano di Mr. Parker, e dopo aver percorso un paio di brevi corridoi entrarono nel piccolo ambulatorio.
— Lei non è un mio paziente — disse la dottoressa, chiudendo la porta alle sue spalle. — Sentiamo, cosa c’è che non va?
Mr. Parker le parlò di Little Tib, e le chiese di addebitare sulla sua carta di credito tutto ciò che voleva.
— Questo è molto irregolare — disse la dottoressa. — Non dovrei neppure pensarci. Cos’è successo ai suoi occhi?
— Non lo so. Sembra che non abbia più la retina a tutti e due.
— Ci sono i trapianti di retina, anche se non sono sempre efficaci.
— Permetterebbero di dargli un’identità? La vista sarebbe secondaria rispetto a questo, per il momento.
— Suppongo di sì.
— Può farlo ricoverare in un ospedale?
— No.
— Non senza disegno retinico, vuol dire?
— Proprio così. Mi piacerebbe poterle dire il contrario, ma sarebbe inutile. Non lo accetterebbero mai.
— Capisco.
— Ho molti pazienti che aspettano. Le addebiterò una visita per un’influenza. Gli dia queste, dovrebbero fargli calare la febbre; se domani non sta meglio, me lo riporti.
Più tardi, mentre l’aria e gli oggetti si raffreddavano, e gli ucccelli diurni s’erano azzittiti lasciando pian piano il posto a quelli notturni, e Nitty aveva acceso un fuoco su cui stava cucinando qualcosa, disse a Mr. Parker: — Non capisco perché non abbia voluto aiutare il bambino.
— Gli ha dato qualcosa per la febbre.
— Non è molto. Avrebbe potuto fare di più.
— C’è tanta gente che ha bisogno di…
— Lo so. E non sono poi tanti. Ce n’è di più in Cina o in altri posti. Lei crede che questa medicina gli farà bene?
Mr. Parker poggiò una mano sulla testa di Little Tib. — Pensò di sì.
— Restiamo qui a occuparci di lui, oppure domattina ce ne torniamo a Martinsburg?
— Domattina vedremo come sta.
— Sa, Mr. Parker, a vederla come agisce ora… voglio dire, credo che ce la farà.
— Sono un bravo programmatore, Nitty. Lo sono davvero.
— So che lo è. Lei lavori bene a quel programma, e la macchina scoprirà che hanno ancora bisogno di un sovrintendente. E anche di un uomo per la manutenzione. Perché un uomo deve sentirsi così male se non ha un lavoro da fare e una paga? Me lo sa dire? Forse mi hanno messo qualcosa nella testa, come lei?
— Il perché lo sa bene quanto me — disse Mr. Parker.
Little Tib non li ascoltava. I suoi pensieri erano tornati alla ragazzina e alla gamba di lei. L’ho sognato, pensò. Nessuno può fare quella cosa; ho solo sognato di toccarla e di sentire che diventava più grossa. E questo vuol dire che la realtà era l’altra, l’uomo di rame e la gigantessa con la scopa.
Un gufo mandò il suo richiamo, e a lui tornò in mente la piccola sveglia ronzante che sua madre aveva accanto al letto nella casa nuova. Al mattino presto la suoneria echeggiava, e suo padre doveva alzarsi. Quando vivevano nella casa vecchia e suo padre aveva un sacco di lavoro da fare, la sveglia non gli serviva. I gufi dovevano essere le vere sveglie, e quando essi avrebbero fatto il loro verso lui si sarebbe risvegliato in una casa vera.
S’addormentò. Poi si trovò di nuovo desto, ma non vedeva niente. — Meglio che mangi qualcosa — disse Nitty. — Ieri sera non hai messo niente nello stomaco; ti sei appisolato e ho preferito non svegliarti. — Gli mise in mano un panino. — Non è molto fresco — disse, — ma è buono.
— Prenderemo un altro treno?
— Il treno non va a Martinsburg. Purtroppo non abbiamo stoviglie, ma questo te lo metto in un pezzo di carta. Bada a non farlo cadere in terra.
Little Tib stiracchiò le gambe. Era affamato, e s’accorse che da un bel po’ di tempo non provava vero appetito. Domandò: — Dovremo camminare?
— È troppo lontano; faremo l’autostop. Mettiti seduto, così te lo appoggio sulle gambe. — Little Tib sentì la mano di lui deporgli un involto in grembo. Lo toccò e avvertì il contatto del prosciutto. Attorno c’era ancora l’involto, ma era stato tagliato in due. — L’ho arrostito sul fuoco ieri sera — disse Nitty. — C’è anche una salsiccia che ho tenuto da parte per te. Non fartela scivolare.
Little Tib prese la salsiccia in una mano come un cono gelato, e tolse la pelle con l’altra. Era morbida e calda, ma croccante all’esterno. Ne mangiò un poco con il pane, di gusto, e dopo qualche boccone gli venne sete.
— Ci siamo procurati questa roba a casa di una donna piuttosto povera — disse Nitty. — È lì che bisogna andare se si desidera un boccone di pane. I ricchi hanno paura e non aprono. Mr. Parker e io non possiamo comprare niente. Non abbiamo ancora ottenuto credito per il mese di settembre… speravamo di averlo una volta a Macon.
— Per me non daranno nulla — disse Little Tib. — Mamma doveva darmi del suo da mangiare.
— Questo perché non avevano il tuo disegno retinico. Comunque, che differenza farebbe? Ti spetterebbe un credito così piccolo che sarebbe quasi come non avere niente. Mr. Parker riceve più di me perché quando lavoravamo la sua paga era maggiore, ma anche questo è pressoché il minimo bastante per sopravvivere.
— Dov’è Mr. Parker?
È un po’ più giù, si sta lavando. Vedi, l’autostop è difficile se non sei ben pulito. Nessuno ti prende su. Ieri sera abbiamo trovato un rasoio ancora buono, e adesso lui si fa la barba.
— Vuoi che mi lavi?
— Non ti farebbe male — disse Nitty. — Ieri sera hai pianto, e sulla polvere che hai in faccia sono rimaste delle strisce. — Prese per mano Little Tib e lo condusse lungo un sentiero liscio delimitato da alte erbe. La vegetazione era bagnata di rugiada, fredda come il ghiaccio. Sul bordo del ruscello trovarono Mr. Parker. Little Tib si tolse le scarpe e i vestiti ed entrò con i piedi nell’acqua. Era fredda, anche se non quanto le gocce di rugiada. Nitty gli venne accanto, lo spruzzò, gli versò acqua sul capo con le mani e poi lo costrinse a immergersi del tutto (non senza avergli raccomandato di trattenere il fiato) per lavargli anche i capelli. Fatto ciò lavarono i vestiti alla meglio e li appesero sui cespugli ad asciugare.
— Stamattina sarà duro fare l’autostop — disse Nitty.
Little Tib gli chiese perché.
— Siamo in troppi. Quanti più siamo, tanto più è difficile avere un passaggio.
— Potremmo separarci — suggerì Mr. Parker. — Faremo a chi tira la paglia più lunga per decidere chi deve stare con George.
— No.
— Per me non ci sono difficoltà. Mi sento bene.
— Si sente bene adesso.
Mr. Parker si sporse in avanti. Little Tib lo capì perché il vestito di lui frusciò e la sua voce si fece più vicina. — Nitty, chi è il capo, qui?
— Lei, Mr. Parker. Solo che, se cominciasse a uscire di sentimento, potrei diventare matto per la preoccupazione. Cosa le ho mai fatto che voglia mettermi addosso quell’ansia?
Mr. Parker rise. — Va bene. Ti dirò io cosa faremo. Tenteremo insieme fino alle dieci. Se per allora non avremo trovato un passaggio io non andrò più avanti di mezzo miglio, e lascerò a voi due la prima possibilità d’esser presi su da chi arriva. — Little Tib lo sentì alzarsi. — Credi che i vestiti di George si siano asciugati?
— Sono ancora un po’ umidi.
— Posso mettermeli — affermò Little Tib. Aveva già portato indumenti bagnati dopo che un acquazzone gli era passato addosso.
— Questo è proprio un bravo ragazzo. Aiutalo a vestirsi, Nitty.
Quando furono in cammino sulla strada, e comprese che Mr. Parker era a una certa distanza davanti a loro, Little Tib domandò a Nitty se pensava che avrebbero trovato un passaggio prima delle dieci.
— So che lo troveremo — disse lui.
— E come fai a saperlo?
— Perché ho pregato molto, e quando io prego molto per avere una cosa la ottengo sempre.
Little Tib rifletté su quel pensiero. — Potresti pregare per trovare un lavoro — disse, ricordando che Nitty gli aveva detto quanto desiderasse un lavoro.
— L’ho fatto, subito dopo aver perso l’ultimo. Poi ho incontrato Mr. Parker e ho visto in che condizioni era, così ho deciso di andare con lui per tenergli dietro. Di conseguenza ebbi un lavoro… ed è quello che faccio adesso. È Mr. Parker quello che non ha un lavoro.
— Ma non vieni pagato — osservò Little Tib in tono pratico.
— Abbiamo l’introito dell’assistenza. E io li uso, il mio e il suo, per quello che ci occorre. Ma ora stai quieto… siamo sulla strada.
Rimasero fermi sul bordo a lungo. Ogni tanto passavano una macchina o un autocarro. Little Tib cominciò a chiedersi se Nitty e Mr. Parker alzavano il pollice. Ricordava d’aver visto gente che alzava il pollice, quando lui e i suoi genitori erano partiti dalla vecchia casa. Rifletté ancora su quel che Nitty aveva detto della preghiera e cominciò a pregare anche lui, pensando a Dio e chiedendogli che la prossima auto si fermasse.
Per un bel po’ di tempo nessuna rallentò neppure. Little Tib immaginò che si fermasse un autocarro carico di bestiame e disse a Dio che era disposto a sedere anche sulla schiena di una mucca. Immaginò che a fermarsi fosse un camion della spazzatura, e disse a Dio che si sarebbe seduto perfino sui rifiuti. Poi sentì qualcosa avvicinarsi. Doveva essere un veicolo vecchio e malconcio, e il motore emetteva strani ciottoli che avrebbero preoccupato qualsiasi conducente. — Ha l’aria di uno di quegli antichi autobus della scuola — borbottò Nitty. — Guardi un po’ che buffi disegni ha sulla carrozzeria.
— Si sta fermando — disse Mr. Parker, e Little Tib sentì il cigolio dello sportello anteriore che si apriva.
Una voce sconosciuta, alta per appartenere a un uomo e capace di parlare in fretta, disse: — Andate da questa parte? Potete salire. Tutti sono i benvenuti nel tempio di Deva.
Mr. Parker salì, e Nitty issò Little Tib sugli scalini. Lo sportello si chiuse dietro di loro. Nell’aria c’era un odore singolare.
— Avete con voi un ragazzino. Ottimo. Al Dio piacciono molto i ragazzini e gli anziani. I bambini e le bambine hanno l’innocenza; gli anziani hanno la tranquillità e la saggezza. Queste sono doti che compiacciono il Dio. Dovremmo lottare per mantenere in noi l’innocenza, e per raggiungere la tranquillità e la saggezza il più presto possibile.
— Proprio così — disse Nitty.
— È proprio un bel bambino. — Little Tib sentì sulla faccia il respiro del conducente, caldo e dolce, e qualcosa che tintinnava lo colpì lievemente sul petto. Lo afferrò e scoprì che si trattava di un pezzo di legno con tre sbarrette incrociate, sospeso a un laccio di cuoio. — Ah! — disse la voce dell’uomo. — Hai trovato il mio amuleto, eh?
— George non può vedere — spiegò Parker. — Dovete scusarlo.
— Me n’ero accorto appena l’ho guardato; ma forse è doloroso per lui sentirselo rammentare. E adesso meglio che riparta prima che la polizia venga a chiedermi perché mi sono fermato. Non ci sono sedili… li ho tolti tutti salvo questo. È preferibile che la gente si sieda sul pavimento, di fronte a Deva. Ma voi potete stare dietro di me, se volete. È abbastanza comodo per voi?
— Saremo felici anche di stare in piedi — disse Mr. Parker.
L’autobus si mise in movimento. Little Tib si aggrappò a Nitty con una mano, e con l’altra a un palo che aveva trovato a tentoni. — Eccoci in marcia. È una cosa che dà soddisfazione. Sarebbe ancora meglio se potessimo muoverci sempre, senza fermarci mai. Avevo anzi pensato di costruire il mio tempio su una barca… una barca si muove continuamente, grazie alle onde. Sono sempre in tempo a farlo.
— Lei passa da Martinsburg?
— Sì, sì, sì — disse il conducente. — Permettete che mi presenti: io sono il Dr. Prithivi.
Mr. Parker strinse la mano al Dr. Prithivi, e Little Tib sentì l’autobus deviare da un lato. Mr. Parker emise un grido, e quando il veicolo fu di nuovo raddrizzato presentò Nitty e Little Tib.
— Se lei è un dottore — disse Nitty, — forse può dare un’occhiata a George, quando ha tempo. Non è stato bene.
— Non sono un dottore di quel genere — spiegò Prithivi. — Non curo il corpo, bensì l’anima. Sono dottore in Scienza Divina, laureato all’università di Bombay. Quando qualcuno è malato può chiamare un medico. Se dei giovani si rivelano malvagi, chiamano me.
— Di solito, però — disse Nitty, — le famiglie non lo fanno perché sono contenti di vederli finalmente guadagnare un po’ di denaro.
Il dottor Prithivi rise, di una risatina musicale e acuta. A Little Tib parve di sentirla echeggiare nel vecchio autobus come un trillo. — Ma noi tutti siamo malvagi — disse l’uomo, — e perciò pochi di noi fanno denaro. Questo come lo spiegate? Questo è il buffo della cosa. Io curo le anime malvagie: dunque tutti al mondo non dovrebbero far altro che chiamarmi dalla mattina alla sera. Se avessi un’insegna essa direbbe che il mio orario d’ufficio è dalle nove alle cinque, niente chiamate a casa. E invece sono io che, senza ricevere chiamate, porto la mia casa a tutti, la casa di Dio. Qui accolgo i miei pazienti, e a chi viene dico di salire sul retro del mio autobus.
— Non sapevamo che lei dovesse essere pagato — disse Little Tib, preoccupato perché Nitty gli aveva detto che lui e Mr. Parker non avevano denaro sul loro conto.
— Nessuno deve pagare… questo è il bello. Coloro che desiderano offrire un po’ di benzina al Dio possono infilare qui la loro carta di credito, ma è tutto volontario e noi accettiamo anche altre offerte.
— Certo che è molto buio lì sul retro — disse Nitty.
— Lasciate che ve lo mostri. Vedete che stiamo arrivando a una piazzuola di sosta? Ecco com’è regolato alla perfezione l’universo. Là potremo fermarci e riposare un po’, e prima di ripartire potrò mostrarvi il Dio.
Little Tib sentì l’autobus così all’improvviso che trasalì. Nell’ultimo anno in cui avevano abitato nella casa vecchia era andato a scuola con un autobus. Ricordava quanto caldo c’era stato dentro, e come gli fosse sembrato sciatto dopo le prime settimane; adesso stava sognando di andare al buio su un autobus dall’odore strano, ma poi si sarebbe svegliato, si sarebbe trovato di nuovo sul vecchio autobus, e lo sportello si sarebbe aperto per lasciarlo correre fuori nella luce calda verso la scuola.
Lo sportello si aprì, cigolando e sferragliando. — Scendiamo — disse il Dr. Prithivi. — Ricreiamoci un po’, e vediamo quei che c’è da vedere qui.
— È un luogo panoramico — disse Mr. Parker. — Da qui si possono vedere ben sette contee. — Little Tib si sentì sollevare e portar giù di peso. Nelle vicinanze c’era della gente, anche se non proprio lì accanto, e poté udire le loro voci.
— È molto bello — osservò il Dr. Prithivi. — Anche noi abbiamo belle montagne in India… l’Himalaia, così si chiamano. Questo splendido panorama mi fa pensare ad esse. Quand’ero un ragazzino mio padre affittò una casa sull’Himalaia. I rododendri crescevano selvaggi lassù, e una volta vidi un leopardo nel mio giardino.
Una voce estranea disse: — Qui lei può vedere leoni di montagna. Il momento adatto è la mattina presto… basta alzare lo sguardo sulle grandi pareti di roccia fra cui si guida.
— Proprio così! — esclamò eccitato il Dr. Prithivi. — Era molto presto quando vidi quel leopardo.
Little Tib cercò di ricordare quale fosse l’aspetto di un leopardo, e scoprì di non riuscirci. Poi tentò con un gatto, ma quello che immaginò non era un gatto molto preciso. Si sentiva sudato e stanco, e cercò di dirsi che non era trascorso molto da quando Nitty gli aveva lavato i vestiti. La cucitura sul davanti della camicia, dove c’erano i bottoni, era ancora umida. Quand’era stato capace di vedere aveva saputo con precisione quale fosse l’aspetto di un gatto. Era certo che se avesse potuto tenere un gatto in braccio l’avrebbe saputo di nuovo. Immaginò la morbidezza di un gatto, grosso e con il pelo lungo. Inaspettatamente esso fu lì, di fronte a lui. Non un gatto, bensì un leone, e in piedi sulle zampe posteriori. Aveva una lunga coda con un ciuffo all’estremità, e un nastro rosso annodato sulla criniera. Il suo volto era stranamente offuscato, ma stava ballando… ballava alla musica, solo ricordata, della trillante risata del Dr. Prithivi. Gli era vicinissimo.
Little Tib fece un passo verso di lui ma trovò la strada sbarrata da due tubi metallici. Scivolò al di là di essi. Il leone danzava, saltellava, ondeggiava mutando posa senza sosta. S’inchinò, roteando via, e anche Little Tib cominciò a ballare dietro di lui. Era un gioco e una gara, ed era divertente. Il leone balzò a destra e poi a sinistra, così vicino che poteva quasi toccarlo, e lui lo seguì.
Sentiva che alle sue spalle la gente stava gridando, ma le loro voci gli sembravano sfocate e lontanissime a paragone del trillo flautato sul cui ritmo ballava. Il leone gli tornò di fronte, gli porse le zampe anteriori e lui le afferrò, quindi saltellarono qua e là allegramente. Il suo muso si faceva nitido ora, e divenne più chiaro a mano a mano che facevano girotondo… era una buffa, terribile, amichevole faccia.
Ad un tratto fu come se si fosse infilato in un cespuglio i cui rami erano braccia e mani. Lo afferrarono in più punti, sollevandolo e tirandolo indietro verso le sbarre di metallo. Poté udire la voce di Nitty, ma stava urlando e non si capiva quel che dicesse. Anche una donna strillava… no, parecchie donne, mentre un uomo dalla voce a lui sconosciuta sbraitava: — L’abbiamo preso! L’abbiamo preso! — Little Tib capì che si riferiva a lui, visto che erano in molti ad averlo preso.
Un’altra voce, stavolta quella del Dr. Prithivi, stava ansimando: — Lo tengo. Lasciatelo, che possa sollevarlo da questa parte!
Little Tib alzò il piede sinistro e lo mosse davanti a sé. Non c’era niente lì, niente del tutto. Il leone se n’era andato e in quel momento seppe dove si trovava: sul ciglio di uno strapiombo, che poco più avanti precipitava interminabilmente. Lo spavento lo raggelò.
— Lasciatelo, che io lo possa sollevare! — ripeté il Dr. Prithivi. Little Tib notò quanto fossero piccole e molli le mani di lui. Poi quelle più grosse di Nitty lo agguantarono da un lato, per un braccio e una gamba, e quelle meno robuste di Mr. Parker (o di un altro come lui) lo presero dall’altro. Fu sollevato, tirato indietro e rimesso a terra.
— Camminava nell’aria… — ansimò una donna. — E ballava!
— Questo bambino deve venire con me — esclamò il Dr. Prithivi. — Toglietevi di mezzo, per favore. — Afferrò Little Tib per un polso. Nitty però lo sollevò di nuovo e se lo mise a cavalcioni sulle spalle, con la testa fra le gambe. Lui mise le mani fra i folti capelli di Nitty e vi si afferrò. Altre mani si stavano allungando verso di lui; quando lo raggiungevano si limitavano però a sfiorarlo, come se non osassero fare di più.
— Ti metto giù — disse Nitty poco dopo. — Bada a non battere la testa. — Poi sotto i suoi piedi ci furono gli scalini dell’autobus, e il Dr. Prithivi lo aiutò a salire.
— Devi essere presentato al Dio — disse l’uomo. L’interno del veicolo era caldo e soffocante, e vi stagnava un odore dolciastro e opprimente. — Ecco qua. Adesso devi pregare. Hai qualcosa per fare un’offerta?
— No — disse Little Tib. La gente lo aveva seguito all’interno dell’autobus.
— Allora prega soltanto. — Il Dr. Prithivi doveva avere un accendisigaro: Little Tib ne sentì lo scatto. Poi ci fu il Ooooh! di meraviglia di quelli che erano entrati.
— Colui che ora vedete è Deva — disse loro il Dr. Prithivi. — Poiché non siete abituati a Lui, la prima cosa che notate è che Egli ha sei braccia. È per questo motivo che io porto questa croce, anch’essa fornita di sei bracci. Ma Deva è anche in rapporto con la cristianità, poiché come vedete in una mano tiene una croce a due bracci. Nelle altre (comincerò dalla seconda e farò il giro) stringe la mezzaluna dell’Islam, la Stella di Davide, un’immagine del Buddha, un fallo, e una spada katana, che io ho scelto a rappresentare lo scintoismo.
Little Tib cercò di pregare, come il Dr. Prithivi aveva richiesto. Per un verso era conscio di ciò che aveva fatto quando s’era messo a ballare con il leone, ma per l’altro no. Perché non era precipitato? Immaginò cos’avrebbe potuto provare se fosse andato a spaccarsi la testa sulle rocce in fondo al burrone, e fu scosso da un tremito.
Ricordava benissimo l’aspetto delle rocce. A forma di patata ma molto più grosse, dure e grigie. Era perduto in una landa rocciosa, dovunque si levavano cupe muraglie di pietra e non vi cresceva neppure un filo d’erba. Si fermò all’ombra di uno di quei monoliti per proteggersi dal calore; riusciva a vedere una parete rocciosa davanti a sé, oltre la giogaia di macigni riarsi, ma stavolta la consapevolezza di godere di nuovo della vista non lo rallegrò. Aveva sete, e indietreggiando nell’ombra si accorse che alle sue spalle c’era il vuoto. L’ombra diventava sempre più scura e sembrava sprofondare nelle viscere della montagna. S’avviò in quell’oscurità, e allorché l’ultimo barlume di luce diurna scomparve dietro di lui si ritrovò a essere di nuovo cieco.
La caverna (ora capiva che quella era una caverna) s’allungava interminabilmente nella roccia. Malgrado l’assenza della luce del sole a Little Tib parve che si facesse sempre più calda. Poi da qualche luogo davanti a sé udì provenire un tramestio, come se una quantità di sassi fossero stati rovesciati sul terreno roccioso e continuassero a rimbalzare attorno. Il rumore era strano, ma Little Tib si sentiva stanco e sedette, limitandosi ad ascoltarlo.
Come se quell’atto fosse stato un segnale si accesero delle torce: prima una sulla sinistra della caverna, quindi un’altra sulla parete opposta. Alle sue spalle una grata di sbarre s’abbassò con fragore, e due grottesche figure simili a ragni si mossero verso di lui. I loro corpi erano piccoli e grassocci, avevano gambe e braccia come rami secchi, facce grinzose e folli dai collerici occhi strabuzzati, masse di fantomatici capelli torreggiavano sulle loro teste, esibivano baffi simili ai sensori di insetti notturni e barbe a tre punte, le quali sembravano dotate di vita propria e si torcevano qua e là come serpenti. Quegli insoliti individui portavano accette dal lungo manico, indossavano vesti rosse e avevano le più larghe cinture di cuoio che Little Tib avesse mai visto. — Fermo! — gridarono. — Stop, smetti, trattieniti e arresta te stesso. Stai sconfinando nel reame del Re degli Gnomi!
— Mi sono fermato — rispose Little Tib. — E non posso arrestare me stesso perché non sono un poliziotto.
— Questo non è quel che ti abbiamo chiesto — lo rimbrottò uno degli individui dal volto accidioso.
— Ma è un insulto — sbottò l’altro. — Noi siamo Poliziotti del Regno, lo sai bene, ed è tuo dovere unirti all’esercito.
— Nel tuo caso — continuò il primo gnomo, — ci sarà la squadra di disciplina.
— Vieni con noi! — esclamarono entrambi. Lo afferrarono per ie braccia e cominciarono a trascinarlo sul sentiero che serpeggiava fra le stalagmiti.
— Lasciatemi — supplicò Little Tib. — Non sapete neppure chi sono.
— E neppure ci importa di saperlo.
— Se fossero qui Nitty e Mr. Parker vi aggiusterebbero loro.
— Non potrebbero aggiustare nessuno, perché non siamo rotti. E ora ti porteremo dinanzi al Re degli Gnomi.
Attraversarono una tortuosa serie di caverne dove l’unica luce era quella degli occhi degli gnomi, ed altre più vaste dal pavimento fangoso e piene di echi, al centro delle quali scorreva un rigagnolo. Dapprima Little Tib pensò che tutto fosse piuttosto immaginario, ma le cose diventavano sempre più reali a mano a mano che procedevano, come se gli gnomi assorbissero solidità e realtà da quel calore sotterraneo, e infine lui stesso dimenticò che fuori esistevano altri luoghi, e quel che dicevano gli gnomi non gli parve più né buffo né fantasioso.
La caverna del Re degli Gnomi era illuminata vivamente, e sulle pareti brillavano gemme e pepite. Gli arazzi erano d’oro, non di stoffa dorata ma d’oro vero, ed il Re sedeva a gambe incrociate su un grosso cuscino trapunto di diamanti. — Tu sei sconfinato nel mio dominio — disse. — Come ti giustifichi? — Il suo aspetto fisico era identico a quello degli altri gnomi, benché fosse più magro e basso.
— Mi affido alla vostra pietà — disse Little Tib.
— Allora sei colpevole?
Little Tib scosse il capo.
— Devi esserlo. Solo i colpevoli supplicano la mia pietà.
— Credevo che voi perdonaste gli sconfinamenti — osservò Little Tib, e appena l’ebbe detto tutte le luci che illuminavano la sala del trono si spensero. Le sue guardie cominciarono a imprecare, e lui sentì il fruscio delle loro accette che nel buio fendevano l’aria alla ricerca della sua testa.
Corse via, pensando che poteva nascondersi dietro uno degli arazzi d’oro, ma le sue mani protese non riuscirono a trovarlo. Allora continuò a fuggire a caso, finché dopo un po’ fu certo di non essere più nella sala del trono. Era su! punto di fermarsi allorché vide una debole luce, cosi fioca che per un poco gli parve soltanto uno scherzo degli occhi, come i bagliori che scorgeva premendovi le dita sopra. Questo è il mio sogno, si disse, e posso creare delle luci dovunque io voglia metterle. Benissimo allora, voglio la luce del sole, e quando sarò uscito ci saranno Nitty e Mr. Parker accampati con me da qualche parte, in un bel posto accanto all’acqua fresca di un ruscello, ed io sarò capace di vedere.
La luce si fece più grande e luminosa; aveva il tono dorato dei raggi del sole.
Poi Little Tib vide degli alberi, e cominciò a correre. Stava passando di corsa fra le loro forme verdi quando capì d’un tratto che non erano affatto alberi veri, e che la luce proveniva da essi: il cielo sopra di lui era una nuda volta di roccia. Si fermò, allora. I tronchi e i rami degli alberi erano d’argento, le foglie erano d’oro, l’erba sotto i suoi piedi non era erba bensì un tappeto di gemme verdi, e uccelli i cui occhi erano rubini autentici volavano fra quella vegetazione… solo che non erano uccelli veri, ma giocattoli. Nitty e Mr. Parker non c’erano, e neppure il ruscello.
Era quasi sul punto di mettersi a piangere quando notò la frutta. Pendeva sotto le foglie ed era d’oro anch’essa, ma per dei frutti quello non era un colore innaturale: avevano l’aspetto di grosse mele. Little Tib si chiese se sarebbe stato capace di staccarle dagli alberi, e la prima che toccò gli cadde fra le mani. Non era abbastanza pesante da sembrare solida. Dopo qualche istante vide che le due metà erano avvitate l’una sull’altra. Sedette sull’erba, che nel frattempo era diventata vera erba o un tappeto spesso e verde, e la aprì. Nell’interno c’era un pezzo di carne e un po’ di verdura, ma quel cibo era troppo caldo per poter essere mangiato. Vi rovistò dentro sperando di trovare qualcosa di più commestibile, ma non c’era altro che carne quasi arroventata e verdura così bollente che mettersela in bocca era impossibile.
Infine trovò una piccola tazza con il coperchio. Dentro c’era un po’ di tè, così caldo che gli bruciò le labbra, ma lui cercò di berne ugualmente un sorso. Deposta la tazza si alzò e proseguì attraverso quella foresta d’oro e d’argento, sperando di trovare un posto migliore. Tutti gli alberi però svanirono di colpo, e si ritrovò immerso nella tenebra. I miei occhi sono andati, pensò, mi sto svegliando. Poi vide più avanti un circolo di luce, risentì il tramestio, e seppe che non si trattava di sassi che rimbalzavano al suolo bensì di picconi, centinaia e centinaia, che scavavano l’oro nelle miniere degli gnomi.
Il cerchio di luce si allargò… ma nello stesso tempo si fece più scuro, come se in esso crescesse un’ombra a forma di stella. Poi l’ombra si solidificò nel corpo di uno gnomo che veniva verso di lui. E subito ce ne fu un intero esercito: l’uno esattamente dietro l’altro e con le braccia allargate in fuori, cosicché quell’immagine sembrava un solo gnomo con mille braccia, tutte protese per afferrare lui.
In quel momento si svegliò, e ogni cosa svanì nel buio.
Si alzò a sedere. — Finalmente ti sei svegliato, — disse Nitty.
— Sì.
— Come ti senti?
Little Tib non rispose; stava cercando di capire dov’era. Sotto di lui c’era un letto, dietro la schiena aveva un guanciale, e le sue mani sentirono un lenzuolo fresco e ben stirato. Ricordando che la dottoressa aveva parlato di un ospedale domandò: — Sono all’ospedale?
— No, siamo in un motel. Come stai?
— Bene, credo.
— Ricordi di esserti messo a ballare sul vuoto, nell’aria?
— Pensavo di essermelo sognato.
— Be’, per un attimo ho creduto anch’io di sognare… ma lo stavi facendo davvero. L’hanno visto tutti, quelli che erano lì vicino quando l’hai fatto. E poi, dopo che tornasti abbastanza vicino perché potessimo afferrarti e rimetterti con i piedi per terra, il Dr. Prithivi ti ha fatto rientrare nell’autobus.
— Questo lo ricordo — disse Little Tib.
— Poi ha spiegato qualcosa del suo lavoro e della sua religione, e ha chiesto delle offerte alla gente, ma intanto ti eri addormentato. Scottavi ancora di febbre, e Mr. Parker ed io abbiamo preferito non svegliarti.
— Ho sognato — disse Little Tib, e raccontò a Nitty del suo strano delirio onirico.
— Quando ti è sembrato di bere del tè, quella era la medicina che io ti stavo dando, ecco quel che penso. Solo che non era tè caldo, era acqua fredda. E quello lì non è stato un sogno, era un incubo.
— Non mi è sembrato tanto spiacevole — disse Little Tib. — Il Re era davvero lì, e avrei potuto parlargli e spiegargli quello che era successo. — Le sue mani scopersero l’esistenza di un tavolino a fianco del letto; sopra c’era una lampada. Pur sapendo che non l’avrebbe vista illuminarsi cercò l’interruttore e lo fece scattare. — Come siamo arrivati qui? — domandò.
— Be’, dopo la colletta, quando tutti se ne furono andati, quel Dr. Prithivi insisteva per svegliarti e parlare con te. Ma Mr. Parker ed io gli abbiamo detto che non glielo avremmo permesso, e che intanto ti serviva un posto per dormire. Così lui ha trasferito un po’ di denaro sul conto di Mr. Parker, e abbiamo potuto affittare questa stanza. In quanto a lui, dice che deve dormire sul suo autobus per accudire a quel Deva.
— E adesso è lì?
— No, è giù in città a parlare con la gente. Ancora non te l’ho detto, ma questo è successo ieri l’altro. Hai dormito un giorno intero, e anche qualcosa di più.
— Dov’è Mr. Parker?
— Si sta guardando in giro.
— Vuole vedere se il cantenaccio di quella finestra è ancora rotto, vero? E se le sbarre sono abbastanza larghe da lasciarmi passare.
— Questa è una delle cose, sì.
— Sono contento che tu sia rimasto con me.
— Si suppone che io debba avvertire il Dr. Prithivi appena sei sveglio. Questo è il nostro patto.
— Ma saresti rimasto lo stesso, vero? — Little Tib mise le gambe giù dal letto. Quella era la prima volta che si trovava in un motel, anche se non l’avrebbe voluto confessare, ed era ansioso di esplorarlo.
— Qualcuno avrebbe dovuto comunque restare con te. — Little Tib sentì le lievi note musicali di tasti telefonici che venivano premuti.
Più tardi giunse il Dr. Prithivi, e subito fece sedere Little Tib su una grossa seggiola dai braccioli imbottiti. Lui gli parlò del motivo che lo aveva spinto a ballare, e di ciò che aveva provato.
— Credo che tu possa vederci un poco. Non sei completamente cieco.
— No — disse lui, e Nitty aggiunse: — A Howard la dottoressa ci ha detto che non ha le retine. Come può vederci uno che non ha le retine?
— Ah, ora capisco. Allora qualcuno ti ha detto del mio autobus… dei disegni che ho fatto sulle fiancate. Sì, dev’essere così. Te ne hanno mai parlato, vero?
— Parlato di cosa? — chiese Little Tib.
Rivolto a Nitty il Dr. Prithivi disse: — Hai descritto a questo bambino i disegni che ci sono sul mio autobus?
— No — rispose Nitty. — Quando siamo saliti li ho guardati, però non gliene ho parlato.
— Già, credo anch’io. È poco probabile che li abbiate visti prima del momento in cui mi fermai per darvi un passaggio, e da allora siete sempre rimasti in mia presenza. Malgrado ciò, su una fiancata del mio bus c’è un disegno che rappresenta un uomo con la testa di leone. È Vishnù che distrugge il demone Hiranyakasipu. Non è eccezionale che un bambino, appena arrivato su un veicolo con un tale disegno, sia condotto a danzare nell’aria da un’entità dalla testa di leone? Inoltre è stato Vishnù a fare il giro dell’universo in due passi: questa è anch’essa una danza nell’aria, forse.
— Uh-uh! — borbottò Nitty. — Ma George, qui, non può aver visto quel disegno.
— Ma forse il disegno ha visto lui… questo è il punto che stai trascurando. Tuttavia, il leone ha molti significati diversi. Fra gli ebrei è il simbolo della tribù di Giuda: questa è la ragione per cui l’Imperatore d’Etiopia veniva chiamto il Leone di Giuda. Anche il figlio adottivo di Maometto, il cuo nome mi sfugge ogni volta che ne parlo, era conosciuto come il Leone di Dio. La cristianità stessa è ricca di leoni. Hai forse notato che ho domandato al ragazzo, in particolare, se il leone da lui visto aveva le ali. L’ho fatto perché il leone alato è l’emblema di San Marco. Ma un leone senza ali indica il Cristo… questo in base all’antica credenza secondo cui i piccoli del leone nascono morti, ed è la leonessa che leccandoli li porta alla vita. Nelle opere di Sir C.S. Lewis il leone compare a questo modo. E nella preghiera rivelata a Santa Brigida di Svezia, il Cristo è detto: Forte leone, immortale ed invincibile Re.
— Ed è il leone quello che giacerà con l’agnello quando verrà il tempo — disse Nitty. — Forse non so molto di queste cose, ma un po’ ho letto anch’io. E l’agnello è una delle immagini di Gesù. Anche il bambino è un’immagine di Gesù.
La voce di Mr. Parker intervenne: — Che ne sapete voi due che Dio abbia qualcosa a che fare con questo? — L’uomo s’avvicinò, e sedette sul bordo del letto.
— In ogni cosa c’è la mano di Dio, Mr. Parker — gli rispose il Dr. Prithivi. — Se lei provasse che così non è, sarebbe solo una sua opinione. E un’opinione non sarebbe una prova.
— Certo, certo, questa è una posizione filosofica che non può essere attaccata, visto che nel suo dogma contiene già la replica a ogni attacco. Ma se non può essere confutata, non può neppure essere dimostrata… quindi è soltanto una sua opinione personale. La mia osservazione significava che non è Dio colui di cui state parlando. Lei cercava di scoprire la presenza di una vera e reale Mano di Dio… per prenderGli le impronte digitali. Io sto invece dicendo che esse possono non esserci. Il leone danzante può essere solo un prodotto dell’immaginazione di George… un animale che balla. La levitazione, poiché di questo si è trattato, è stata spesso posta in connessione con altre facoltà paranormali.
— Questo può essere vero — concesse il Dr. Prithivi, — ma dovremmo comunque domandarlo a lui. George, quando ballavi con l’uomo-leone hai avuto l’impressione che fosse il Dio Vishnù?
— No — rispose Little Tib. — Un angelo.
Ma più tardi, dopo che il Dr. Prithivi gli ebbe posto le sue domande importanti e se ne fu andato, Little Tib chiese a Nitty cosa avrebbe fatto quella sera. Non aveva capito quello che il Dr. Prithivi gli aveva detto.
— Dovrai apparire — disse Mr. Parker. — Tu sei il ragazzo-Krishna.
— Basta che tu faccia finta — aggiunse Nitty.
— Suppongo che debba essere una mascherata, più o meno. Il Dr. Prithivi ha chiesto a certa gente, interessata alla sua religione, di recitare nei panni di veri personaggi mitici. Tutti vogliono vedere te, così il momento culminante sarà quando apparirai come Krishna. Ha portato un costume da farti indossare.
— Dov’è? — chiese Little Tib.
— Meglio che tu non te lo metta, per ora. La cosa fondamentale è che, mentre tutti quanti guardano te e Nitty e il Dr. Prithivi e le altre maschere, io avrò l’opportunità di entrare nel municipio della contea e di riprogrammare il computer come ho stabilito.
— L’idea mi sembra funzionante — disse Nitty. — Pensa che riuscirà a metterla in pratica?
— È solo questione di ottenere una copia del programma in chiaro, e di aggiungerci alcune cosette. Adesso il programma prevede la graduale eliminazione del personale umano, là dove i dati indicano che le loro funzioni possono essere svolte con più economia dalle macchine. La mia aggiunta eliminerà dalla lista il lavoro di sovrintendente scolastico.
— E il mio — gli ricordò Nitty.
— Sì, naturalmente. Comunque, è altamente improbabile che ciò possa essere notato nella massa di regolamenti in linguaggio cifrato… o almeno, nessuno lo noterà per parecchi anni, e anche allora chi dovesse esaminare i dati penserà che sono il frutto di una decisione amministrativa.
— Uh-uh!
— Poi aggiungerò un comma grazie al quale saremo riammessi al lavoro, e dati che permetteranno a George d’essere iscritto al programma pro-ciechi della Grovehurst. L’intera faccenda non dovrebbe prendermi più di un paio d’ore al massimo.
— Sa cosa sto pensando? — mormorò Nitty.
— Che cosa?
— Penso che questo ragazzo qui è… quello che lei potrebbe chiamare un operatore di miracoli.
— Ti riferisci alla gamba della bambina. Non c’era nessun leone danzante l’altro ieri.
— Prima ancora. Lei ricorda di quando quelle donne della polizia ferroviaria ci hanno tirato la bomba a gas?
— Piuttosto vagamente a dirti la verità.
(Little Tib s’era alzato. In quel momento aveva già stabilito che il motel era fornito di una cucina, e che Nitty aveva acquistato della Coca Cola da mettere nel frigo. Si chiese se i due lo stessero guardando.)
— Già — disse Nitty. — Be’, prima di questo fatto e per molto tempo, voglio dire prima della bomba a gas, lei era stato piuttosto male. Capisce di cosa sto parlando? Era convinto d’essere ancora il sovrintendente, e si arrabbiava quando qualcuno lo metteva in dubbio.
— Avevo problemi emozionali, causati dalla perdita della mia posizione… forse più gravi di quel che sarebbe accaduto a un altro. Ma ormai li ho superati.
— Le è occorso un bel po’ di tempo.
— Qualche settimana, certo.
(Little Tib aprì lo sportello del frigorifero più in silenzio che poté, e sentì il lieve click della luce interna. Si chiese se non avrebbe dovuto offrirsi di portare qualcosa da bere a Nitty e a Mr. Parker, ma stabilì che era meglio se i due non badavano a lui.)
— Ci ha messo tre anni.
(Le dita di Little Tib trovarono una lattina fredda nello scomparto superiore. Tirò la linguetta e la aprì con un pop soffocato. L’odore era insolito, ma dopo qualche istante capì che si trattava di birra e la depose. Nello scomparto di sotto c’era la Coca Cola. Chiuse il frigorifero.)
— Tre anni!
— All’incirca, sì.
Ci fu una pausa. Little Tib si chiese perché i due uomini avessero smesso di parlare.
— Forse hai ragione. Non riesco a ricordare che anno sia. Posso dirti in che anno sono nato, o la data della mia assunzione alla scuola. Ma non so in che anno siamo adesso: tu lo sai?
Nitty glielo disse. Poi per alcuni lunghi minuti tacquero ancora.
— Ricordo di avere alquanto viaggiato con te, ma non mi sembra che…
Nitty non disse niente.
— In quello che ricordo c’è sempre l’estate. Come posso ricordare soltanto l’estate se sono trascorsi tre anni?
— In inverno eravamo soliti scendere sulla costa del Golfo; Biloxi, Mobile, Pescagoula. Qualche volta siamo andati fino a Panama City e a Tallahassee: è stato due anni fa.
— Be’… adesso sto perfettamente.
— Lo so. Posso vedere che lei sta bene. Sto dicendo però che lei è stato male… per molto tempo. Poi quelle due donne ci hanno tirato la bomba a gas. Il gas è scomparso, e lei è guarito. Le due cose sono successe insieme.
— Ho preso una bella botta in testa quando sono corso dritto contro la parete di quel vagone.
— Non credo che sia stato questo.
— Vuoi dire che pensi che sia stato George? Perché non l’hai domandato a lui?
— Finora è stato troppo malato. Inoltre non sono sicuro che lo sappia. Non ha capito molto di quel che ha fatto alla gamba della bambina, anche se gliel’ho visto fare.
— George, sei stato tu a farmi guarire quando eravamo sul treno? E sei stato tu a far scomparire il gas?
— Non le dispiace se ho preso la Coca Cola, vero?
— No, no. Ma hai fatto tu queste cose, sul treno?
— Non lo so — disse Little Tib. Si chiese se doveva confessare d’aver aperto la lattina di birra.
— Come ti sentivi, sul treno? — domandò Nitty. La sua voce, solitamente gentile, parve più dolce che mai.
— Mi sentivo strano.
— È naturale che si sentisse strano — disse Mr. Parker. — Aveva la febbre.
— Lo stesso Gesù non sempre sapeva. Disse: Chi mi ha toccato? E anche: Sento che il potere mi abbandona.
— Matteo, quattordici; e Luca, diciotto. Certo — borbottò Mr. Parker.
— Non è necessario che lei creda che fosse Dio. Anzi era un uomo, di carne e ossa, eppure fece tutte quelle cose. Curò i malati, e camminò sulle acque.
— Non vide nessun leone ballerino.
— Anche San Pietro camminò sull’acqua: San Pietro Lo vide. Ma quello che mi sto chiedendo è: cosa succederebbe a lei se questo ragazzo se ne andasse?
— Niente mi succederebbe. Se sto bene, sto bene. Tu credi che sia Gesù o qualcosa di simile. Comunque, dopo la morte di Gesù non accadde nulla alla gente che lui aveva curato, no?
— Non lo so — disse Nitty. — Questo non è scritto.
— E poi perché dovrebbe andarsene? Noi ci prenderemo cura di lui, non è così?
— Certo che è così.
— Allora sei a posto. Quel costume glielo metterai addosso prima di uscire?
— Aspetterò finché voi due non sarete dentro l’edificio. Poi, quando lui ne verrà fuori, lo riporterò qui per vestirlo e andremo al raduno.
Little Tib sentì il rumore caratteristico delle saracinesche quando Mr. Parker tirò su quella della finestra: un ritmico mitragliare di colpetti. L’uomo chiese: — Pensi che farà abbastanza buio a! momento in cui arriveremo là?
— No.
— Credo che tu abbia ragione. La finestra ha sempre la serratura rotta, e direi che lui riuscirà a passare attraverso le sbarre. Quanto tempo è passato da quando l’abbiamo esaminata? Tre anni?
— Fu l’anno scorso — disse Nitty. — L’estate scorsa.
— Mi è parsa identica. George, tutto ciò che tu dovrai fare è di darmi il modo di entrare nell’edificio. Ma è necessario che io entri dalla porta del municipio solo quando non ci sarà gente che possa vedermi. Capisci?
Little Tib disse che aveva compreso.
— Dunque, l’edificio è vecchio, e tutte le finestre del pianterreno hanno le sbarre, perciò anche se tu aprissi per me una di quelle io non potrei entrare. Ma c’è una porticina secondaria, usata solo come ingresso di servizio, e questa è chiusa all’esterno con un solido lucchetto. Io voglio che tu cerchi la chiave del lucchetto, e che me la consegni attraverso la finestra.
— Dov’è il computer? — chiese Little Tib.
— Questo non importa… mi occuperò io del computer. Il tuo compito sarà solo quello di farmi entrare.
— Voglio sapere dov’è — insistette Little Tib.
— Perché mai? — chiese Nitty.
— È una cosa che mi fa paura.
— Non può farti alcun male — disse Nitty. — È solo un grosso mastica-numeri. Comunque, la notte viene spento. Non è vero, Mr. Parker?
— A meno che non stiano facendo del lavoro straordinario.
— Be’, in ogni modo non devi averne paura — ripeté Nitty.
Poi Mr. Parker spiegò a Little Tib dove pensava fossero le chiavi della porticina laterale, e disse che se non le avesse trovate avrebbe dovuto aprirgli dall’interno la porta principale. Nitty gli chiese se aveva voglia d’ascoltare un po’ la televisione, quindi accesero l’apparecchio su un canale che trasmetteva uno show di musica Western e Country, finché non venne l’ora di andare. Con Nitty che teneva Little Tib per mano i tre s’incamminarono per le strade della città. Il ragazzino avvertiva la tensione nelle dita che stringevano le sue. Sapeva che Nitty stava pensando a ciò che sarebbe stato di loro se qualcuno li avesse scoperti. Sentendo in distanza della musica (non i ritmi Country e Western che aveva trasmesso la televisione) e per distrarre un poco Nitty dalle sue preoccupazioni gli chiese che cosa fosse.
— Quello è il Dr. Prithivi — rispose Nitty. — Sta facendo musica per chiamare gente, così avrà degli spettatori per il suo sermone e per lo spettacolo in costume.
— La sta suonando lui?
— No, è roba che ha registrato. C’è un altoparlante sul tetto dell’autobus.
Little Tib tese gli orecchi. La musica doveva essere piuttosto distante, ma echeggiava come se fosse molto più lontana di quel che era. Quasi che non appartenesse affatto alla città di Martinsburg. Ne domandò a Nitty il motivo.
Fu Mr. Parker a rispondere: — Quella che tu avverti è una lontananza nel tempo, George. La musica indiana per flauto risale, forse, al V secolo prima di Cristo. Oppure anche al XV. È come una creatura antichissima che si è dimenticata di morire, e ancora vaga come un fantasma sulla Terra.
— Ma qui non è mai venuta prima d’ora, vero? — chiese Little Tib. Mr. Parker disse che aveva certo indovinato, e lui osservò: — Allora non può essere poi tanto antica. — Mr. Parker rise, ma Little Tib ripensò al periodo in cui la donna che abitava in fondo alla strada aveva avuto il suo ultimo bambino. Era un esserino fiacco, piccolo e sdentato, come sua nonna, e lui aveva creduto che fosse vecchio. Poi qualcuno gli aveva spiegato che invece era qualcosa di nuovo, e che sarebbe vissuto anche fin dopo che la madre fosse morta di vecchiaia. Si domandò chi altro sarebbe sopravvissuto tanto a lungo… Mr. Parker e il Dr. Prithivi?
Svoltarono un angolo. — È appena un po’ più avanti — mormorò Nitty.
— C’è gente che ci sta guardando, qui?
— Non preoccuparti. Non faremo niente finché c’è gente in vista.
D’improvviso sentì le mani di Mr. Parker che gli tastavano le spalle e i fianchi. — Sì, dovrebbe passare — disse l’uomo, — snello com’è.
Girarono un altro angolo, e sotto i piedi di Little Tib ci furono foglie morte o vecchi giornali. — Certo che è buio, qui — sussurrò Nitty.
— Come vedi — disse Mr. Parker, — nessuno può scoprirci. Ecco, è qui, George. — Prese una mano di Little Tib e la sollevò, facendogli toccare una sbarra. — Allora, ricapitoliamo: attraverso il magazzino, poi attraverso il salone principale, girare a destra, oltrepassare sei porte… almeno, ne ricordo sei, poi giù per una breve rampa di scale. Lì c’è la porta del locale caldaie, e contro il muro alla tua destra troverai il banco del portinaio. Le chiavi devono essere appese a un gancio accanto al banco. Portale qui e dammele. Se non le troverai, torna qui lo stesso e ti dirò come arrivare alla porta principale e aprirla.
— Le chiavi le rimetterà a posto lei? — chiese Little Tib. Stava infilando la gamba sinistra fra le sbarre, cosa che non presentò difficoltà. I suoi fianchi scivolarono dentro, e sentì l’imposta pesante e scrostata ruotare all’interno sotto la pressione del ginocchio.
— Sì, la prima cosa che farò dopo che mi avrai fatto entrare sarà di andare nel locale caldaie a rimettere le chiavi a posto.
— Benissimo — disse Little Tib. Sua madre gli aveva detto che rubare era male, benché da quand’era fuggito di casa avesse più volte sgraffignato del cibo.
Per un poco ebbe paura di strapparsi via un orecchio, poi finalmente la testa passò. Sentì il lieve tonfo della finestra contro la parete, quindi sotto i suoi piedi ci fu il pavimento. Avrebbe voluto chiedere a Mr. Parker dove fosse la porta del suo ufficio, ma questo gli avrebbe forse fatto pensare che aveva paura. Poggiò una mano sul muro, protese l’altro braccio e cominciò ad avanzare a tentoni. Gli sarebbe piaciuto avere il suo bastone, ma in quel momento non riusciva a ricordare dove l’avesse lasciato.
— Permetti che ti faccia strada io.
Era l’ometto dall’aria più buffa che Little Tib avesse visto.
— Io sono molle. Se vado a sbattere contro qualcosa non mi farò male.
Non era per nulla un uomo, pensò Little Tib. Soltanto un vestito raffazzonato, e una testa pitturata in alto sopra di esso. — Perché riesco a vederti? — chiese Little Tib.
— Tu sei al buio, non è così?
— Penso di sì — rispose Little Tib. — Non posso dirlo.
— Infatti. Adesso, quando la gente che ci vede è alla luce, può vedere le cose che le stanno attorno. E quando è al buio non può vederle. È giusto o no?
— Suppongo di sì.
— Ma quando tu sei alla luce, non puoi vedere le cose che sono lì. Perciò è naturale che quando sei al buio tu veda cose che non ci sono. Capisci com’è semplice?
— Sì — disse Little Tib, che non aveva capito affatto.
— Ora te lo dimostro. Guarda: questo lo puoi vedere, e non si tratta certo di una cosa semplice. — Il Vestito-Uomo aveva messo una mano (un vecchio guanto, notò lui) sulla maniglia di una grossa porta metallica, e nell’istante in cui l’aveva toccata anche Little Tib era riuscito a vederla. — È chiusa — disse il Vestito-Uomo.
Little Tib stava ancora riflettendo su quello che l’altro aveva detto prima. — Sei davvero abile — disse al Vestito-Uomo.
— Questo è perché possiedo il miglior cervello del mondo. Mi è stato dato dal grande e potente Stregone in persona.
— Sei più intelligente del computer?
— Molto, molto più intelligente del computer. Ma non so come si apre questa porta.
— Ci hai provato?
— Be’, ho premuto la maniglia… solo che non si muove. E ho cercato di spingere. Questo è provare, suppongo.
— Penso anch’io — disse Little Tib.
— Ah, tu stai pensando… questo è bene. — Little Tib era davanti alla porta, e il Vestito-Uomo si scostò per lasciargliela toccare. — Se tu avessi le pantofole di rubino — continuò, — potresti sbattere i tacchi tre volte, esprimere il desiderio di passare dall’altra parte, e ci saresti in un batter d’occhio. Ma naturalmente tu sei dall’altra parte.
— No, che non ci sono — replicò Little Tib.
— Sì, ci sei — insistette il Vestito-Uomo. — Tu vorresti essere di là: di conseguenza questa è l’altra parte.
— Vorrei — ammise Little Tib. — Però non posso oltrepassare questa porta.
— Non devi farlo, adesso — disse il Vestito-Uomo. — Sei già dall’altra parte. Solo, bada a non inciampare negli scalini.
— Quali scalini? — chiese Little Tib, e nel parlare fece un passo indietro. I suoi calcagni urtarono in qualcosa che non s’era aspettato, e cadde a sedere su qualcos’altro la cui altezza era superiore a quella del pavimento su cui era passato poco prima.
— Questi scalini — rispose con calma il Vestito-Uomo.
Little Tib li stava tastando con le mani. Erano in ruvida pietra con l’orlo metallico, e continuavano ad essere solidi sotto le sue dita come lo erano stati sotto il suo sedere quando vi era caduto. — Non ricordo di essere sceso per questa scala — si lamentò.
— E non l’hai fatto. Ma devi salirla per arrivare alla sala di sopra.
— Quale sala di sopra?
— Quella la cui porta si apre nel corridoio — lo informò il Vestito-Uomo. — Devi passare dal corridoio, girare come ti è stato detto e…
— Lo so — disse Little Tib. — Mr. Parker me l’ha detto e ripetuto. Ma non mi ha parlato di questa porta chiusa, né di questi scalini.
— Dev’essere perché Mr. Parker non si ricorda l’interno di questo edificio esattamente come credeva.
— Lui lavorava qui: così ha detto. — Little Tib cominciò a salire. Da una parte c’era una ringhiera. Temeva che se non avesse continuato a parlare con il Vestito-Uomo lui se ne sarebbe andato. Ma non riusciva a pensare a niente da dire. Tuttavia il suo compagno non sparì. Poi rammentò che il leone non aveva parlato affatto.
— Potrei trovare le chiavi per te — disse il Vestito-Uomo. — Potrei portartele qui.
— Non voglio che tu vada via — protestò Little Tib.
— Ci vorrà solo un momento. Io non faccio che cadere, ma le chiavi non si romperanno.
— No — disse Little Tib. Il Vestito-Uomo parve così ferito che aggiunse: — Ho paura…
— Non puoi aver paura del buio. Hai paura di restare solo?
— Un poco. Ma ho paura che tu non possa portarmele sul serio. Ho paura che tu non sia vero, e io voglio che tu sia vero.
— Posso portartele. — Il Vestito-Uomo sporse il torace e assunse una posa eroica, ma l’erba secca che riempiva il suo abito mandò un triste fruscio. — Io sono vero. Mettimi alla prova.
C’era un’altra porta: le dita di Little Tib la trovarono. Questa non era chiusa, e quando la oltrepassò la pietra grezza lasciò il posto a un pavimento liscio. — Anch’io sono vero — disse una voce sconosciuta. Il Vestito-Uomo era ancora lì accanto, ma a quella frase sembrò farsi più evanescente.
— Chi sei tu? — chiese Little Tib. Ci fu un rumore cupo come un tuono lontano. La strana voce gli era parsa detestabile fin dal primo istante, ma quando sentì quel tuonare la odiò ancora di più. Non era veramente un tuono, pensò. Gli ricordava il sogno sugli gnomi, ed era qualcosa di ancora più spiacevole: come il brontolio d’immense pietre che si masticassero l’una con l’alti a in fondo al più cupo abisso del mondo. Anzi, perfino peggio di questo.
— Non andrei là dentro se fossi te… — disse il Vestito-Uomo.
— Se le chiavi sono là, devo entrare a prenderle — replicò Little Tib.
— Non sono affatto là. In realtà non sono neppure nelle vicinanze… si trovano parecchie porte più avanti. Tutto ciò che devi fare è di oltrepassare la porta.
— Chi è?
— È il computer — gli rivelò il Vestito-Uomo.
— Non credevo che i computer parlassero a questo modo.
— Parlano solo a te. E non tutti lo fanno Tu non entrare, e il resto andrà bene.
— E se lui uscisse per seguirmi?
— Non lo farà. Ha paura di te, come tu hai paura di lui.
— Non entrerò — promise Little Tib.
Ma appena ebbe oltrepassato la porta dov’era la cosa, udì un grugnito come se essa fosse in preda alla tortura; allora si volse ed entrò in quella stanza. Trovarsi lì dentro lo spaventava, e tuttavia sapeva di non essere nel posto sbagliato: aveva fatto la cosa giusta, evitando un errore. Comunque, questo non diminuiva il suo spavento. La voce orribile disse: — Tu cos’hai a che spartire con noi? Sei venuto a tormentarci?
— Qual è il tuo nome? — chiese Little Tib.
Il rumore di tuoni che rotolavano in abissi lontani tornò a farsi sentire, e stavolta Little Tib ebbe l’impressione di udire in esso il suono di molte voci, centinaia o migliaia, che parlavano tutte insieme.
— Rispondimi — disse Little Tib. Avanzò finché non sentì sotto le mani i pannelli metallici della macchina. Era spaurito, ma sapeva che il Vestito-Uomo aveva ragione: anche il computer aveva l’identico timore di lui. Avvertiva la presenza del Vestito-Uomo alle sue spalle e si chiese se avrebbe osato tanto senza nessuno che lo proteggesse.
— Noi siamo legioni — disse l’orrenda voce. — Siamo moltissimi.
— Andate via! — Ci fu un gemito che avrebbe potuto stridere fuori dalle profondità della Terra. Un oggetto di vetro, che doveva far parte dell’arredamento del locale, cadde al suolo e andò in frantumi.
— Se ne sono andati — disse il Vestito-Uomo. Sedette sulla consolle del computer davanti a lui, e Little Tib vide che era più nitido e concreto ti prima.
— Dove sono andati? — domandò.
— Non lo so. È probabile che tu li incontri ancora. — E come a un’improvvisa riflessione aggiunse: — Sei stato molto bravo.
— Avevo paura. Ho ancora paura… più di quanta ne abbia mai avuta da quando sono scappato dalla casa nuova.
— Vorrei poterti dire che non devi aver paura di loro — sospirò il Vestito-Uomo, — né di nessun altro. Ma non sarebbe vero. Tuttavia posso dirti qualcosa di meglio: alla fine, stanne certo, tutto si risolverà bene. — Si tolse il floscio cappello nero, e Little Tib vide che la sua testa calva era davvero fatta in tela di sacco. — Poco fa non hai voluto lasciare che ti portassi le chiavi, ma ora che ne dici? O avrai paura quando non sarò più qui?
— No — disse Little Tib, — ma prenderò le chiavi da solo.
Ad un tratto il Vestito-Uomo scomparve. Little Tib restò con la sola percezione del liscio e freddo metallo del computer sotto le dita. Nella tenebra che lo circondava quella era l’unica realtà.
Non si preoccupò di cercare la finestra da cui era entrato: ne aprì un’altra e chiamò Nitty e Mr. Parker, aspirando l’aria fresca e odorosa della sera. Dalle sbarre consegnò loro le chiavi, poi scivolò fra esse. Prima ancora d’esser fuori del tutto sentì che Mr. Parker stava aprendo la porticina laterale.
— Ci hai messo molto — disse Nitty. — È stato brutto essere lì dentro da solo?
— Non era da solo — disse Little Tib.
— Non voglio neanche chiederti cosa significa. Sono sempre stato una testa dura, ma ci sono cose che preferisco non capire. Vuoi ancora andare al raduno del Dr. Prithivi?
— Lui desidera che andiamo, no?
— Tu sei la stella dello spettacolo, l’attrazione principale. Se non partecipi, sarà come un picnic senza le patatine salate.
In silenzio s’incamminarono di nuovo verso il motel. La musica di flauto che avevano già udito risuonava ora più forte e più ritmata, con vivaci clangori di gong che la sottolineavano. Little Tib restò in piedi su un tappetino mentre Nitty lo spogliava e gli avvolgeva poi una pezza di stoffa attorno ai fianchi. Un’altra gli fu arrotolata intorno alla testa, ebbe una collana da mettersi al collo, quindi qualcosa gli venne dipinto in mezzo alla fronte.
— Ecco qua. Non sei mai stato più elegante — disse Nitty.
— Mi sento strano — commentò lui.
Nitty affermò che non importava. Uscirono dai motel e camminarono per alcuni isolati. Agli orecchi di Little Tib giunsero la musica e il mormorio di una piccola folla, quindi sentì il familiare odore dolciastro dell’autobus del Dr. Prithivi, Domandò a Nitty se la gente l’avesse già visto, e lui rispose che tutti stavano guardando qualcosa sul palco montato di fianco al veicolo.
— Ah! — disse il Dr. Prithivi. — Eccovi qui. Siete arrivati appena in tempo.
Nitty volle sapere se Little Tib avesse l’aspetto giusto.
— Certo, proprio quello che ci vuole. Ma adesso deve avere anche il suo strumento. — Mise in mano a Little Tib un bastone lungo e leggero. Su di esso c’erano molti fori, comunque lui fu lieto di averlo e rifletté che se fosse stato necessario avrebbe potuto usarlo per tastare la strada.
— Ora è il momento che tu incontri i tuoi compagni di scena — disse il Dr. Prithivi. — Ragazzo Krishna, questo è il Dio Indra. Indra, ho il grande privilegio di presentarti il Dio Krishna, la più attraente incarnazione di Vishnù.
— Salve — disse una voce baritonale.
— Senza dubbio avete già una certa familiarità con la storia, ma ve la ripeterò di nuovo per rinfrescarvi la memoria prima che saliate sul mio piccolo palcoscenico. Krishna è il figlio della Regina Devaki, e questa signora è la sorella del malvagio Re Kamsa, che uccide tutti i figli di lei appena nascono. Per salvare Krishna la buona Regina lo nasconde fra gli abitanti di un villaggio; qui egli offende Indra, che sopraggiunge per distruggerlo…
Little Tib ascoltò con un orecchio solo, sicuro che non avrebbe mai potuto ricordare l’intera storia. Aveva già dimenticato il nome della Regina. Il legno del flauto era liscio e fresco fra le sue dita, l’aria dell’autobus sembrava più calda e pesante che mai, gravida di strani e soporiferi odori.
— Io sono il Re Kamsa — stava dicendo il Dr. Prithivi, — e prima di entrare in questo personaggio sarò un mandriano, così potrò dirvi cosa dovete fare. Attento a non abbattere la montagna quando ti arrampicherai su di essa.
— Starò attento — disse Little Tib, nel tono che aveva imparato a scuola.
— Ora io andrò avanti e preparerò il tuo ingresso. Quando sentirai il grosso gong battere tre colpi vieni fuori» Il tuo amico sarà li in attesa di portarti sul palco.
Little Tib sentì la portiera dell’autobus aprirsi e richiudersi. — Dov’è Nitty? — chiese.
La voce profonda di Indra (una voce che a lui parve dura e secca) disse: — Sta dando una mano.
— Non mi va di stare qui da solo.
— Non sei solo — disse Indra. — Ci sono io con te.
— Va bene.
— Ti è piaciuta la storia di Krishna e di Indra? Te ne racconterò un’altra. Una volta, in un villaggio non molto lontano da qui…
— Tu non sei di queste parti, vero? — chiese Little Tib. — Lo sento dalla parlata. Qui tutti parlano come Nitty e Mr. Parker, salvo il Dr. Prithivi che viene dall’India. Posso toccare la tua faccia?
— No, io non sono di qui — disse Indra. — Vengo da Niagara. Sai che cos’è?
— No — disse Little Tib.
— È la capitale di questa nazione… la sede del governo. Qua, tocca pure la mia faccia.
Little Tib allungò le mani. Ma il volto di Indra era legno, liscio e freddo come quello del flauto. — Tu non hai faccia — disse.
— Questo è perché indosso la maschera di Indra. Una volta, in un villaggio non molto lontano da qui, c’erano moltissime donne le quali volevano fare qualcosa di buono per il mondo intero. Così offrirono i loro corpi per certi esperimenti. Sai che cos’è un esperimento?
— No — disse Little Tib.
— I biologi presero piccole particelle dai corpi di queste donne… particelle che più tardi sarebbero diventate ragazze e ragazzi. E operarono nell’interno di queste particelle per fare dei cambiamenti.
— Che genere di cambiamenti? — chiese Little Tib.
— Cose che avrebbero fatto diventare i ragazzi e le ragazze più intelligenti, più forti e più sani… cambiamenti di questo tipo. Ora devi sapere che queste brave donne erano quasi tutte insegnanti in una scuola, o mogli di insegnanti.
— Capisco — disse Little Tib. Fuori la gente stava cantando.
— Dunque, quando queste ragazze e questi ragazzi furono nati, i biologi decisero di aver bisogno di altri bambini da studiare… bambini che fossero stati migliorati, cosicché potessero paragonarli a quelli che lo erano stati.
— Devono essere stati molti, questi bambini — azzardò Little Tib.
— I biologi offrirono denaro alla gente che avrebbe portato i suoi figli per lasciarli studiare, e molte furono le persone che io fecero: contadini, allevatori, gente del posto, e alcuni anche dalle città vicine. — Indra fece una pausa. Little Tib pensò che profumasse d’acqua di colonia, ma insieme anche d’olio e di ferro. Era ormai convinto che la storia fosse tutta lì quando Indra ricominciò a parlare:
— Tutto andò liscio, finché quei bambini e quelle bambine ebbero sei anni. Poi, al centro (gli esperimenti venivano fatti al centro medico di Houston) strane cose cominciarono a succedere. Cose pericolose; cose che nessuno riusciva a spiegare. — Indra tacque, come se aspettasse che lui chiedesse quali fossero state queste cose inesplicabili; ma Little Tib non disse nulla.
Infine Indra continuò: — Nei corridoi e nelle stanze adibite alla terapia furono viste persone e animali (talvolta anche dei mostri) che nessuno aveva visto entrare, e che neppure furono visti uscire. Animali da esperimento vennero liberati… apparentemente senza che le loro gabbie fossero state aperte. Parecchi mobili furono modificati, e in numerose occasioni grandi quantità di cibo di provenienza ignota furono trovate nelle sale di riposo.
«Quando fu chiaro che questi non erano casi isolati, bensì parti di un disegno predeterminato, furono codificati e introdotti in un computer… insieme a tutti gli altri eventi registrati nelle schede del centro medico. Fu subito evidente che essi coincidevano con gli esami periodici eseguiti sui bambini geneticamente migliorati.
— Io non sono uno di quelli — disse Little Tib.
— I bambini furono esaminati con cura. Migliaia di ore lavorative vennero spese per scoprire in loro abilità paranormali. Non ne fu trovata nessuna. Si decise di portare al centro soltanto metà del gruppo ogni volta. Sono certo che tu capisci il principio che c’era dietro ciò: se le attività paranormali si fossero verificate mentre c’era una delle due metà, essa poteva venire ancora dimezzata restringendo con questo metodo il numero dei soggetti sospettati. Ma non funzionò. I fenomeni accadevano durante la presenza di ambedue i gruppi.
— Ho capito.
La porta dell’autobus si aprì, lasciando entrare l’aria fresca della sera. La voce di Nitty disse: — Siete pronti voi due? Manca poco al momento del vostro ingresso in scena.
— Siamo pronti — disse Indra, e quando la porta fu richiusa continuò: — La nostra agenzia fu dunque sicura che, se i fenomeni accadevano con entrambi i gruppi, vi erano coinvolti due o più individui. Poi uno dei biologi che avevano iniziato l’esperimento (in quel momento, come capirai, il progetto era passato nelle nostre mani) durante una conversazione casuale con uno dei nostri agenti disse che i miglioramenti genetici da loro effettuati potevano anche accadere spontaneamente. Vorrei che tu facessi attenzione, adesso: è importante.
— Sto ascoltando — annuì doverosamente Little Tib.
— Alcuni di noi erano molto preoccupati di questo. Noi… ti sono familiari le unità per le elaborazioni dei dati, quelle che provvedono all’identificazione e si occupano degli assegni dell’assistenza sociale per i disoccupati?
— Uno ci guarda dentro, e quella può dirti chi sei — rispose lui.
— Sì. L’unità contiene un sistema per l’identificazione dei fuggiaschi. Ci aggiungemmo un nuovo apparato, che speravamo fosse sensibile ai soggetti potenzialmente paranormali. I biologi avevano riferito che un individuo paranormale poteva possedere certe singolari caratteristiche retiniche dal momento che costoro, notoriamente, riuscivano a vedere fenomeni tipo le auree di Kirlian, invisbili agli occhi normali. Alla banca centrale dei dati fu conferita la capacità d’individuare simili caratteristiche tramite i suoi terminali dislocati ovunque.
— Lo avrebbe guardato negli occhi e avrebbe saputo chi era — disse Little Tib. E dopo un momento: — Avreste dovuto fare così con quei bambini e quelle bambine.
— Lo facemmo — disse Indra. — Non fu individuata nessuna anormalità, ma il fenomeno continuava a verificarsi. — La sua voce si fece più profonda e solenne che mai. — Riferimmo questo al Presidente. Lui ne fu molto preoccupato, sapendo che nelle attuali instabili condizioni sociali la comparsa di un simile individuo può essere la molla che fa scattare gravi disordini interni. Fu deciso di mettere fine all’esperimento.
— Di dimenticarlo, e basta? — chiese Little Tib.
— Il materiale dell’esperimento doveva essere sacrificato per prevenire la continuazione dei fenomeni e le possibili conseguenze a livello di massa.
— Non capisco.
— Ci fu l’ordine di rimandare ai biologi i cervelli e i midolli spinali dei bambini per farli esaminare.
— Oh, conosco già questa storia — disse Little Tib. — Ma un angelo avvertì Giuseppe e Maria, ed essi portarono il bambino Gesù nella terra d’Egitto in groppa a un somarello.
— No — disse Indra, — quella è un’altra storia. All’esperimento fu così messo termine, e i fenomeni cessarono. Ma poche settimane più tardi scattò l’allarme automatico istallato nella banca centrale dei dati. Era stato identificato un individuo paranormale, a circa cinquecento chilometri dalla località dell’esperimento. Molti agenti furono inviati a fermarlo, ma non lo si poté rintracciare. Fu a questo punto che capimmo d’aver fatto un grave errore. Avevamo usato il metodo per l’identificazione e la cattura dei criminali già servito in altri casi: la distruzione delle due retine. Questo significava che il soggetto non avrebbe potuto essere identificato una seconda volta.
— Capisco — disse Little Tib.
— Questo metodo s’era dimostrato abbastanza valido contro i delinquenti: il soggetto poteva essere identificato con altri sistemi, mentre la risultante cecità gli impediva la fuga e un’efficace resistenza. Naturalmente il motivo per cui lo si era adottato stava nel fatto che poteva esser messo in opera senza sostanziali modifiche meccaniche nei terminali periferici: un breve supervoltaggio alle luci al sodio normalmente usate per fotografare la retina era tutto ciò che occorreva.
«Stavolta, però, il sistema sembrava aver lavorato contro di noi. Quando gli agenti arrivarono sul posto il soggetto era scomparso. Non aveva emesso lamenti, né grida, né proteste. I tecnici addetti all’apparecchiatura del terminal non sapevano neppure cos’era successo. Fu tuttavia possibile esaminare le registrazioni di quelli che avevano preceduto e seguito la persona che era stata esaminata e accecata dall’apparecchio. Sai cosa scoprimmo?
Little Tib sapeva ormai che avevano scoperto che era lui, ma rispose: — No.
— Scoprimmo che si trattava di uno dei bambini geneticamente alterati dall’esperimento. — Indra sorrise. Little Tib non poté vedere il suo sorriso, ma lo sentì ugualmente. — Non lo trovi strano? Uno dei bambini frutto dell’esperimento.
— Credevo che fossero tutti morti.
— Anche noi lo credevamo, finché non capimmo cos’era successo. Ma vedi, i bambini sacrificati erano quelli che avevano subito ie modifiche genetiche prima della nascita. Quelli del gruppo di controllo non erano morti e lui era uno di loro.
— Gli altri bambini — disse Little Tib.
— Si. Quelli normali, poveri, le cui madri li avevano portati al centro per denaro. Questo era il motivo per cui dividere in due il gruppo non aveva funzionato: quelli del gruppo di controllo venivano portati dentro tutti, ogni volta. Ma non poteva esser vero, naturalmente.
— Cosa? — mormorò Little Tib.
— Non poteva esser vero… tutti fummo d’accordo su questo. Non poteva essere uno del gruppo di controllo: sarebbe stata una coincidenza incredibile. Doveva essere successo che una delle madri (forse uno dei padri, ma più probabilmente una delle madri) aveva intuito con molto anticipo quel che avremmo fatto, e per salvare il suo bambino lo aveva sostituito con un altro. E questo era certamente accaduto qualche anno prima.
— Come la madre di Krishna — disse Little Tib, ripensando alla storia del Dr. Prithivi.
— Sì. Gli Dei non nascono in una stalla.
— E ucciderete anche l’ultimo bambino… quando lo troverete?
— So che l’ultimo di quei bambini sei tu.
Non c’era nessuna speranza di sfuggire a una persona dotata della vista all’interno di quell’autobus, ma Little Tib cercò di correre via a tentoni. Non aveva neppure fatto tre passi che Indra lo afferrò per le spalle spingendolo di nuovo a sedere dov’era prima.
— Adesso mi vuoi uccidere?
— No.
All’esterno esplose un tuono. Little Tib fece un balzo, credendo per un istante che Indra avesse sparato con una pistola. — Non adesso — ripeté l’altro, — ma presto.
La porta fu socchiusa ancora, e Nitty disse: — Venite fuori, sta per piovere e il Dr. Prithivi vuole mostrare il pezzo forte prima che cominci.
Con Indra quasi incollato alle spalle Little Tib lasciò che Nitty lo aiutasse a scendere gli scalini dell’autobus. Fuori c’erano centinaia di persone: poteva udire lo strusciare dei loro piedi e il mormorio delle voci. Alcuni stavano parlando fra loro, altri cantavano, ma i rumori si placarono quando i tre passarono fra essi. L’aria si appesantiva per l’avvicinarsi del temporale e c’era odore di vento.
— Attento — disse Nitty, — c’è uno scalino alto.
Erano di legno grezzo robusto e polveroso: sette scalini. Salì fino in cima e…
Poteva vedere.
Per un istante (benché fosse soltanto un istante) pensò di non essere più cieco. Era in un villaggio fatto di capanne di fango, e intorno a lui c’era diversa gente di pelle bruna con grandi e liquidi occhi neri: uomini che esibivano cercini rossi o gialli o blu arrotolati sulla testa, e donne brune dai lunghi abiti variopinti. Nell’aria c’era odore di cucina, di vacche e di polvere, e dietro il villaggio si levava una montagna perfettamente conica e bianca come un gelato alla panna, e al di là della montagna si stagliava un cielo colmo di palazzi, carrozze ed elefanti dipinti, e più più oltre ancora innumerevoli volti umani.
Poi capì che era soltanto immaginazione, soltanto un sogno; e non un sogno suo, stavolta, ma del Dr. Prithivi. Forse il Dr. Prithivi poteva sognare come lui, e così intensamente che gli angeli scendevano ad avverare il sogno; forse era invece l’immaginazione onirica dell’uomo che passava attraverso di lui. Ripensò a ciò che aveva detto Indra: che sua madre non era la sua vera madre e seppe che non poteva essere così.
Una donna dai capelli neri, con un grazioso volto a forma di cuore, disse: — Suona per noi. — E lui ricordò d’avere ancora in mano il flauto di legno. Se lo portò alle labbra, senza sapere se avrebbe saputo suonarlo o meno, e ne uscì una musica meravigliosa. Non era lui a farla, tuttavia mosse le dita sui fori fingendo di suonare e danzò. Le donne ballarono con lui, talvolta battendo le mani e talvolta agitando campanelle.
Gli parve che fosse trascorso solo un momento dall’inizio della danza quando comparve Indra. Era più alto di suo padre e aveva la faccia nascosta da una maschera di legno scolpito, dal naso adunco. Nella mano destra impugnava una spada minacciosa, curva e ondulata come un serpente, e nella sinistra aveva un occhio scintillante. Quando Little Tib vide l’occhio seppe perché Indra non lo aveva ucciso mentre erano soli sull’autobus. Qualcuno, lontano da lì, stava guardando attraverso quell’occhio, e finché avesse visto che lui faceva quelle cose (quelle che talora riusciva a compiere: far apparire e sparire gli oggetti, parlare con certi angeli) Indra non avrebbe potuto usare la spada. Io non voglio che lo faccia! pensò, ma sapeva di non poter sempre fermare gli avvenimenti, e che talvolta gli avvenimenti lo portavano via con loro.
In quel momento il tuono scosse le nuvole, e la voce del Dr. Prithivi disse: — Suona con il tuono! Suona con la tempesta. Questo è l’ideale per ciò che stiamo cercando di fare!
In piedi, dinanzi a Little Tib, Indra disse qualcosa circa il fatto di chiamare tanta pioggia da spazzar via il villaggio; e la voce del Dr. Prithivi incitò Little Tib a scalare la montagna.
Lui guardò e vide la montagna vera, lontana e stupenda; sapeva di non poterla scalare.
Poi cadde la pioggia, le torce si spensero, ed essi rimasero in piedi sul palco immerso nel buio con l’acqua fredda che ruscellava sui loro volti. Si accesero luci elettriche, e Little Tib vide centinaia di persone che correvano alle loro auto; fra esse c’erano un uomo mascherato da scimmia, un altro con la testa d’elefante e un terzo con nove facce.
Subito dopo fu di nuovo cieco, e per lui non restò altro che la sensazione del ruvido legno sotto i piedi, della pioggia battente e la consapevolezza che Indra era ancora dinanzi a lui, brandendo la sua spada e l’occhio.
E poi un uomo fatto interamente di metallo (al punto che la pioggia tamburellava sonoramente su di lui) fu anch’egli in piedi lì accanto. Era armato d’accetta e portava un cappello a punta; e nella luce riflessa dalla sua superficie liscia Little Tib poté vedere anche Indra e l’occhio.
— Tu chi sei? — chiese Indra all’Uomo di Metallo.
— Chi sei tu? — replicò lui. — Non vedo la tua faccia dietro quella maschera di legno… ma il legno è cosa che non può opporsi a me. — E con l’accetta colpì la maschera scolpita. Una scheggia ne volò via, la cordicella che la teneva a posto si spezzò e l’oggetto cadde al suolo.
Little Tib vide comparire il volto di suo padre, rigato dalla pioggia che ora lo bagnava. — Chi sei tu? — domandò ancora suo padre all’Uomo di Metallo.
— Non mi riconosci, George? — disse l’Uomo di Metallo. — Una volta eravamo vecchi amici. Io sono, se così posso dire, un sentimentale, e quando…
— Papà! — gridò Little Tib.
Suo padre si volse a guardarlo e disse: — Ciao, Little Tib.
— Papà, se avessi saputo che tu eri Indra non avrei avuto paura, là dentro. Quella maschera cambiava tanto la tua voce.
— Non dovrai aver più paura di niente, figlio mio — disse suo padre. Fece due passi verso il bambino, e un istante dopo, quasi troppo veloce per essere vista, la sua spada lampeggiante gli si abbatté addosso.
L’accetta dell’Uomo di Metallo fu ancora più veloce: si alzò di scatto, e la lama di Indra vi impattò con un clangore violento.
— Questo non lo salverà — disse il padre di Little Tib. — L’hanno visto, e hanno visto anche te. Volevo farla finita più in fretta.
— Non hanno visto me — disse l’Uomo di Metallo. — È più buio di quel che credi.
E d’un tratto fu buio. La pioggia cessò… o se continuò a cadere Little Tib non l’avvertiva più. Non capiva come l’avesse intuito, ma sapeva dov’era: si trovava in piedi, immobile, di fronte al computer, e i diavoli non erano ancora andati via da lì.
Poi la pioggia fu di nuovo su di lui, e seppe d’essere davanti a suo padre, ma l’Uomo di Metallo se n’era andato e il buio tornò ad avvolgerlo rendendolo cieco più che mai. — Vuoi ancora uccidermi, papà? — chiese.
Non ci fu risposta, e ripeté la domanda.
— Non adesso — disse suo padre.
— Più tardi?
— Vieni qui. — Sentì la mano del padre su un braccio, un contatto che conosceva bene. — Siediti. — Fu condotto sul bordo della piattaforma e aiutato a sedersi, con le gambe di fuori.
— Ti senti bene? — domandò Little Tib.
— Sì — rispose suo padre.
— Allora perché volevi uccidermi?
— Io non volevo farlo. — D’improvviso la voce dell’uomo suonò irritata. — Non ho mai detto che volevo. Dovevo farlo: questo è tutto. Guardaci, tutti noi, guarda cosa siamo diventati. Costretti a spostarci da un posto all’altro costruendo case, zappando la terra, affidandoci alla misericordia divina come nei secoli scorsi. Siamo dei cani della prateria, ecco quello che siamo. Tu ricordi i cani della prateria, Little Tib?
— No.
— Fu molto prima che tu nascessi, è vero. Erano cani che cacciavano in branco, per vivere dovevano stare in branco. Ma anni fa qualcuno decise che non servivano a niente, e riuscirono a disperderli, e morirono tutti. Per circa un anno ne trovai molti, qua e là, da soli e morti. Poi non ce ne fu più. Aspettarono a riunirsi in branco finché non fu troppo tardi, capisci: o forse non poterono. Ed è la stessa cosa che succede alla gente come noi. Voglio dire la nostra famiglia. Cosa credi che ci sia accaduto?
Little Tib, che non poteva capire la cosa, non disse nulla.
— Quand’ero ragazzo e andavo a scuola volevo sapere tutto su quei grandi uomini, i Re e le Regine e i Presidenti, e mi paceva pensare che vivevano nell’insieme delle loro famiglie. Questo non era del tutto vero, ora lo so. Se tu potessi tornare ai tempi della Bibbia troveresti la nostra gente a vivere insieme nelle capanne di legno come i pellirosse.
— Questo mi piacerebbe — disse Little Tib.
— Ma i boschi e le capanne sono stati spazzati via, e la nostra gente ha dovuto cominciare a tirar fuori il nutrimento dalla terra, zappare e sudare sangue. Non abbiamo potuto far altro che questo da allora, e lasciarci spremere dalle tasse. Mi capisci? Non potevamo far altro. E infine non ci sono più state offerte di lavoro per quelli come noi. Dobbiamo tornare a unirci prima che sia troppo tardi… lo capisci questo?
— No — disse Little Tib.
— Tu sei unico. Fai prodigi e sei un guaritore, e così loro ti vogliono morto. Perciò adesso sei la nostra moneta di scambio. Tutti nascono per uno scopo, figliolo, e questo è lo scopo per cui sei nato tu. Perché grazie a te la famiglia potrà riunirsi prima che sia troppo tardi.
— Ma se io sarò morto… — Little Tib cercò di metter ordine nei suoi pensieri. — Tu e mamma non avete altri figli.
— Non capisci, vero?
Suo padre gli mise un braccio attorno alle spalle, e si chinò finché i loro volti si sfiorarono. Ma in quell’istante Little Tib ebbe l’impressione che nel volto di suo padre ci fosse qualcosa di sbagliato. Alzò le mani a toccarlo, e quel contatto gli diede un ansito.
— Non avresti dovuto farlo — disse lui.
Little Tib mosse le dita sulle guance dell’uomo che fingeva di essere suo padre. Il volto di lui era nuovamente di legno, duro e freddo.
— Adesso sono un uomo del Presidente; non volevo che lo sapessi, perché pensavo che ti avrebbe sconvolto. Il Presidente sta seguendo la situazione personalmente.
— Mamma è ancora a casa? — domandò Little Tib, e intendeva la nuova casa.
— No, fa parte di altro dipartimento: il G-7. Ma la vedo ancora, ogni tanto. Adesso è ad Atlanta.
— Mi sta cercando?
— Non me lo ha detto.
Nel petto di Little Tib, proprio nel punto duro dove le costole si riunivano al centro del torace, qualcosa cominciò a gonfiarsi ed a comprimergli i polmoni come un palloncino. Gli rendeva quasi impossibile respirare, e gli stringeva la gola impedendogli di pronunciare una sola parola. Dentro di sé gridò disperatamente che quella non poteva essere la sua vera madre, e che quell’uomo non era il suo vero padre. Sua madre e suo padre, quelli veri, erano stati la madre e il padre che lui aveva avuto nella vecchia casa. E avrebbe tenuto loro nei suoi ricordi, per sempre. La pioggia gli cadeva fredda sulla faccia, aveva il naso pieno di muco; fu costretto ad aprire la bocca per respirare, ma anch’essa era piena di liquido: saliva che gli colò lungo il mento e lo fece vergognare di sé.
Poi le lascrime furono un torrente caldo che gli inondò le guance intirizzite. Sentì la maschera di legno di Indra cadere al suolo e rimbalzare da qualche parte alla base del palco.
Di nuovo alzò le mani al volto dell’uomo, e sentì che era tornato a essere quello di suo padre, ma la bocca di lui disse: — Little Tib, non riesci a capire? È per la Carta della Riserva Federale. È per quella maledetta Carta. È per il fatto di non avere denaro e nessun lavoro, e dover passare tutta la vita come un maledetto cane randagio. Io l’ho avuta soltanto per merito tuo… impegnandomi a darti la caccia. Siamo stati condizionati a farlo: ipnosi profonda e condizionamento anti-impulsi, sanno loro come fare… ma prima di tutto è stato per quella dannata Carta. — E mentre pronunciava quelle parole Little Tib udì il fruscio della spada di Indra che veniva lentamente raccolta dal legno del palco. Balzò giù e fuggì via, senza sapere dove andava e incurante di poter sbattere contro qualcosa.
Quello su cui andò a sbattere, da lì a poco, fu il corpo di Nitty. Addosso a lui non c’erano più odore di sudore e di fuoco di legna: erano stati spazzati via dalla pioggia; ma dava ancora la stessa sensazione di contatto, e anche la sua voce era la stessa quando esclamò: — Ah, eccoti qua! Ti ho cercato dappertutto. Credevo che qualcuno ti avesse portato via con sé per levarti dalla pioggia. Dove sei stato? — Sollevò Little Tib e se lo mise a sedere su una spalla.
Lui gli affondò le mani nei capelli umidi per sorreggersi. — Sul palcoscenico — disse.
— Sempre sul palco? Be’… — Nitty camminava svelto e a passi lunghi, facendo oscillare al suo ritmo il corpo di lui. — Giuro che quello è l’unico posto dove non ho pensato di cercarti. Credevo che te la fossi filata via in fretta in cerca di un posticino asciutto. Ma forse avevi paura di cadere, è così?
— Sì — disse Little Tib. — Avevo paura di cadere giù. — Correndo nella pioggia la cosa che gli aveva bloccato il petto s’era sgonfiata; ora si sentiva vuoto dentro, e debole come se non avesse più ossa in corpo. Due volte fu sul punto di scivolare giù dalla spalla di Nitty, ma ogni volta le grosse mani di lui si sollevarono a trattenerlo.
Il mattino dopo una donna dal profumo gradevole venne dalla scuola per lui. Little Tib era ancora a letto quando la sentì bussare alla porta; ad aprirle andò Nitty, e lei disse: — Buongiorno. So che avete qui un bambino cieco.
— Sì, signora — rispose Nitty.
— Mr. Parker, il nuovo sovrintendente in carica, mi ha chiesto di venire per condurlo a scuola personalmente il primo giorno. Io sono la signorina Munson. Insegno alla classe dei bambini ciechi.
— Non sono sicuro che lui abbia un vestito adatto per la scuola — mormorò Nitty.
— Oh, di questi tempi vengono con indosso qualunque cosa — disse la signorina Munson. Poi vide Little Tib, che era sceso dal letto nel sentire la porta aprirsi, e commentò: — Capisco quel che vuol dire. È vestito per una recita?
— Quella di ieri sera — disse Nitty.
— Ah, io non c’ero, ma ne ho sentito parlare.
Little Tib s’accorse in quel momento d’indossare ancora la specie di gonna che gli avevano dato; poi la tastò e notò che era invece qualcos’altro: una sottile tovaglia di lana, asciutta. Ma aveva sempre la collana, e un braccialetto di metallo a un polso.
— Ne ha un altro, ma è davvero malridotto.
— Ho paura che dovrà indossarlo lo stesso — disse la signorina Munson. Nitty lo portò nel bagno, gli tolse la tovaglia e i due monili, e lo rivestì con il suo vecchio abito. Poi la signorina Munson lo condusse fuori dal motel e gli aprì la portiera della sua piccola auto elettrica.
— Mr. Parker ha riavuto il suo vecchio lavoro? — chiese Little Tib mentre la macchina girava fuori dal parcheggio del motel in strada.
— Riavuto? — si stupì la signorina Munson. — Non sapevo che lo avesse già svolto in passato. Però ho capito che è estremamente qualificato nei programmi educativi. E quando stamattina hanno scoperto che il computer era guasto, lui ha presentato le sue credenziali e si è offerto di aiutarci. Mi ha chiamato verso le dieci e mi ha pregato di occuparmi di te, ma soltanto adesso ho potuto lasciare la scuola.
— È mezzogiorno, vero? — disse Little Tib. — Fa troppo caldo per essere mattino presto.
Trascorse il pomeriggio nell’aula della signorina Munson con altri otto bambini ciechi, mentre una macchina gli faceva muovere una mano su dei puntini sporgenti da un foglio e gli diceva cosa fossero. Quando la scuola fu terminata e poté udire frotte di ragazzini cicalanti passare nel corridoio esterno, una donna più anziana e corpulenta della signorina Munson venne a prelevarlo, e lo portò in un edificio dove c’erano altri bambini, maggiori di lui e tutti dotati della vista. Cenò con loro. La donna grassa s’irritò quando lui, senza accorgersene, spinse fuori dal piatto alcune fette di bietole in insalata. Quella notte dormì in un lettuccio stretto.
Nei tre giorni successivi la routine fu la stessa. Al mattino la donna grassa lo portava a scuola, alla sera veniva a prelevarlo. A casa di lei (Little Tib non riuscì più a ricordare il suo nome, in seguito) c’era un televisore, e una volta finita la cena i bambini avevano il permesso di guardarlo.
Il quinto giorno di scuola sentì la voce di suo padre in corridoio. Qualche istante dopo l’uomo entrò nell’aula della signorina Munson insieme a un impiegato della scuola che sembrava importante.
— Questo è Mr. Jefferson — dise l’uomo della scuola all’insegnante. — È del Governo. Lei deve affidargli in custodia uno dei suoi studenti. Ha un George Tibbs, qui?
Little Tib sentì una mano di suo padre poggiarglisi su una spalla. — È lui — disse l’uomo. Usciti dal portone della scuola s’incamminarono sul marciapiede. — C’è stato un contrordine, figliolo. Devo portarti a Niagara: là sarai esaminato.
— Va bene.
— Non c’era posto per parcheggiare davanti a questa dannata scuola. Ho dovuto lasciare la macchina a un isolato da qui.
Little Tib ricordava lo scalcinato furgone che suo padre aveva quando abitavano nella vecchia casa; adesso in qualche modo intuiva che il furgone e la vecchia casa appartenevano al passato, a quelle memorie di cui faceva parte anche il suo vero padre. Quest’altro padre certo aveva una bellissima macchina.
Udì dei passi, e i suoi occhi ciechi videro un uomo che camminava davanti a loro: un uomo così piccolo che la sua statura non superava quella di lui. Aveva una lucida testa calva, e riccioletti che crescevano soltanto sugli orecchi; il suo abito da cerimonia verde brillante era fornito di due lunghe code posteriori e di due grossi bottoni smeraldini sul martingala. Quando si volse per fronteggiarli (camminando all’indientro per mantenere la distanza) Little Tib vide che il suo volto era rosso e bianco, con due minuscoli occhi neri che sembravano schizzare scintille.
Esibiva un grosso naso a becco come quello di Indra, che però su di lui non aveva un’aria crudele. — Cosa posso fare per te? — chiese a Little Tib.
— Liberarmi — rispose lui. — Digli di lasciarmi stare.
— E poi che farai?
— Non lo so — confessò Little Tib.
L’ometto dall’abito verde annuì fra sé, come se avesse già previsto quella risposta, poi si tolse una busta di carta argentata da una tasca interna della giacca. — Se sarai preso un’altra volta — disse, — questo ti farà comodo. Hai capito? La fuga è solo per chi non ha l’aiuto di nessuno. — Aprì un lato della busta. Era piena di polvere scintillante notò Little Tib mentre l’ometto se ne versava un po’ su una mano. — Tu mi ricordi — proseguì, — un amico di nome Tip. Tip con la p finale; una b è soltanto una p capovolta. — Tirò in aria la polverina luminosa e pronunciò una parola che Little Tib non riuscì a capire.
Per un brevissimo istante ci furono due cose contemporaneamente. C’era il marciapiede, con una fila di macchine da un lato e il prato dall’altro. E c’era l’aula della signorina Munson, con i rumori degli altri bambini e l’odore del pavimento appena lavato. Girò gli occhi sulle lucide carrozzerie delle auto, poi esse svanirono e ci furono solo il suono della voce di suo padre nel corridoio esterno e la sensazione della carta con i puntini in rilievo sotto le dita, sul banco. La voce dell’ometto dal vestito verde (come se non se ne fosse andato affatto) disse: — Tip divenne il governatore di noi tutti alla fine, lo sai? — Poi risuonò il battito di due grandi ali. Ed a questo punto se ne andò definitivamente. La porta dell’aula si aprì, e un impiegato della scuola il cui tono era quello di una persona importante disse: — Signorina Munson, qui c’è un signore che dice d’essere il padre di uno dei vostri alunni.
— Vuole ripetermi il suo nome, signore?
— George Tibbs. Anche il mio ragazzo si chiama George Tibbs.
— George, questo è tuo padre? — chiese la signorina Munson.
— Come può saperlo? È cieco.
Little Tib rimase zitto, e l’Uomo Importante disse: — Forse sarà meglio andare tutti in ufficio. Lei ha detto d’essere del Governo Federale, signor Tibbs?
— Dell’Ufficio di Eugenetica. Suppongo che vi sorprenda vedere che sono soltanto un contadino dalle scarpe fangose, ma… sono stato assunto tramite il Ministero dell’Agricoltura.
— Ah!
La signorina Munson, che stava conducendo con sé Little Tib per mano, svoltò un angolo.
— Ora sto lavorando a un caso… Forse sarebbe meglio che il bambino aspettasse fuori.
Una porta fu aperta. — Come capirà, non abbiamo potuto identificarlo — disse l’Uomo Importante. — Non ha più le retine. Questa è la ragione degli spazi vuoti nei nostri moduli d’iscrizione.
La signorina Munson aiutò Little Tib a trovare una sedia e disse: — Aspetta qui. — Poi la porta si chiuse e i tre s’allontanarono. Lui si premette le nocche delle dita sugli occhi, e per un istante miriadi di puntolini luminosi vagarono sullo sfondo sfavillante della polvere gettata in aria dall’ometto in verde. Ripensò a quel che avrebbe potuto fare, senza fuggire. E ripensò a Krishna, perché lui era stato Krishna. Quel Dio era fuggito? O era ritornato a combattere contro il Re che aveva cercato di ucciderlo? Non poteva esserne certo, ma non credeva Krishna capace di fuggire. Gesù era scappato in Egitto, certo, però era tornato. Non a Betlemme, il paese da cui era fuggito, bensì a Nazareth, perché quella era la sua vera casa. Ricordò d’aver accennato alla storia di Gesù parlando con suo padre mentre sedevano nell’autobus. Lui aveva accantonato l’argomento, ma Little Tib sentì che in qualche modo era importante.
La seggiola era dura, più dura di ogni pietra su cui si fosse mai seduto. Mentre rifletteva sentiva i rigidi braccioli di legno ai lati del suo corpo, e oscuramente avvertì in essi qualcosa di terribile, qualcosa che non riusciva a precisare. Proprio fuori dalla porta la campanella suonò, e poi ci furono gli schiamazzi dei bambini che uscivano nei corridoi. Quello era un luogo chiuso, ma loro si riversavano fuori dalle porte, si sparpagliavano all’esterno come farfalle nella fragranza del prato verde.
Si alzò ed a tentoni trovò il montante della porta, aprendola. Non poteva dire se qualcuno lo stesse notando, ma un istante dopo era immerso nel fiume dei bambini che si spingevano avanti confusamente. Si lasciò trasportare da loro giù per le scale.
All’esterno li sentì scorrere intorno a sé, ridenti e ciarlieri. Appena fu libero dalla loro pressione cominciò a camminare, e fin dal primo passo seppe che avrebbe potuto andare avanti così tutto il giorno: era la sensazione più gradevole che avesse mai provato. Procedette fra i ragazzini finché non ebbe sotto le dita l’inferriata che circondava la scuola, poi lungo le sbarre fino al cancello, e uscì in strada.
Dovrei procurarmi un bastone, pensò.
Quand’ebbe percorso quelli che giudicò fossero stati circa cinque chilometri udì in distanza il fischio di un treno, e s’avviò in quella direzione. Le rotaie erano molto più facili da seguire dei bordi di una strada: l’aveva imparato già da mesi. C’erano meno probabilità d’incontrare gente, e i treni passavano solo una volta ogni tanto. Le auto e i camion invece transitavano di continuo ed erano pericolosi.
Dopo un po’ riuscì a trovare un buon bastone, leggero e flessibile, della lunghezza giusta. Allora risalì sulla massicciata delle rotaie e su quel percorso regolare il suo passo si fece più sicuro. Davanti a lui c’era una ragazzina, e accorgendosi di poterla vedere seppe per certo che si trattava di un angelo. — Come ti chiami? — le chiese.
— Non dovrei dirtelo — rispose lei, — però tu puoi chiamarmi Dorothy. — Gli domandò il suo nome, e lui non disse di chiamarsi George Tibbs bensì Little Tib, perché era così che sua madre e suo padre l’avevano sempre chiamato.
— Tu hai guarito la mia gamba, così verrò con te — affermò Dorothy. (Dalla voce non sembrava veramente la stessa bambina.) Dopo un po’ aggiunse: — Potrò esserti molto d’aiuto. Io posso dirti cosa c’è da guardare.
— So che puoi farlo — disse umilmente Little Tib.
— Come adesso, ad esempio: c’è un uomo là, davanti a noi.
— Un uomo cattivo? — chiese Little Tib, — o uno buono?
— Un tipo simpatico; un po’ malvestito.
— Ehilà! — esclamò la voce di Nitty. — Mai avrei creduto di vederti qui, George. Ma suppongo che avrei dovuto aspettarmelo.
— La scuola non mi piaceva — disse Little Tib.
— Questa è la differenza fra me e te. A me piaceva; solo, sembra che io non sia piaciuto a lei.
— Mr. Parker non ti ha fatto riavere il tuo lavoro?
— Ho idea che Mr. Parker si sia dimenticato di me.
— Questo non avrebbe dovuto farlo — sospirò Little Tib.
— Be’, caro il mio bambino cieco, il fatto è che Mr. Parker è un uomo bianco, sai. E quando un uomo bianco è stato aiutato da un negro, qualche volta preferisce dimenticarselo.
— Capisco — disse Little Tib, benché non avesse capito. Nero e bianco gli sembravano due cose decisamente prive d’importanza.
— Ma ho sentito dire che a volte succede il contrario — rise Nitty.
— Questa è Dorothy — disse Little Tib.
— Io non riesco a vedere proprio nessuna Dorothy, George — disse Nitty in tono un po’ sconcertato.
— Be’, io non riesco a vedere te — osservò Little Tib.
— Suppongo che sia così. Allora, salve Dorothy. Dove state andando di bello tu e George?
— Andiamo a Sugarland — gli rispose Little Tib. — A Sugarland sanno sempre chi sei.
— Esiste davvero questa Sugarland? — chiese Nitty. — Ho sempre pensato che quel posto te lo immaginassi soltanto.
— No, Sugarland è nel Texas.
— Ma non mi dire! — esclamò Nitty. La luce del sole, ormai prossimo al tramonto, indorava le traversine rendendole gialle come il burro. Nitty prese per mano Little Tib, lui strinse quella di Dorothy, ed i tre s’incamminarono lungo le rotaie. Nitty occupava parecchio spazio fra esse, ma Little Tib non ne prendeva molto, e Dorothy praticamente non ne occupava affatto.
Quando furono mezzo chilometro più avanti cominciarono a saltellare allegramente.