Il mio romanzo I reietti dell’altro pianeta narra di un piccolo mondo di persone che si sono date il nome di «odoniani». Questo nome deriva dalla fondatrice della loro comunità, Odo, vissuta varie generazioni prima dell’epoca in cui si svolge il romanzo e che pertanto non partecipa alla vicenda (se non implicitamente, nel senso che tutto è cominciato con lei).
L’odonianismo è anarchismo. Non quella roba tipo bomba in tasca, che invece — con qualunque nome cerchi di darsi lustro — è terrorismo puro e semplice; non il libertarismo socio-darwinista di destra; ma l’anarchismo prefigurato dal primo pensiero taoista e prefigurato da Shelley e Kropotkin, da Goldman e Goodman. Il principale bersaglio dell’anarchismo è lo Stato autoritario, capitalista o socialista che sia; la sua principale componente morale-pratica è la cooperazione (solidarietà, mutuo appoggio). Di tutte le teorie politiche è la più idealistica e per me la più interessante.
Inserirla in un romanzo, cosa che prima non era mai stata fatta, fu per me un lavoro duro e lungo e mi assorbì completamente per vari mesi. Quando lo terminai mi sentii perduta, esiliata: una persona senza più patria. Perciò fui molto riconoscente quando Odo uscì dalle ombre del golfo della probabilità e volle che scrivessi un racconto non più sul mondo da lei realizzato ma su lei stessa.
La voce dell’altoparlante risuonava sonora come un vuoto furgone di birra su una strada selciata, e i presenti stavano schiacciati l’uno sull’altro come le pietre di un acciottolato mentre la voce li sovrastava con il suo frastuono. Taviri si trovava chissà dove dall’altra parte della sala. Lei doveva raggiungerlo. Si aprì faticosamente un varco serpeggiando tra le persone ammassate e vestite di scuro. Non udiva i suoni delle loro voci, non vedeva le loro facce: c’erano soltanto il tuonare dell’altoparlante e quei corpi addossati l’uno sull’altro. Taviri non riusciva proprio a scorgerlo: lei era troppo piccola. La strada le fu bloccata da un grosso ventre in un panciotto nero e da spalle imponenti. Doveva raggiungere Taviri a ogni costo. Tutta in un sudore, lanciò un pugno violento. Fu come urtare una roccia: l’uomo non fece una piega, ma dai suoi grandi polmoni le risuonò sul capo un baccano prodigioso, un muggito. Si fece piccola, poi comprese che il muggito non era rivolto a lei. Anche gli altri gridavano. L’altoparlante aveva detto qualcosa, qualche battuta a proposito di tasse o masse. Tutta eccitata gridò anche lei — Sì! Sì! — e continuando a spingere non ebbe difficoltà a uscire sulla Piazza d’Armi di Parheo. Il cielo sopra di lei era fondo e senza colore, e tutt’intorno l’alta erba piegava il capo sotto il peso dei fiorellini secchi e bianchi. Non ne aveva mai conosciuto il nome. I fiorellini ondeggiavano al disopra di lei, oscillando nel vento che al crepuscolo soffiava sempre. S’infilò di corsa tra l’erba, che si piegò docilmente e tornò a ergersi, ondeggiante e muta. Taviri era lì tra quell’erba alta, vestito del suo abito migliore, quello scuro che gli dava l’aspetto di un professore o di un attore, con un’eleganza severa. Non sembrava allegro: tuttavia rideva, e le stava parlando. Il suono della sua voce le fece venire le lacrime agli occhi: allungò il braccio per afferrargli la mano, ma non si fermò. Non poteva fermarsi. — Oh, Taviri — disse, — il posto è un po’ più avanti! — L’odore peculiare e dolce di quell’erba bianca si faceva più denso a mano a mano che lei avanzava. Sul suolo sentiva rovi, grumi, sentiva pendii, buche. Temeva di cadere, di cadere ; si arrestò.
Sole negli occhi, implacabile fulgore del mattino. La sera prima si era dimenticata di abbassare gli scuri. Voltò la schiena al sole, ma sul fianco destro non riposava. Inutile. Giorno fatto. Sospirò due volte, si rizzò a sedere, mise le gambe fuori dal letto, e restò lì piegata in due a guardarsi i piedi, con addosso la sola camicia.
Le dita, compresse fin dalla più tenera età in scarpe da poco prezzo, avevano le superfici di contatto quasi squadrate ed erano piene di calli; le unghie erano stinte e informi. Da un malleolo all’altro correvano rughe secche e sottili. Alla base delle dita, la piccola area piatta aveva conservato la delicatezza; ma la pelle era del colore del fango, e il collo del piede era percorso da venuzze annodate. Disgustoso. Triste, deprimente. Miserevole. Pietoso. Mise alla prova tutte le parole: andavano tutte bene, come piccoli cappelli ripugnanti. Ripugnante: sì, anche. Guardarsi e trovarsi ripugnanti, che allegria! Ma quando ripugnante non era, si era mai osservata a quel modo? No davvero! Un corpo efficiente non è un oggetto, non è uno strumento o una proprietà da ammirare: è semplicemente noi stessi. Solo quando non è più noi ma nostro, un oggetto posseduto, allora ce ne preoccupiamo. Le sue condizioni sono buone? Sarà all’altezza? Resisterà?
— Cosa importa? — disse Laia con rabbia, e si alzò in piedi.
Alzarsi all’improvviso le diede le vertigini. Dovette allungare la mano e appoggiarsi al comodino, perché temeva di cadere. In quell’attimo rammentò il sogno e il suo tendersi verso Taviri.
Cosa le aveva detto? Non lo ricordava. Non ricordava nemmeno se fosse riuscita a toccargli la mano. Nel tentativo di fare violenza alla memoria, la fronte le si aggrottò. Non sognava Taviri da chissà quanto tempo e adesso non ricordava nemmeno le sue parole!
Sparite, tutto sparito. Se ne stava ingobbita nella camicia da notte, la fronte aggrottata, una mano sul comodino. Da quanto tempo non pensava a lui (per non parlare di sognarlo) come «Taviri»? Da quanto tempo non pronunciava più il suo vero nome?
Diceva «Asieo». «Quando Asieo e io eravamo in prigione al nord». «Prima che incontrassi Asieo». «La teoria della reciprocità di Asieo». Oh, certo: parlava di lui, parlava sicuramente troppo di lui, a vanvera, lo tirava continuamente in ballo. Ma come «Asieo», con l’ultimo nome, quello dell’uomo pubblico. Il privato cittadino era scomparso del tutto. Erano rimasti così in pochi quelli che l’avevano conosciuto. Tutta gente che era stata in prigione. Allora si rideva del fatto che tutti gli amici fossero stati in tutte le prigioni, ma ormai non erano nemmeno più in prigione: erano nei cimiteri delle prigioni, oppure si trovavano in fosse comuni.
— Oh, mio caro — disse Laia, e si lasciò ricadere sul letto perché non riusciva a reggere al peso del ricordo di quelle prime settimane al Forte, in cella, quelle prime settimane dei nove anni al Forte di Drio, in cella, quelle prime settimane dopo che le avevano detto che Asieo era stato ucciso durante uno scontro sulla piazza del Campidoglio ed era stato sepolto con i Millequattrocento nei fossati a calce dietro la Porta di Oring. In cella. Le mani le si atteggiarono in grembo nell’antica posizione, la sinistra stretta e chiusa con forza nella destra, il pollice destro che esercitava una leggera pressione mentre andava avanti e indietro sulla nocca dell’indice sinistro. Ore, giorni, notti. Aveva pensato a tutti loro, a uno a uno, tutti i Millequattrocento, al fatto che giacevano sepolti, che la calce agiva sulla loro carne, che le ossa si toccavano in quell’oscurità cocente. Chi aveva toccato lui? Com’erano ora le delicate ossa della mano? Ore, anni.
— Taviri, non ti ho mai dimenticato! — sussurrò, e la stupidità della frase la fece ritornare alla luce del mattino e al letto disfatto. Naturale che non l’aveva dimenticato. Tra marito e moglie, queste cose non è il caso di dirle. Adesso i suoi vecchi e brutti piedi erano di nuovo sul pavimento, come prima. Non era andata in nessun posto, aveva solo girato in tondo. Si mise in piedi con un gemito di disapprovazione e di sforzo; si accostò all’armadio e indossò la vestaglia.
I giovani circolavano per i locali della Casa con piacevole immodestia, ma lei era troppo vecchia per farlo. Non voleva rovinare la colazione di qualcuno di loro mostrando la propria vecchiaia. E poi i giovani erano cresciuti col principio della libertà nell’abbigliamento e nel sesso e in tutto il resto, e lei no. Lei non aveva fatto altro che inventare la libertà: non era esattamente la stessa cosa.
Come, ad esempio, chiamare Asieo «mio marito». La parola li faceva sempre sobbalzare. Un buon odoniano, naturalmente, doveva usare «compagno». Ma chi aveva mai detto che lei dovesse essere una buona odoniana?
Ciabattò lungo il corridoio dirigendosi ai bagni. Mairo si stava lavando i capelli in un lavabo. Laia guardò ammirata quella lunga e liscia matassa intrisa d’acqua. Ormai usciva così di rado dalla Casa che non ricordava quando avesse visto per l’ultima volta una testa rispettabilmente rasata; ma la vista di una grande corona di capelli le dava piacere, un piacere intenso. Quante volte era stata derisa (Capellona, Capellona!), quante volte i poliziotti o i teppisti le avevano tirato i capelli, quante volte, a ogni cambio di prigione, un soldato l’aveva rasata con un ghigno sulla bocca? E poi i capelli erano ricresciuti, da lanugine a riccioli a ciocche a criniera… Tanto tempo prima. Per amor di Dio, proprio quel giorno doveva pensare al tempo andato?
Dopo che si fu vestita ed ebbe rifatto il letto, scese alla mensa. La colazione era buona, ma lei non era più riuscita a recuperare l’appetito dopo quel maledetto colpo apoplettico. Bevve due tazze di tè d’erbe, ma non riuscì a terminare il frutto che aveva preso. Da bambina aveva tanta voglia di frutta che la rubava; e poi, al Forte… Oh, ma per amor di Dio, piantala! Sorrise e rispose ai saluti e alle cortesi domande dei commensali e del grosso Aevi che quella mattina prestava servizio al banco. Era stato lui a tentarla con la pesca: — Ma guarda che meraviglia! L’ho tenuta in serbo per te. — E come avrebbe potuto rifiutare? Aveva sempre avuto una gran voglia di frutta, e non se ne era mai saziata. Una volta, quando aveva sei o sette anni, aveva rubato un frutto da una bancarella in via del Fiume. Ma ora, in mezzo a tutte quelle persone che conversavano in modo così animato, era arduo mangiare. C’erano notizie da Thu, grosse notizie. Da principio, sempre attenta a non entusiasmarsi troppo facilmente, era stata incline a non darvi troppo peso; ma dopo aver letto l’articolo del giornale, e dopo aver letto anche tra le righe, pensò, con una strana sicurezza profonda ma fredda: "Bene, eccoci; è venuto il momento. E a Thu, poi, non qui. Thu ci arriverà prima di noialtri. La rivoluzione avrà il sopravvento là prima che altrove. Come se importasse! Non ci saranno più nazioni". E tuttavia, in qualche modo importava: si sentiva un po’ triste e fredda… Invidiosa, ecco la parola. Sciocchezze! Non partecipò molto alla conversazione, e dopo qualche minuto si alzò per far ritorno alla propria stanza, con un senso di autocommiserazione. Non le riusciva di condividere il loro entusiasmo. Ne stava fuori, fuori davvero. "Non è facile", si disse per giustificarsi, mentre saliva stancamente le scale, "accettare di trovarsi fuori quando si è stati dentro, nel bel mezzo, per cinquant’anni. Oh, per amor di Dio. Che piagnisteo!"
Si lasciò alle spalle scale e autocommiserazione quando entrò nella stanza. Era una buona stanza. Era una buona cosa starsene da sola. Che sollievo. Sebbene, a rigore, non fosse proprio correttissimo. Alcuni dei giovani dei piani superiori vivevano in cinque in una stanza non più grande di quella. Le persone che volevano vivere nelle Case odoniane erano sempre più numerose di quante si fosse in grado di accogliere. Lei aveva quella grande stanza tutta per sé soltanto perché era una vecchia che aveva avuto un colpo apoplettico. E forse perché era Odo. Se non fosse stata Odo ma soltanto una donna che aveva avuto un colpo apoplettico, l’avrebbe ottenuta lo stesso? Era probabile. Dopotutto, chi avrebbe voluto spartire la stanza con una vecchia bavosa? Ma non era facile esserne certi. Favoritismo, esclusivismo, culto della personalità, tornavano strisciando e germogliavano dovunque. Ma lei non aveva mai osato sperare che sarebbero stati sradicati nel giro della sua generazione, prima della sua morte. È soltanto il tempo, a operare i grandi cambiamenti. Intanto quella stanza era bella, spaziosa, soleggiata: proprio quel che ci voleva per una vecchia bavosa che aveva messo in moto una rivoluzione mondiale.
Il suo segretario sarebbe arrivato entro un’ora per aiutarla a sbrigare il lavoro quotidiano. Ciabattò verso la scrivania, un pezzo bello e massiccio che le era stato regalato dalla cooperativa dei mobilieri di Nio perché una volta qualcuno le aveva sentito dire che il solo mobile che veramente desiderasse avere era una grande scrivania a cassetti con piano abbastanza spazioso… Accidenti, in pratica era tutta coperta di carte con relative note pinzate, perlopiù nella grafia minuta e chiara di Noi: Urgente. Province settentrionali. Consultare R.T.?
La sua grafia non era più stata la stessa, dopo la morte di Asieo. Ed era strano, a pensarci. Dopotutto, nei cinque anni seguiti alla morte di lui aveva scritto da cima a fondo l’Analogia. E poi c’erano le lettere che la guardia, quel tipo alto con gli occhi acquosi (Come si chiamava? Non importa!), aveva fatto uscire dal Forte per due anni. Adesso le chiamavano Lettere dalla prigione, e ne esistevano una decina di edizioni diverse. Tutta quella roba, quelle lettere che la gente continuava a dirle che erano così piene di «energia spirituale» — il che significava forse che le aveva scritte con la faccia piena di lividi, per tenere alto il morale — e l’Analogia che certamente era l’opera sua più intellettualmente consistente, tutto questo l’aveva scritto nel Forte di Drio, in cella, dopo la morte di Asieo. Fare qualcosa bisognava, e al Forte carta e penna erano concesse… Ma tutto era stato scritto nella grafia frettolosa e tremolante che lei non aveva mai riconosciuto come propria, mentre sua invece era stata quella tondeggiante e ornata del manoscritto di Società senza governi, di quarantacinque anni prima. Taviri aveva portato con sé nella calce non solo le sue passioni fisiche e spirituali ma anche la sua grafia chiara.
Ma le aveva lasciato la rivoluzione.
«Che coraggio dimostri continuando a lavorare, a scrivere, in prigione, dopo una tale sconfitta per il movimento, dopo la morte del tuo compagno»: questo, le dicevano. Che razza di stupidi! Cos’altro si sarebbe potuto fare? Nerbo, coraggio… Ma cos’era, il coraggio? Non era mai riuscita a immaginarlo. Altri dicevano: non hai mai paura. Altri ancora: hai paura ma intanto continui. Ma cos’altro si sarebbe potuto fare se non continuare? C’era mai stata un’effettiva possibilità di scelta?
Morire significava soltanto continuare in una direzione diversa.
Se si voleva arrivare alla meta, era necessario continuare: questo intendeva con le parole «il vero viaggio è il ritorno»; ma non era mai stata più che un’intuizione, e in quel momento lei si trovava più che mai nell’impossibilità di razionalizzarla. Si curvò con troppa foga, tanto che gemette un poco allo scricchiolio delle ossa, e prese a rovistare in uno dei cassetti inferiori della scrivania. La mano le si posò su una cartellina rammollita dal tempo: la tirò fuori, avendola riconosciuta prima al tatto che alla vista. Era il manoscritto di L’organizzazione sindacale nel periodo rivoluzionario di transizione. Sulla cartellina Taviri aveva impresso il titolo e sotto aveva scritto il proprio nome: Taviri Odo Asieo, IX 741. Quella sì che era bella grafia, con lettere ben modellate, decisa, sicura. Ma lui aveva preferito servirsi di una fonostampante. L’originale era interamente fonostampato, e anche di alta qualità: esitazioni soppresse e idiotismi personali normalizzati. Non vi si percepiva quel suo modo di pronunciare la «o» dal fondo della gola secondo l’abitudine della costa settentrionale. Non c’era altro, di lui, che la sua intelligenza. Di Asieo non le restava che il nome scritto sulla cartellina. Non aveva conservato le sue lettere: sarebbe stato sentimentale. Non le riusciva di pensare a niente che avesse posseduto per più di qualche anno: fatta eccezione per quel suo corpo sconquassato, beninteso, ma lei se lo portava incollato addosso…
Di nuovo la scissione. «Lei«» e «il suo corpo». La vecchiaia e la malattia ti portavano a scindere così, a evadere; il tuo cervello insisteva: "Non sono io, non sono io". E invece eri tu. Forse ai mistici era possibile separare intelletto e corpo: lei aveva sempre invidiato loro questa possibilità, senza sperare di poterli emulare. L’evasione era un gioco al quale non aveva mai giocato. Piuttosto aveva cercato la libertà, subito, per il corpo e per l’anima.
Prima autocommiserazione, poi autoincensamento; eccola sempre lì col nome di Asieo tra le mani. Per amor di Dio, ma perché? Non conosceva già quel nome senza avere il bisogno di tenerlo sotto gli occhi? Forse c’era in lei qualcosa che non andava? Portò alle labbra la cartellina e baciò con decisione e determinazione quel nome scritto a mano; ripose la cartellina nel cassetto, lo richiuse e si appoggiò eretta allo schienale. La mano destra le formicolava. La grattò, poi l’agitò nell’aria con rabbia. Non si era mai ripresa del tutto dal colpo. Così pure la gamba destra, e l’occhio destro, e l’angolo destro della bocca. Restavano insensibili in parte, inerti, pieni di formicolii. La facevano sentire come un robot con un cortocircuito.
Intanto il tempo passava, Noi sarebbe arrivato, e lei cos’aveva fatto dopo colazione?
Si alzò così all’improvviso che barcollò e si dovette afferrare alla sedia per essere certa di non cadere. Infilò il corridoio dirigendosi in bagno e si guardò nel grande specchio. La grigia crocchia le scendeva giù disfatta: non l’aveva pettinata bene, prima di colazione. Si affannò cercando di risistemarla. Com’era arduo tenere le braccia sollevate in aria. Amai, entrata di corsa per andare alla toilette, si fermò e le disse: — Faccio io! — ; e gliel’annodò con cura e perizia in un attimo, con quelle sue piacevoli dita tonde e forti, sorridendo in silenzio. Amai aveva vent’anni, meno di un terzo degli anni di Laia. I suoi genitori erano stati entrambi membri del Movimento: uno era rimasto ucciso nell’insurrezione del ’60, l’altro era ancora alla ricerca di nuove adesioni al partito nelle province meridionali. Amai era cresciuta nelle Case odoniane: nata per la rivoluzione, vera figlia dell’anarchia. Una bambina così tranquilla e libera e bella che il solo pensiero commuoveva: è per questo che abbiamo lavorato, è questo che volevamo costruire, questo, ed eccola qui, viva, il nostro futuro felice e radioso.
L’occhio destro di Laia Asieo Odo pianse alcune minuscole lacrime, mentre lei stava lì in piedi tra i lavabi e le latrine e mentre la figlia che lei non aveva generato le acconciava i capelli; ma l’occhio sinistro, quello forte, non piangeva e ignorava cosa faceva il destro.
Laia ringraziò Amai e tornò in fretta nella propria stanza. Nello specchio aveva notato una macchia sul colletto. Probabilmente succo di pesca. Vecchia bavosa. Non voleva che Noi entrasse e la trovasse con quella sbavatura sul colletto.
Mentre s’infilava dalla testa la camicia pulita pensò: "Ma cos’ha Noi di così speciale?"
Allacciò lentamente gli alamari del colletto con la mano sinistra.
Noi era sui trent’anni, esile, muscoloso, con una voce calda e vivi occhi scuri. Questo era tutto ciò che lo caratterizzava. Semplicissimo. Il buon sesso di una volta. Gli uomini biondi o grassi non avevano mai esercitato su di lei il minimo fascino, e nemmeno si era mai sentita attratta dai tipi alti e dotati di grandi bicipiti, no, nemmeno quando aveva quattordici anni e cadeva come una pera cotta al passare di un ganimede qualunque. Bruno, smilzo e focoso: questa era la sua ricetta. Taviri, naturalmente. Quel ragazzino non si poteva certo paragonare a Taviri per intelligenza e nemmeno fisicamente, ma il punto era questo: lei non voleva che la vedesse con quella sbavatura sul colletto e con i capelli tutti in disordine.
Quei suoi capelli sottili, grigi.
Entrò Noi, che si era trattenuto appena un attimo sulla soglia. Santo Dio, lei non aveva nemmeno chiuso la porta mentre si cambiava la camicia! Lo guardò e vide se stessa. Una vecchia.
Che si spazzoli i capelli e si cambi la camicia, o invece indossi la camicia della settimana prima e si porti in giro le trecce della notte prima o ancora si metta un abito intessuto d’oro e si cosparga con polvere di diamanti la testa rasata, non fa la minima differenza. Una vecchia appare soltanto poco più o poco meno grottesca.
Ci si tiene in ordine per puro senso della decenza, per pura e semplice igiene mentale, per consapevolezza del prossimo.
E poi anche questo non vale più, e ci si sbava addosso senza ritegno.
— Buongiorno — disse il ragazzo, con quella sua voce gentile.
— Ciao, Noi.
No, perdio, non era soltanto per un senso di decenza. Al diavolo la decenza. Se l’uomo che lei aveva amato, e per il quale la sua età non sarebbe stata importante, perché era morto, soltanto per quel motivo lei doveva fingere di essere ormai asessuata? Per questo doveva reprimere la verità, come una qualunque stupida puritana autoritaria? Solo sei mesi addietro, prima del colpo apoplettico, era tale che gli uomini si voltavano, e con piacere, a guardarla; e adesso, pur non essendo in grado di dare piacere agli altri, perdio poteva almeno piacersi.
Quando lei aveva sei anni e un amico di papà — Gadeo — veniva a parlare con lui di politica dopo cena, lei si metteva la collana dorata che la mamma aveva trovato in un mucchio di ciarpame e portato a casa nascosta nel colletto dove nessuno la poteva vedere. Ma lei sapeva che a Gàdeo questo piaceva. Era bruno, aveva denti bianchi che risplendevano. A volte la chiamava «la sua bella Laia». «Ecco che arriva la mia bella Laia!». Sessantasei anni prima.
— Cosa? Mi sento la testa vuota. Ho passato una notte terribile -. Era vero. Aveva dormito meno ancora del solito.
— Ti ho chiesto se hai letto i giornali di oggi.
Lei fece segno di sì col capo.
— Soddisfatta di Soinehe?
Soinehe era la provincia di Thu che la sera precedente aveva dichiarato la secessione dallo Stato di Thu.
Lui ne era soddisfatto. I bianchi denti gli splendevano sul volto bruno e pieno di vita. La bella Laia.
— Sì. E preoccupata.
— Lo so. Ma questa volta è l’ora della verità. È l’inizio della fine per il governo di Thu. Non hanno nemmeno cercato di far arrivare truppe a Soinehe, capisci? Non farebbero altro che portare i soldati alla ribellione prima dell’inevitabile, e lo sanno.
Lei era d’accordo. Aveva provato la sua stessa certezza. Ma non riusciva a condividere il suo compiacimento. Dopo una vita spesa nella speranza perché nient’altro era concesso, si perdeva il gusto della vittoria. Un vero senso di trionfo dev’essere preceduto da vera disperazione. E lei aveva disimparato a disperare tanto tempo prima. Il trionfo non era più possibile. Si tirava avanti.
— Oggi facciamo quelle lettere?
— Va bene. Quali lettere?
— Per quelli del nord — disse con pazienza Noi.
— Quelli del nord?
— Parheo, Oaidun.
Lei era nata a Parheo, città sporca su quel suo fiume sporco. Non era venuta alla capitale che a ventidue anni, quando si era sentita pronta per portare la rivoluzione, sebbene allora, prima che lei e gli altri la rimeditassero, la loro rivoluzione fosse molto acerba e puerile. Scioperi per migliorare i salari, per far entrare in parlamento una rappresentanza femminile. Voti e salari: potere e denaro, per amor di Dio! Be’, dopotutto, in cinquant’anni qualcosa si impara!
E poi si ridimentica tutto.
— Incomincia con Oaidun — disse, sedendosi nella poltrona. Noi era alla scrivania, pronto per il lavoro. Lesse brani dalle lettere che aspettavano la risposta di Laia. Lei cercò di essere attenta, e ci riuscì abbastanza bene da dettare una lettera intera e iniziarne un’altra. — Ricorda che a questo stadio il tuo sentimento di fratellanza può essere messo in forse da… no, in pericolo… da… — Annaspò con le parole fino a quando Noi le suggerì: — Il pericolo del culto della personalità?
— Bene. E che niente si lascia corrompere dalla brama del potere quanto l’altruismo… No. E che niente corrompe l’altruismo… No. Oh, per amor di Dio, tu sai quello che intendo dire: scrivilo tu. Anche loro, lo sanno. Sono sempre le stesse cose. Ma perché non se le leggono nei miei libri!
— Restare in contatto — disse Noi con gentilezza, citando uno dei temi centrali della filosofia odoniana.
— D’accordo, ma io sono stanca di essere in contatto. Se tu scrivi la lettera io la firmo, ma questa mattina non ho voglia di occuparmene. — Noi la guardava con un’espressione leggermente interrogativa o preoccupata. Laia disse, con irritazione: — Ho altro da fare!
Quando Noi se ne fu andato Laia si sedette alla scrivania e mosse le carte come per lavorare, perché si era sorpresa — spaventata — per le parole che aveva pronunciato. Non sapeva fare altro. Non aveva mai fatto altro. Era quello il suo lavoro: il lavoro della sua vita. I viaggi di propaganda e le riunioni e la piazza erano ormai fuori dalla sua portata; ma poteva sempre scrivere, e questo era il suo lavoro. E comunque, se lei avesse avuto altro da fare Noi l’avrebbe saputo: teneva in ordine l’agenda e le ricordava con tatto certe cose, come ad esempio la visita degli studenti stranieri proprio quel pomeriggio.
Oh, accidenti! I giovani le piacevano, e da uno straniero s’imparava sempre qualche cosa, ma adesso era stanca di facce nuove e di stare in mostra. Lei imparava dagli stranieri, ma gli stranieri non imparavano da lei: tutto quello che aveva da insegnare l’avevano imparato tanto tempo prima, dai suoi libri e dal Movimento. Venivano soltanto a guardare, come se lei fosse stata la grande torre di Rodarred o il canyon di Tulaevea. Un fenomeno, un monumento. Osservavano con timore mistico, adorante. Parlava loro con violenza: «Siate voi a pensare senza farvi dare l’imbeccata!». «Questo non è anarchismo, ma puro e semplice oscurantismo». «Non penserete mica che libertà e disciplina siano incompatibili, vero?». E quelli accoglievano le staffilate docili come agnellini, riconoscenti, come se lei fosse stata una dea-madre, l’idolo del grembo universale. Proprio lei! Lei che aveva minato i cantieri navali di Seissero e che aveva insultato il presidente del consiglio Inoilte di fronte a settemila persone, quando gli aveva detto che se mai avesse pensato di trarne un utile si sarebbe tagliato da sé i testicoli, li avrebbe fatti laminare in bronzo e poi li avrebbe venduti come ricordini; lei che aveva urlato, imprecato, preso a calci poliziotti e sputato contro preti, e che aveva orinato in pubblico in piazza del Campidoglio sulla grande targa di ottone che diceva QUI FU FONDATO LO STATO SOVRANO DELLA NAZIONE DI A-IO (ecc. ecc.)! Pppuuuhhh a tutto questo! E adesso era la nonnina di tutti, la cara vecchietta, il buon vecchio monumento, venite ad adorarne il grembo. Il fuoco s’è spento, ragazzi: fatevi appresso, non c’è più pericolo.
— No — disse ad alta voce. — Non ci sarò -. Non si spaventava di parlare da sola, perché l’aveva sempre fatto. «Il pubblico invisibile di Laia», lo chiamava Taviri, mentre lei andava in giro per la stanza borbottando. — Non c’è bisogno che veniate, io non ci sarò — disse al suo pubblico invisibile. Aveva appena deciso cosa fare. Se ne sarebbe uscita. Per le strade.
Era irriguardoso deludere studenti stranieri. Era una stramberia tipica della senilità. Era molto poco odoniano. Pppuuuhhh a tutto questo! Che senso c’era a lottare tutta la vita per la libertà e poi finire col non averne neanche un briciolo? Se ne sarebbe uscita a fare una passeggiata.
«Che cos’è un anarchico? Colui che per scelta accetta la responsabilità della scelta».
Stava scendendo le scale quando decise, riluttante, di restare e ricevere gli studenti stranieri. Sarebbe uscita dopo.
Erano giovanissimi, serissimi, con occhi di cerbiatto, irsuti, affascinanti: venivano dall’emisfero occidentale, dal Benbili e dal regno di Mand. Le ragazze indossavano pantaloni bianchi, i ragazzi gonnellini lunghi, marziali e arcaici. Parlavano delle loro attese. — In Mand siamo così lontani dalla rivoluzione che forse ci siamo vicini — disse una delle ragazze con assorta malinconìa, sorridendo: — Il cerchio dell’esistenza! — E mostrò l’incontrarsi degli estremi nel cerchio delle dita esili e brune. Amai e Aevi servirono loro vino bianco e pane nero, l’ospitalità della casa. Ma i visitatori con molta modestia si alzarono tutti per prendere congedo dopo non più di mezz’ora. — No, no, no — disse Laia, — restate, parlate con Aevi e Amai. È solo che se sto seduta m’indolenzisco tutta, capite, e devo muovermi un po’. Mi ha fatto molto bene incontrarvi. Fratellini e sorelline, tornerete presto a trovarmi? — Il suo cuore era con loro, e il loro con lei; e prima di ritirarsi li salutò tutti con un bacio, ridendo, piena di gioia per quelle giovani guance brune, quegli occhi affettuosi, quei capelli profumati. Era davvero un po’ stanca, ma andarsene di sopra a fare un sonnellino sarebbe stato un riconoscersi sconfitta. Prima aveva avuto l’intenzione di uscire. E sarebbe uscita. Non usciva da sola da… da quando? Dalla fine dell’inverno, prima del colpo. Non c’era da stupirsi che fosse un po’ strana. Proprio come essere stata in prigione. Fuori, in strada: il suo mondo era quello.
Uscì tranquilla dalla porta laterale, superò l’aiuola verde, e giunse in strada. Quella sottile striscia di acre terra cittadina era stata coltivata magnificamente e mostrava una buona messe di fagioli e ceëa, ma Laia non s’interessava alle coltivazioni. Certo, era apparso chiaro che le comunità anarchiche, anche durante i periodi di transizione, avrebbero dovuto operare in direzione di un’autosufficienza ideale, ma in che modo questa si dovesse ottenere in termini reali di terreno e di piante non era affar suo. C’erano contadini e agronomi, per questo. Affar suo erano invece le strade, le strade rumorose e puzzolenti, i selciati dove lei era cresciuta e dove aveva vissuto l’intera vita con l’eccezione di quei quindici anni di carcere.
Guardò con affetto la facciata della casa. Il fatto che fosse stata costruita per essere una banca dava agli abitanti attuali un piacere tutto particolare. Conservavano i sacchi di farina integrale nelle camere blindate, e ottenevano la stagionatura del sidro in barilotti collocati nelle cassette di sicurezza. Al disopra delle impeccabili colonne sul fronte della strada si leggeva ancora la scritta: Associazione Bancaria Nazionale per l’Agricoltura. Il Movimento non era particolarmente versato per le denominazioni. Non aveva una bandiera. Gli slogan andavano e venivano secondo necessità. C’era sempre il «cerchio dell’esistenza» da tracciare sui muri e sui marciapiedi dove le autorità l’avrebbero visto. Ma quando si trattava di denominare qualcosa si ritrovavano indifferenti, e accettavano oppure ignoravano i nomi in cui si imbattevano, per paura di essere vincolati e costretti e senza temere di essere contraddittori. E così quella casa cooperativa, prima per notorietà e seconda per vecchiaia, non aveva altro nome che «la banca».
Fronteggiava una strada spaziosa e tranquilla; ma a un isolato di distanza aveva inizio la Temeba, un mercato all’aperto, un tempo famoso come borsanera di sostanze psicogene e teratogene e ora ridotto a mercato di frutta e verdura e di vestiti di seconda mano, e a miserando luogo di avvenimenti secondari. La sua vitalità crapulona era sparita, lasciando dietro di sé soltanto alcolizzati semiparalitici, drogati, storpi, ambulanti, bagasce da mezza tariffa, banchi di pegno, bische volanti, indovini, scultori del corpo e alberghetti infimi. Laia ritornava a Temeba come l’acqua alla sua condizione di equilibrio.
Non aveva mai temuto né disprezzato la città. Era la sua patria. Non ci sarebbero più stati bassifondi come quelli quando la rivoluzione avesse vinto. Ma sarebbe rimasta la miseria. Ci sarebbero stati miseria, spreco, crudeltà. Lei non aveva mai preteso di cambiare la condizione umana, di essere la mammina che si porta via tutte le durezze della vita dei suoi piccoli perché non si facciano più male. Tutto ma non questo. Purché la gente fosse libera di scegliere, non era affar suo se poi viveva in cloache e beveva insetticida. Purché questo non fosse affare degli Affari, fonte di profitto e mezzo di potere per altri. Cose, queste, che aveva intuito assai prima di sapere qualcosa di preciso. Prima di scrivere il suo primo libello, prima di lasciare Parheo, prima di conoscere il significato di «capitale», prima di oltrepassare i confini di via del Fiume dove giocava con gli altri bambini di sei anni posando per terra le ginocchia piene di croste, sapeva già tutto questo: che lei e gli altri bambini e i suoi genitori e i loro genitori e gli ubriaconi e le prostitute e tutta le gente di via del Fiume stavano al fondo di qualcosa, erano le fondamenta, la realtà, la sorgente. Ma nessuno di coloro che si ritenevano fatti di materiale più nobile del fango era disposto a capire. Ora Laia, acqua in cerca della condizione di equilibrio, fango nel fango, avanzava stancamente lungo la strada sporca e rumorosa, e tutta la sconcia debolezza della sua vecchiaia si sentiva a proprio agio. Le sonnacchiose prostitute con la pettinatura laccata che stava tutta di sghimbescio ed era sul punto di sfasciarsi, la vecchia guercia che strillava stancamente i nomi delle sue verdure, il mendicante idiota intento a cacciar via le mosche a schiaffi: erano questi i suoi concittadini. Le assomigliavano, nella loro tristezza, nella loro ripugnanza, pochezza, spregevolezza, oscenità. Erano i suoi fratelli, la sua gente.
Non si sentiva molto bene. Da tanto tempo non si avventurava così lontano — quattro o cinque isolati — da sola, nel rumore e nella calca e sotto il cocente sole dell’estate. Aveva avuto l’intenzione di andare al parco Koly, quel triangolo di erba miseranda al fondo della Temeba, e sedersi per un momento con gli altri uomini e le altre donne che ci andavano ogni giorno, per capire cosa significava starsene seduti là e essere vecchi: ma era troppo lontano. Se non fosse tornata indietro ora, magari l’avrebbe presa un’ondata di capogiro; e aveva una gran paura di cadere, cadere e dover stare a guardare la gente che si avvicinava a osservare una vecchia in preda alle convulsioni. Fece dietrofront e si avviò verso casa, con i segni della fatica e del disgusto di sé visibili sul volto, che sentiva accaldato. Avvertì negli orecchi un ronzio, che cessò subito. Era stato piuttosto intenso, e lei temette davvero di andare a gambe all’aria. Nell’ombra scorse un gradino: vi si diresse, si lasciò cadere giù a poco a poco, si sedette, ed emise un sospiro.
Un fruttivendolo lì vicino sedeva in silenzio dietro la sua mercanzia impolverata e avvizzita. La gente passava. Nessuno comprava. Nessuno la guardava. Odo: chi era? La famosa rivoluzionaria, l’autrice di Comunità, Analogia, eccetera. E chi era? Una vecchia dai capelli grigi e dal volto arrossato, seduta sulla lurida soglia di un tugurio, che biascicava parole fra sé e sé.
Era vero? Era ciò che lei era? Senz’altro era ciò che qualunque passante vedeva. Ma lei, proprio lei, era più di quello che la famosa rivoluzionaria eccetera era stata? No. Non era di più. Ma allora chi era?
La donna che aveva amato Taviri.
Sì. Abbastanza vero. Ma non abbastanza. Quella era cosa finita. Taviri era morto da così tanto tempo!
— Chi sono? — borbottò Laia al suo pubblico invisibile, che sapeva rispondere alla sua domanda e le rispose all’unisono. Lei era la ragazzina con le ginocchia piene di croste, seduta sulla soglia a guardare nella foschia sporca e dorata di via del Fiume, sotto il sole di una tarda estate; la bambina di sei anni, la ragazza di sedici, fiera, irascibile, con la testa piena di sogni, indifferente, irraggiungibile. Lei era se stessa. Sì, era stata l’indefessa lavoratrice e pensatrice, ma un grumo di sangue in una vena le aveva sottratto quella donna. Sì, era stata l’amante, colei che si apriva una strada nella vita, ma Taviri morendo le aveva sottratto quella donna. Niente era rimasto, in realtà, se non le fondamenta. Era tornata: non se n’era andata mai. «Il vero viaggio è il ritorno». Polvere e fango e la soglia di un tugurio. E oltre, in fondo alla strada, quel campo pieno di erbe alte e secche sotto il soffio del vento al crepuscolo.
— Laia! Ma cosa fai, qui? Stai bene?
Uno degli abitanti della Casa, naturalmente: una brava donna, un po’ fanatica e un po’ ciarliera. Laia non ne ricordava il nome sebbene la conoscesse da anni. Lasciò che la riportasse a casa, e lasciò che parlasse per tutta la strada. Nel grande salone (un tempo occupato da cassieri intenti a contare il denaro dietro i banconi lucenti sotto lo sguardo di guardie armate) Laia si sedette su una sedia. Non se la sentiva proprio, almeno per il momento, di salire le scale, sebbene preferisse starsene sola. La donna continuava a parlare, e altri entravano eccitati nella sala. Sembrava che stessero programmando una dimostrazione. Gli eventi, a Thu, procedevano così rapidi che anche lì gli animi si erano infuocati, e bisognava fare qualcosa. Dopodomani — no, domani — ci sarebbe stata una marcia, una grande marcia, dalla città vecchia alla piazza del Campidoglio, lungo il vecchio itinerario.
— Un’altra Rivolta del nono mese — disse un giovane, infiammato e ridente, guardando Laia. Al tempo della Rivolta del nono mese non era nemmeno nato, per lui era soltanto storia. Ora voleva fare anche lui la sua piccola parte di storia. La sala si era riempita. Vi si sarebbe tenuta un’assemblea generale l’indomani alle otto del mattino. — Laia, dovrai parlare.
— Domani? Oh, domani io non ci sarò — disse brusca. Quello che aveva parlato sorrise e qualcun altro rise; Amai la fissò con aria interrogativa. Parlarono ancora e alzarono la voce. La rivoluzione. Ma cosa diavolo l’aveva fatta parlare così? Ma era una cosa da dire alla vigilia della rivoluzione, anche se fosse stata vera?
Aspettò di risentirsi in forze, riuscì a rimettersi in piedi, e malgrado la goffaggine sgusciò via non vista tra la gente eccitata e prese a salire i gradini a uno a uno. Nella stanza sotto di lei, alle sue spalle, una, due, dieci voci stavano dicendo «sciopero generale». — Sciopero generale — biascicò Laia, prendendo fiato sul pianerottolo. Sopra, davanti a lei, nella sua stanza, cosa l’aspettava? Il suo colpo apoplettico privato. Piuttosto buffo. Iniziò a salire la seconda rampa, un gradino alla volta, una gamba alla volta, come una bambina di due anni. Aveva il capogiro, ma non aveva più paura di cadere. Davanti a lei, laggiù, i fiorellini bianchi e secchi dondolavano le corolle e sussurravano nei vasti campi della sera. Settantadue anni e non aveva mai avuto il tempo d'impararne il nome.