Connie Willis Fatalità

Mercoledì venne la vicina di casa di Elizabeth. Pioveva a dirotto, ma aveva attraversato di corsa il giardino senza impermeabile o ombrello, con le mani affondate nelle tasche del cardigan.

«Ciao,» disse senza fiato. «Abito qui accanto, e volevo solo fare un salto per salutare e vedere se vi eravate sistemati.» Infilò la mano in una delle tasche del maglione e ne tirò fuori un foglio di carta piegato. «C’è scritto il nome del camioncino per il ritiro della spazzatura. Me l’ha chiesto tuo marito l’altro giorno.»

Glielo diede. «Grazie,» disse Elizabeth. La giovane le ricordava Tib. Aveva i capelli corti e biondi, pettinati all’indietro con dei riccioli sporgenti. Tib li portava in quel modo ai tempi in cui erano matricole.

«Non è orribile il tempo?» chiese la giovane. «Di solito non piove così tanto in autunno.»

Aveva piovuto tutto l’autunno quando Elizabeth era matricola. «Non hai l’impermeabile?» le aveva chiesto Tib mentre lei disfaceva la valigia ed appendeva gli abiti nel dormitorio.

Tib era piccola e carina, il genere di ragazza che probabilmente aveva decine di appuntamenti, il tipo di ragazza che indossava tutti i vestiti più adatti al college. Elizabeth non aveva avuto idea di quali vestiti portare. L’opuscolo del college inviato alle matricole diceva di portare maglioni e gonne per le lezioni, un completo per la festa delle associazioni studentesche e un abito da sera. Non parlava di impermeabili.

«Ne ho bisogno?» aveva detto Elizabeth.

«Be’, adesso piove, se questo ti suggerisce qualcosa,» aveva detto Tib.

«Pensavo che stesse per smettere.» disse la vicina, «ma non è così. E fa un freddo cane.»

Tremò. Elizabeth vide che il cardigan era umido.

«Posso alzare il riscaldamento,» disse Elizabeth.

«No, non posso trattenermi. So che state togliendo la roba dalle valigie. Mi dispiace che abbiate dovuto traslocare con tutta questa pioggia. Da queste parti, il tempo di solito è bello in autunno.» Sorrise a Elizabeth. «Ma poi che te lo dico a fare? Tuo marito mi ha detto che sei andata a scuola qui. All’università.»

«Al tempo non era un’università. Era un college statale.»

«Ah, giusto. È cambiato molto il campus?»

Elizabeth andò a dare un’occhiata al termostato. Segnava una temperatura di venti gradi, ma le sembrava che fosse più freddo. Lo alzò a ventitré gradi. «No,» disse. «È proprio lo stesso.»

«Senti, non posso restare,» disse la giovane. «E probabilmente avrai mille cose da fare. Ero solo venuta per fare un saluto e chiederti se volevi venire stasera. Teniamo una riunione Tupperware.»

Una riunione Tupperware, pensò triste Elizabeth. Ecco perché mi ricorda Tib.

«Non sei obbligata a venire. E se vieni non sei obbligata ad acquistare nulla. Non sarà una grande festa. Solo un po’ di amiche mie. Penso che sarebbe un buon modo per farti incontrare alcune vicine. Davvero, faccio la riunione solo perché ho un’amica che vorrebbe cominciare a vendere Tupperware e…» Si interruppe e guardò Elizabeth ansiosa, tenendo le braccia intorno al petto per scaldarsi.

«Avevo un amico che vendeva Tupperware,» disse Elizabeth.

«Oh, allora ne avrai a tonnellate.»

La caldaia cominciò a sibilare in modo assordante. «No,» disse Elizabeth, «non ne ho.»

«Per favore, vienici,» continuò a dire la giovane anche sul portico anteriore. «Non per comprare qualcosa. Solo per conoscere gli altri.»

La pioggia scendeva ancora abbondante. Riattraversò il prato di corsa verso casa sua, con le braccia strette intorno a sé e la testa piegata in avanti.

Elizabeth ritornò in casa e telefonò a Paul in ufficio.

«È proprio importante, Elizabeth?» disse. «Dovrei incontrarmi a mezzogiorno con il dottor Brubaker nell’ufficio Ammissioni per pranzo, e ho un sacco di lavoro in ufficio.»

«La ragazza della porta accanto mi ha invitata a una riunione Tupperware,» disse Elizabeth. «Non volevo dirle di sì senza conoscere i tuoi programmi per stasera.»

«Una riunione Tupperware?» disse. «Non posso credere che mi hai chiamato per una cosa del genere. Lo sai quanto ho da fare. Hai inoltrato la richiesta da Carter?»

«Ci vado subito,» disse. «Ci sarei andata stamattina, ma…»

«È arrivato il dottor Brubaker,» disse, e mise giù la cornetta.

Elizabeth rimase in piedi vicino al telefono per un minuto, pensando a Tib, poi si infilò l’impermeabile e passeggiò verso il vecchio campus.

«È esattamente lo stesso di quando eravamo matricole,» aveva detto Tib quando Elizabeth le aveva parlato del nuovo lavoro di Paul. «Ero andata là l’estate scorsa per cercare delle pagelle, e non ci potevo credere. Pioveva, e giuro che i marciapiedi erano ricoperti di vermi proprio come lo erano sempre stati. Ti ricordi quell’impermeabile giallo che hai comprato quando eri matricola?»

Tib aveva chiamato Elizabeth da Denver quando loro avevano cominciato a cercare casa. «Ho letto fra le notizie degli ex allievi che Paul era il nuovo vicepreside,» disse come se nulla fosse mai accaduto. «L’articolo non parlava di te, ma pensai che ci fosse una remota possibilità che foste ancora sposati. Io non lo sono più.» Tib aveva insistito per portarla a pranzo a Larimer Square. Si era fatta crescere i capelli, ed era troppo magra. Ordinò un daiquiri alla pesca e raccontò ad Elizabeth ogni cosa sul suo divorzio. «Ho scoperto che Jim si scopava qualche puttanella in ufficio,» disse, facendo roteare il ramoscello di menta che le avevano servito con il drink, «e non lo potevo accettare. Lui non capiva cosa ci fosse di tanto sconvolgente. “Ok, me la sono spassata un po’, e allora?” mi ha detto. “Lo fanno tutti. Quand’è che cresci?” Non avrei dovuto mai sposarlo, il verme, ma non sai che ti stai rovinando la vita mentre lo fai, no?»

«Già,» disse Elizabeth.

«Voglio dire, prendiamo te e Paul,» disse. Parlava più velocemente di quanto Elizabeth ricordasse, e quando chiamò il cameriere per ordinare un altro daiquiri, la voce le tremò un po’. «Ora, questo è un matrimonio sul quale non avrei mai scommesso, e quanto tempo è che siete sposati? Quindici anni?»

«Diciassette,» disse Elizabeth.

«Sai, ho sempre pensato che avresti accomodato le cose con Tupper,» disse. «Mi chiedo che fine abbia fatto.» Il cameriere servì il daiquiri e portò via il bicchiere vuoto. Lei prese il ramoscello di menta e lo posò delicatamente sulla tovaglia.

«Se è per questo, la stessa fine che hanno fatto Elizabeth e Tib,» disse.

Il campus non era esattamente lo stesso. Avevano aggiunto un’ala a Frasier e avevano tagliato la maggior parte degli olmi. In effetti non era più il campus vero e proprio. Il vero campus era a nordovest, dove era stato fatto spazio per ospitare i nuovi edifici in cemento per le aule e i dormitori. Il dipartimento di Musica era ancora a Frasier, e il dipartimento di Educazione Fisica utilizzava per gli sport femminili la vecchia palestra di Gunter, ma la maggior parte dei vecchi palazzi per le aule e i piccoli dormitori all’estremità meridionale del campus erano diventati uffici. La biblioteca era diventata la sede dell’amministrazione e Kepner era di proprietà dell’ente che gestiva gli alloggi del campus, ma nella pioggia tutto sembrava uguale a prima.

Le foglie cominciavano a cadere, e il viale principale era umido e coperto di vermi. Elizabeth vi camminò in mezzo, guardando dove metteva i piedi per cercare di non schiacciarli. Quando era matricola, si era assolutamente rifiutata di camminare sui marciapiedi. Aveva rovinato due paia di scarpe col tacco basso tagliando attraverso il prato per andare a lezione.

«Sei una testona, lo sai?» le aveva urlato Tib, accelerando il passo per raggiungerla. «Ci sono vermi anche nell’erba.»

«Certo, ma io non li vedo.»

Dove non c’era erba, aveva insistito per camminare in mezzo alla strada. Proprio in quel modo avevano conosciuto Tupper. Le aveva quasi investite con la bicicletta.

Era stato un venerdì sera. Elizabeth se lo ricordava, perché Tib portava l’uniforme Angel Flight del Corpo Addestramento Ufficiali in Riserva, e dopo che Tupper aveva deviato tempestivamente per evitarle, alzando grandi schizzi d’acqua e rovesciando la bicicletta, la prima cosa che disse fu: «Caspita! È un poliziotto!»

Lo avevano aiutato a raccogliere le buste di plastica che si erano sparpagliate per terra. «Che sono queste?» aveva detto Tib, incurvando la schiena perché non poteva piegarsi a terra per via della gonna blu aderente e dei tacchi alti.

«Tupperware,» disse. «L’ultima novità. Ragazze, non è che vi serve uno scomparto per l’insalata? Sono grandi per metterci i vermi.»

Carter Hall sembrava esattamente la stessa da fuori, brutta pietra beige e mattoni di vetro. Era stata la sede dell’associazione studentesca, ma ora ospitava l’ufficio per il sussidio economico e il personale. All’interno era stata completamente ridisegnata. Elizabeth non sapeva nemmeno dire dove si fosse trovato il bar.

«Lo può compilare qui se vuole,» disse la ragazza che le consegnò il modulo di richiesta, e le diede una penna. Elizabeth appese la giacca allo schienale di una sedia e si mise a sedere a un banco davanti alla finestra. Sebbene la finestra fosse appannata, sentiva un po’ freddo.

Se ne erano andati tutti all’associazione studentesca per mangiare la pizza. Elizabeth aveva appeso l’impermeabile giallo in fondo alla sala. Tupper aveva fatto finta di strizzare la giacca jeans e l’aveva stesa sul termosifone. La finestra era talmente appannata che non si riusciva a vedere fuori. Tib aveva scritto con il dito “Odio la pioggia” sul vetro e Tupper aveva parlato di come si manteneva all’università vendendo Tupperware.

«Sono grandi per tenerci i biscotti,» disse, tirando fuori una grande scatola rosa che definì un portacereali. Ci infilò dentro un pezzo di pizza e mostrò come metterci il coperchio e sigillarlo per bene. «Ecco. Si mantiene per settimane. Anni. Dài. Ve ne serve uno. Scommetto che le mamme vi mandano biscotti tutti i giorni.»

Era al terzo anno. Era alto e magro, e quando si rimise indosso la giacca jeans umida, le maniche si erano accorciate e i polsi gli spuntavano fuori. Si era seduto vicino a Tib da un lato della sala ed Elizabeth si era messa dall’altro. Aveva parlato quasi tutta la sera con Tib, e al momento di pagare il conto si era piegato verso di lei e le aveva bisbigliato qualcosa. Elizabeth era sicura che le stesse chiedendo di uscire con lui, ma sulla via del ritorno Tib le aveva detto: «Sai cosa voleva, no? Il tuo numero di telefono.»

Elizabeth si alzò in piedi e si rimise la giacca. Restituì la penna alla ragazza col maglione e la gonna. «Credo che lo riempirò a casa, poi lo riporto.»

«Va bene,» disse la ragazza.


Quando Elizabeth uscì fuori di nuovo, aveva smesso di piovere. Gli alberi sgocciolavano ancora, con grandi gocce che picchiettavano sul viale bagnato. Camminò lungo il largo viale centrale verso il suo vecchio dormitorio, guardando dove metteva i piedi in modo da non calpestare nessun verme. Il dormitorio era diventato l’infermeria dell’università. Si fermò e rimase per un po’ sotto la finestra centrale, guardando in alto verso la stanza che era stata sua e di Tib.

Tupper si era piazzato sotto la finestra e si era messo a tirare dei sassolini. Tib aveva aperto la finestra e aveva urlato: «Smettitela di tirare sassi, altrimenti…» Qualcosa la colpì al petto. «Oh, ciao, Tupper…» disse, e lo raccolse dal pavimento passandolo poi a Elizabeth. «È per te,» disse. Non era un sassolino. Era un aggeggio di plastica rosa, uno degli omaggi che distribuiva alle riunioni Tupperware che organizzava.

«Che sarebbe questo?» aveva detto Elizabeth, sporgendosi dalla finestra e agitandolo nella sua direzione. Pioveva. Tupper aveva il colletto della giacca jeans tirato su ed era visibilmente infreddolito. Il marciapiede intorno a lui era ricoperto di omaggi di plastica rosa.

«Un regalo,» disse. «È un separauova.»

«Non ho uova.»

«Allora mettitelo al collo. Saremo ufficialmente strapazzati.»

«O separati.»

Cercò di portarsi la mano libera al petto. «Mai!» esclamò. «Vuoi venire con me fra i vermi? Devo fare delle consegne.» Stringeva in mano diverse buste di plastica piene di ciotole e portacereali.

«Vengo subito giù,» aveva detto, ma poi si era fermata e aveva cercato un nastro per legarsi indosso il separauova prima di scendere le scale.

Elizabeth abbassò lo sguardo verso il marciapiede, ma non c’erano omaggi di plastica sul cemento bagnato. C’era una grande pozzanghera vicino al cordolo, e un verme proprio in bilico sul bordo. Si mosse un po’ mentre lo osservava, in quella orribile maniera molliccia che aveva sempre odiato, dopodiché si fermò.

Una ragazza la sfiorò, camminando a passi veloci. Mise un piede nella pozzanghera, ed Elizabeth fece mezzo passo indietro per non farsi schizzare. L’acqua della pozzanghera si increspò e strabordò con un’ondata. Il verme cadde al di là del cordolo andando a finire nella fogna.

Elizabeth alzò lo sguardo. La ragazza aveva già percorso metà del viale centrale, in ritardo per la lezione o arrabbiata o tutt’e due le cose. Indossava un’uniforme degli Angel Flight e tacchi alti, e portava i capelli biondi tagliati corti pettinati all’indietro con dei riccioli che le sporgevano ai lati del berretto militare.

Elizabeth scese dal marciapiede. La fogna era intasata di foglie morte e piena d’acqua. Il verme c’era affondato dentro. Si inginocchiò, seduta sui talloni, con il modulo di richiesta nella mano destra. Il verme sarebbe affogato, no? Gliel’aveva detto Tupper. Quando pioveva, i vermi uscivano sui marciapiedi proprio perché le loro gallerie si riempivano d’acqua, e sarebbero affogati se non lo facevano.

Si rimise in piedi e lanciò di nuovo uno sguardo al viale centrale, ma la ragazza se n’era andata, e non c’era nessun altro nel campus. Si rimise in ginocchio e portò il modulo sull’altra mano, quindi infilò la destra nell’acqua gelata e raccolse il verme con la mano a conca, pensando che ce l’avrebbe fatta a tenerlo se non si fosse mosso, ma appena le dita ne toccarono la soffice pelle rosa, lo lasciò cadere e strinse il pugno.

«Non ce la faccio,» disse Elizabeth, strofinandosi la mano bagnata su un lato dell’impermeabile, come se potesse cancellare il ricordo di aver toccato il verme.

Prese il modulo con entrambe le mani e lo affondò nell’acqua come una paletta. La carta divenne un po’ flaccida, ma lei la spinse fra le foglie sporche e bagnate, pescò il verme e lo rimise sul marciapiede. Non si mosse.

«E grazie a Dio escono sui marciapiedi!» aveva detto Tupper, accompagnandola a casa in mezzo alla strada dopo aver consegnato i prodotti Tupperware. «A te fanno schifo quando li vedi qui! E se non uscissero sui marciapiedi? Se rimanessero tutti nelle buche e affogassero? Hai mai dovuto fare la respirazione bocca a bocca a un verme?»

Elizabeth si rimise in piedi. La richiesta di lavoro era bagnata e sporca. C’era una patacca marrone nel punto toccato dal verme, e una riga di sporco in cima. Doveva buttarla via e tornare da Carter per prenderne un’altra. La aprì e separò attentamente le pagine bagnate, in modo che non si sarebbero appiccicate quando le avesse asciugate.

«Ho frequentato le lezioni di pronto soccorso lo scorso semestre, e dovevamo fare la respirazione bocca a bocca,» aveva detto Tupper, in piedi in mezzo alla strada davanti al dormitorio. «Che belle lezioni! Ho venduto ventidue vaschette per l’equipaggiamento contro i morsi di serpente. Lo sai come si fa la respirazione bocca a bocca?»

«No.»

«È facile,» aveva detto Tupper, e le aveva messo la mano dietro al collo e l’aveva baciata, in mezzo alla strada, sotto la pioggia.

Il verme non si era ancora mosso. Elizabeth rimase a guardarlo per un altro po’, infreddolita, poi tornò in mezzo alla strada e si incamminò verso casa.


Paul rientrò a casa solo alle sette passate. Elizabeth aveva tenuto un pasticcio in caldo nel forno.

«Ho già mangiato,» le disse. «Pensavo che saresti andata alla riunione Tupperware.»

«Non voglio andarci,» disse lei, infilando la mano nel forno caldo per tirarne fuori il pasticcio. Era la prima volta in tutto il giorno che sentiva caldo.

«La moglie di Brubaker ci sarà. Gli ho detto che ci saresti andata anche tu. Vorrei che facessi la sua conoscenza. Brubaker è molto influente da queste parti per quanto riguarda l’assegnazione degli incarichi permanenti.»

Mise il pasticcio sul fornello e rimase lì con il forno mezzo aperto. «Sono andata a chiedere un lavoro oggi,» disse, «e ho visto un verme. Era cascato nella fogna e stava affogando, io l’ho raccolto e l’ho rimesso sul marciapiede.»

«E hai fatto domanda per il lavoro o credi di poter guadagnare qualcosa raccogliendo vermi?»

Aveva alzato il riscaldamento quando era tornata a casa e aveva messo il modulo sul radiatore, ma si era tutto raggrinzito mentre si asciugava, e c’era una grossa patacca marrone proprio nel punto in cui aveva raccolto il verme. «No,» disse: «l’avrei fatto, ma proprio nel campus ho visto quel verme sul marciapiede. È passata una ragazza e ha messo un piede in una pozzanghera, e tanto è bastato. Il verme era giusto sul bordo, e quando lei ha camminato nella pozzanghera, c’è stata una specie d’onda che lo ha spinto di sotto. Non si è nemmeno resa conto di quello che faceva.»

«Tutta questa storia ha qualche senso, o hai deciso di rimanere qui a chiacchierare finché mi avrai fatto perdere ogni possibilità di avere un incarico permanente?» Chiuse il forno e andò in salotto. Lei gli andò dietro.

«È bastato solo che qualcuno passasse di fretta e mettesse un piede nella pozzanghera, e tutta la vita del verme è cambiata. Pensi che le cose funzionino in questo modo? Che una piccola azione ti possa cambiare l’intera esistenza?»

«Io penso,» disse, «che prima di tutto non volevi trasferirti qui, e dunque sei intenzionata a rovinare tutte le possibilità che ho. Lo sai quanto ci costa questo trasloco, e non vuoi andare a chiedere un lavoro. Lo sai quanto ci tengo a ottenere un incarico permanente, ma non fai nulla per darmi una mano. E non vuoi nemmeno andare a una maledetta riunione Tupperware!» Abbassò il termostato. «Mi sembra un forno qua dentro. Hai tenuto il riscaldamento a 23 gradi. Ma che t’è preso?»

«Avevo freddo,» disse Elizabeth.


Arrivò tardi alla riunione Tupperware. Avevano iniziato un gioco in cui dovevano dire il proprio nome e qualcosa che piaceva che iniziava con la stessa lettera.

«Mi chiamo Sandy,» stava dicendo una donna sovrappeso che indossava pantaloni marroni di poliestere e una camicetta stampata color ruggine, «e mi piace il sundae.» Indicò la vicina di Elizabeth. «E tu sei Meg e ti piacciono le mou, e tu sei Geraldine,» disse, guardando una donna in completo rosa con i capelli cotonati e laccati come quelli che portavano le ragazze ai tempi in cui Elizabeth andava al college. «Sei Geraldine e ti piace Gesù,» disse, e passò rapidamente alla successiva. «E tu sei Barbara e ti piacciono le banane.»

Fece tutto il giro in tondo finché arrivò a Elizabeth. Sembrò un attimo perplessa, poi chiese: «Tu sei Elizabeth, e hai fatto il college qui, no?»

«Sì,» rispose lei.

«Non comincia con E,» dichiarò la donna al centro. Risero tutte. «Sono Terry e mi piace Tupperware,» disse, e ci furono altre risate. «Sei arrivata in ritardo. Alzati, dicci come ti chiami e qualcosa che ti piace.»

«Sono Elizabeth,» cominciò, mentre ancora provava a farsi venire in mente chi era la donna con i calzoni marroni, Sandy. «E mi piace…» Non le veniva in mente niente con la E.

«L’emmenthal,» le suggerì Sandy ad alta voce.

«E mi piace l’emmenthal,» disse Elizabeth, e si rimise a sedere.

«Molto bene,» disse Terry. «Tutte le altre hanno ricevuto degli omaggi, dunque eccone uno anche per te.» Diede ad Elizabeth un separauova in plastica rosa.

«Mi hanno già dato uno di questi,» disse.

«Non c’è problema,» disse Terry. Le mostrò una scatola di plastica poco profonda piena di reggispazzolini e tagliaananas sempre in plastica. «Se ne hai già uno, lo puoi rimettere a posto e prendere qualcos’altro.»

«No. Va bene così.» Sapeva che doveva dire qualcosa di simpatico e buffo, nello spirito delle serata, ma le veniva solo in mente quello che aveva detto a Tupper quando gliel’aveva dato lui. «Mi sarà sempre caro,» gli aveva detto. Un mese dopo lo aveva buttato via.

«Mi sarà sempre caro,» disse Elizabeth, e tutti risero.

Fecero un altro gioco in cui dovevano mimare parole come “autunno”, “scuola” e “foglia”, dopodiché Terry distribuì i buoni d’ordine con delle matite, e mostrò loro i prodotti Tupperware.

Benché la vicina di Elizabeth avesse acceso il fuoco nel caminetto, in casa faceva ancora freddo, e dopo aver riempito il buono, Elizabeth si spostò vicino al fuoco e vi si sedette davanti, fissando il separauova di plastica.

Le si avvicinò la donna con i pantaloni marroni, con in mano una tazza di caffè e un pezzo di torta su un tovagliolo. «Ciao, sono Sandy Konkel. Non ti ricordi di me, vero?» chiese. «Ero negli Alpha Phi. Ho aderito un anno dopo di te.»

Elizabeth la scrutò in tutta serietà, cercando di ricordarsi di lei. Non aveva l’aria di una che fosse stata negli Alpha Phi. Aveva dei capelli color mostarda e sembrava che se li fosse tagliati da sola. «Mi dispiace, io…» disse Elizabeth.

«Non ti preoccupare,» disse Sandy. Le si sedette vicino. «Sono cambiata molto. Ero molto magra prima di cominciare a frequentare tutte queste riunioni Tupperware e a mangiare torte. Ed ero molto più bionda. Be’, a dire la verità, non sono mai stata più bionda di quanto lo sia adesso, sembrava solo che lo fossi, non so se mi spiego. Tu invece sembri sempre la stessa. Sei Elizabeth Wilson, giusto?»

Elizabeth annuì.

«Non è che sia un fenomeno a ricordarmi i nomi,» disse allegramente, «ma quest’anno mi hanno incastrato per fare la rappresentante degli ex allievi. Posso venire da te domani a raccogliere qualche informazione su quello che fai e con chi sei sposata? Anche tuo marito è un ex allievo?»

«No,» rispose Elizabeth. Allungò le mani verso il fuoco, tentando di riscaldarle. «Esistono ancora gli Angel Flight al college?»

«Vuoi dire all’università,» la corresse Sandy con un sorrisetto. «Una volta era un college. Cavolo, non lo so. Il Corpo Addestramento Ufficiali in Riserva ha chiuso nel ’68. Non so se l’hanno mai ripristinato. Posso informarmi. Eri negli Angel Flight?»

«No,» rispose Elizabeth.

«Sai, ora che ci penso, non credo che l’abbiano fatto. Organizzavano sempre quel grande ballo in autunno, e non mi ricordo che ci sia più stato dal… Com’è che si chiamava? Qualcosa d’Autunno…»

«Il Ballo del Raccolto,» disse Elizabeth.


Giovedì mattina Elizabeth ritornò al campus per fare nuovamente richiesta per un impiego. Paul aveva fatto tardi al lavoro. «Hai parlato con la moglie di Brubaker?» le aveva chiesto quasi sulla porta di casa. Elizabeth se ne era dimenticata completamente. Si chiese quale fosse la signora Brubaker, Barbara a cui piacciono le banane, o Meg a cui piacciono le mou.

«Sì,» rispose. «Le ho detto quanto ti piace l’università.»

«Bene. C’è un concerto in facoltà domani sera. Brubaker ha chiesto se ci andavamo. Li ho invitati a prendere il caffè dopo il concerto. Hai alzato di nuovo il riscaldamento?» disse. Guardò il termostato e lo abbassò a 15 gradi. «Lo avevi portato a 26 gradi. Proprio non vedo l’ora di ricevere la prima bolletta del gas. L’ultima cosa che mi serve è una bolletta da duecento dollari, Elizabeth. Ti rendi conto di quanto ci costa questo trasloco?»

«Sì,» disse Elizabeth. «Me ne rendo conto.»

Aveva rialzato il termostato appena lui se ne era andato, ma non era servito a molto. Si mise indosso un maglione e l’impermeabile, e si diresse al campus.

La pioggia aveva smesso di scendere a un certo punto della notte, sul viale centrale, ancora bagnato, e una ragazza con l’impermeabile giallo salì sul marciapiede. Vi camminò per un po’, con la testa piegata, come se osservasse qualcosa per terra, poi tagliò attraverso il prato umido in direzione di Gunter.


Elizabeth entrò nella Carter Hall. La ragazza che la aveva aiutata il giorno prima era appoggiata al bancone e prendeva appunti da un libro. Indossava una gonna pieghettata e un maglione come quelli che Elizabeth aveva portato al college.

«I modelli dei vestiti che indossavamo a quei tempi sono di nuovo in voga,» le aveva detto Tib quando avevano pranzato insieme. «Quei completi abbinati maglione e gonna e quelle orribili scarpe col tacco basso che ci andavano sempre strette. E quei mocassini da quattro soldi.» Era arrivata a! terzo daiquiri alla pesca e la voce le si era calmata ogni volta di più, cosicché sembrava quasi la Tib di una volta. «E i vestiti da cocktail! Ti ricordi quell’abito color ruggine che avevi, con il collo rientrante e la gonna lunga con il disegno in rilievo? Mi è sempre piaciuto quel vestito. Ti ricordi quando me lo hai prestato per il ballo degli Angel Flight?»

«Sì,» disse Elizabeth, e prese il conto.

Tib provò a rimescolare il daiquiri alla pesca col ramoscello di menta, ma le sfuggì di mano e cadde in fondo al bicchiere. «Davvero, mi ci portò solo per essere gentile.»

«Lo so,» disse Elizabeth. «Allora, quanto devo pagare? Sei e cinquanta per le crépes e due per il vino. Vogliono anche la mancia qui?»

«Mi serve un altro modulo per la richiesta di lavoro,» spiegò Elizabeth alla ragazza.

«Ma certo.» Quando la ragazza andò a prenderlo negli schedari, Elizabeth notò che portava delle scarpe col tacco basso come quelle che aveva indossato lei al college. Elizabeth la ringraziò e infilò il modulo nella borsetta.

Di ritorno passò vicino al suo dormitorio. Il verme era ancora lì. Il marciapiede era quasi asciutto, e il verme era di un rosso più scuro del normale. «Avrei fatto meglio a metterlo nell’erba,» disse ad alta voce. Sapeva che era morto, ma lo prese e lo mise lo stesso nell’erba, perché nessuno lo schiacciasse. Era freddo al tatto.


Sandy Konkel giunse nel pomeriggio con indosso un completo pantalone di poliestere grigio. Aveva in testa una giacca bagnata da scuola superiore con le iniziali stampate sopra. «John mi ha prestato la giacca,» disse. «Io non ne avrei indossata nessuna oggi, ma John mi ha detto che mi sarei bagnata tutta. Era vero.»

«Forse è meglio che la indossi,» disse Elizabeth. «Mi dispiace che faccia così freddo qua dentro. Temo che ci sia qualche problema con la caldaia.»

«Io sto bene così,» disse Sandy. «Sai, ho scritto un articolo su tuo marito, che è stato nominato nuovo vice preside, e gli ho chiesto di te, ma non ha detto che avevi frequentato il college qui.»

Si era portata dietro un grosso quaderno di appunti. Lo aveva organizzato in sezioni etichettate. «Per prima cosa, potremmo anche sbrigare questa faccenda degli ex allievi, e poi si può chiacchierare. Questo lavoro di rappresentante degli ex allievi è davvero una rottura, ma ti dirò che ci provo un certo gusto a scoprire che ne è stato di tutti. Vediamo,» disse, scorrendo col pollice lungo le sezioni. «Trovato, disperso, disperso senza speranza, deceduto. Mi sa che tu sei fra i dispersi senza speranza, giusto? Va bene.» Tirò fuori una matita dalla borsetta. «Tu sei Elizabeth Wilson.»

«Sì,» disse Elizabeth. «Lo sono.» Quando era tornata a casa si era tolta il maglione leggero e ne aveva indossato uno pesante di lana, ma aveva ancora freddo. Si sfregò le mani sugli avambracci. «Vuole del caffè?»

«Sì,» rispose l’altra. Seguì Elizabeth in cucina e le chiese di Paul, del suo lavoro e se avevano figli, mentre Elizabeth preparava il caffè e tirava fuori la panna, lo zucchero e un vassoio di biscotti che aveva cucinato per la serata dopo il concerto.

«Ti leggo dei nomi dalla lista dei dispersi senza speranza, e se sai cosa è successo a qualcuno di loro, interrompimi. Carolyn Waugh, Pam Callison, Linda Bohlender.» Era arrivata diversi nominativi più avanti di Cheryl Tibner quando Elizabeth si rese conto che si trattava di Tib.

«Ho visto Tib l’estate scorsa a Denver,» disse. «Da sposata si chiama Scates, ma sta per divorziare, e non so se riprenderà il cognome da signorina.»

«Cosa fa?» chiese Sandy.

Beve troppo, pensò Elizabeth, e si è fatta crescere i capelli, ed è troppo magra. «Lavora per un agente di cambio,» disse, e andò a prendere l’indirizzo che le aveva lasciato Tib. Sandy se lo appuntò, sfogliò alla sezione etichettata “Trovato” e riscrisse di nuovo nome e indirizzo.

«Vuole dell’altro caffè, signora Konkel?» chiese Elizabeth.

«Ancora non ti ricordi di me, eh?» disse Sandy.

Si alzò in piedi e si tolse la giacca. Sotto indossava una camicetta grigia ricamata con le maniche corte. «Ero la compagna di stanza di Karen Zamora. Ti dice niente Sondra Dickeson?»

Sondra Dickeson. Aveva portato i capelli biondi pettinati a paggetto, e un maglione di cashmere bianco-neve abbinato a una gonna bianca con una tasca nascosta sotto la piega, scarpe nere coi tacchi e una collana di perle vere.

Sandy rise. «Ti saresti dovuta vedere in faccia. Ti ricordi di me, no?»

«Mi dispiace. Era solo che… Avrei dovuto…»

«Senti, non c’è problema,» disse. Bevve un sorso di caffè. «Almeno non hai detto, “Come hai fatto a ridurti così?” come Geraldine Brubaker.» Diede un morso a un biscotto. «Be’, non mi chiedi che ne è stato di Sondra Dickeson? È una bella storia.»

«Cosa le è successo?» disse Elizabeth. Improvvisamente sentì ancora più freddo. Si versò un’altra tazza di caffè e sedette di nuovo, con le mani strette intorno alla tazza per scaldarsi.

Sandy finì di mangiare il biscotto e ne prese un altro. «Be’, se ti ricordi, ero una con la puzza al naso ai quei tempi. Stavo andando al ballo serale dei Sigma Chi con Chuck Pagano. Te lo ricordi? Insomma, in ogni caso stavamo andando a quel ballo da qualche parte in aperta campagna, e lui fermò l’auto e diventò tutto tocca e abbraccia, e io mi infuriai perché mi stava rovinando la messa in piega e il trucco e uscii dalla macchina. E lui se ne andò. Quindi io me ne stavo lì, in quel luogo assolutamente deserto, in abito da sera e tacchi alti. Non avevo nemmeno preso la borsetta, e si sta facendo buio, e Sondra Dickeson ha tanta puzza al naso che non le viene nemmeno in mente di tornare a piedi in città o cercare un telefono o qualcosa del genere. No, semplicemente se ne sta lì in piedi come un’idiota nel suo abito di broccato e il mazzolino di orchidee appuntato al petto e le scarpe scollate di raso tinto e pensa: “Non può farmi questo. Chi si crede di essere?”»

Parlava di se stessa come se fosse stata un’altra persona, cosa che Elizabeth immaginava fosse vera, una bionda glaciale pettinata a paggetto, con un abito da sera come quello che Elizabeth aveva prestato a Tib per il Ballo del Raccolto, un corpetto di raso color ruggine e una gonna a campana fatta di broccato lavorato dello stesso colore. Dopo il ballo Elizabeth lo aveva regalato all’Esercito della Salvezza.

«E Chuck tornò indietro?» chiese lei.

«Certo,» rispose Sandy, aggrottando la fronte, e poi sogghignò. «Ma non abbastanza presto. Comunque, è quasi scuro e arriva un camion con le luci spente, si affaccia un tipo e dice: “Ciao bellezza, serve un passaggio?”» Sorrise rivolta alla tazza di caffè come se lo sentisse ancora mentre lo diceva. «Era orribile. I capelli gli arrivavano fino alle orecchie e aveva le unghie nere. Si pulì la mano sulla maglietta e mi aiutò a salire sul camion. Quasi mi staccò il braccio dal resto del corpo, e poi disse: “Pensavo là che avrei fatto un giro un minuto da queste parti e poi me ne sarei andato. Sai, sei fortunata ad incontrarmi. Di solito non vado in giro la notte perché ho le luci rotte, ma avevo una gomma a terra.”»

È felice, pensò Elizabeth, tenendo una mano sopra alla tazza di caffè per scaldarsela.

«Mi riportò a casa e lo ringraziai, e la settimana dopo si fece vedere alla casa dei Phi e mi chiese un appuntamento, e io fui così sorpresa che ci andai, e lo sposai, e abbiamo quattro bambini.»

La caldaia ci dava dentro, ed Elizabeth riusciva a sentire l’aria che veniva fuori da sotto il tavolo, solo che era fredda. «Sei uscita con lui?» le chiese.

«Difficile da credere, eh? Cioè, a quella età riesci solo a pensare a te stessa. Ti preoccupi così tanto che gli altri non ridano di te o ti facciano del male, che non riesci proprio a vedere nessun altro. Quando la mia compagna dell’associazione femminile mi disse che lui era di sotto, riuscivo solo a pensare al suo aspetto, con i capelli lisciati all’indietro con l’acqua e le unghie che aveva dovuto pulire con un temperino, e alle chiacchiere della gente. Per poco non gli mandai a dire che non c’ero.»

«E se l’avessi fatto?»

«Immagino che sarei ancora Sondra Dickeson, quella con la puzza al naso, un destino peggiore della morte.»

«Un destino peggiore della morte,» ripeté Elizabeth, quasi rivolta a se stessa, ma Sandy non la udì. Era completamente immersa nel raccontare la storia che ripeteva tutte le volte che qualcuno si trasferiva in città, e non c’era da stupirsi che le piacesse fare la rappresentante degli ex allievi.

«La mia compagna di associazione mi disse: “Ci vuole davvero un intestino resistente per venire qui così, pensando che uscirai con lui,” e io pensai a lui, che stava seduto laggiù mentre gli altri lo deridevano e lo ferivano, per cui mandai all’inferno la mia compagna di stanza, scesi di sotto ed ecco come è andata.» Guardò l’orologio della cucina. «Buon Dio, è così tardi? Devo andare subito a prendere i bambini.» Scorse col dito lungo la lista dei dispersi senza speranza. «Sai niente di Dallas Tindall, May Matsumoto, Ralph DeArvill?»

«No,» rispose Elizabeth. «Sulla lista c’è Tupper Hofwalt?»

«Hofwalt.» Sfogliò diverse pagine. «Si chiamava proprio Tupper?»

«No, Phillip. Ma lo chiamavano tutti Tupper perché vendeva Tupperware.»

Alzò lo sguardo. «Me lo ricordo. Tenne una riunione Tupperware nel nostro dormitorio quando ero matricola.» Ritornò alla sezione Trovato e ricominciò a cercare da capo.

Aveva proposto a Elizabeth e Tib di organizzare una riunione Tupperware nel dormitorio. «Come co-padrone di casa sarete in grado di guadagnare punti per una macchinetta del popcorn.» aveva detto. «Non dovete fare nulla, solo portare un po’ di spuntini, le mamme vi mandano sempre biscotti, no? E sarò in debito di un favore con voi.»

Avevano tenuto la riunione nel salone del dormitorio. Tupper gli appuntava nomi di gente famosa sulla schiena, e dovevano indovinare chi erano facendo delle domande su se stessi.

Elizabeth era Twiggy. «Sono una ragazza?» chiese a Tib.

«Sì.»

«Sono carina?»

«Sì,» aveva risposto Tupper prima che lo facesse Tib.

Dopo che lo indovinò, se ne andò al tavolo dove Tupper stava preparando la sua esposizione di scatole di plastica e gli si inginocchiò vicino. «Pensi davvero che Twiggy sia carina?» gli chiese.

«Chi parlava di Twiggy?» disse. «Ascolta, volevo dirti…»

«Sono viva?» domandò Sharon Oberhausen.

«Non lo so,» disse Elizabeth. «Girati così vedo chi sei.»

Il cartellino sulla sua schiena diceva Mick Jagger.

«Difficile a dirsi,» rispose Tupper.

Tib era King Kong. Ci aveva messo un secolo a capirlo. «Sono alta?» chiese.

«In confronto a cosa?» aveva chiesto Elizabeth.

Appoggiò le mani sui fianchi. «Non so. L’Empire State Building.»

«Sì,» disse Tupper.

Non gli fu affatto facile farle smettere di chiacchierare per presentare loro il portaburro, il contenitore per torte e gli stampini per i ghiaccioli. Mentre riempivano i buoni d’ordine, Sharon Oberhausen disse a Tib: «Hai già un appuntamento per il Ballo del Raccolto?»

«Sì,» rispose Tib.

«Vorrei averne uno anch’io,» disse Sharon. Si allungò davanti a Tib. «Elizabeth, ti rendi conto che ognuno nel Corpo Addestramento Ufficiali in Riserva deve avere un appuntamento altrimenti ti mettono in servizio durante il fine settimana? Con chi ci vai, Tib?»

«Ascoltate, voi,» disse Tib, «più comprate e più probabilità abbiamo di vincere la macchinetta per il popcorn, che poi metteremo in comune.»

Avevano comprato una torta e un gelato con scaglie di cioccolato. Elizabeth tagliò la torta nel cucinino del dormitorio, mentre Tib la metteva nei piatti.

«Non mi hai detto che avevi un appuntamento per il Ballo del Raccolto,» disse Elizabeth. «Con chi? Quel ragazzo che viene a lezione di psicologia educativa con te?»

«No.» Infilò un cucchiaio di plastica nel gelato.

«E chi allora?»

Tupper entrò in cucina con un catalogo. «Siete solo a venti punti dalla macchinetta per il popcorn,» disse. «Sapete che vi serve, ragazze?» Girò un pagina e indicò una scatola di plastica bianca. «Un contenitore per gelato. Porta due chili di gelato, e quando ne volete dovete solo aprire questa linguetta,» — indicò un rettangolo di plastica piatta — «e tagliarne una fetta. Non sarete più costrette a scavarci intorno e sporcarvi tutte le mani.»

Tib si leccò il gelato dalle nocche delle dita. «Quella è la cosa più utile.»

«Vai fuori, Tupper,» disse Elizabeth. «Tib stava per dirmi chi è che la porta al Ballo del Raccolto.»

Tupper chiuse il catalogo. «Sono io.»

«Oh,» fece Elizabeth. Sharon ficcò la testa dietro l’angolo. «Tupper, quand’è che dobbiamo pagare questa roba?» disse. «E quand’è che cominciamo a mangiare?»

Tupper rispose: «Prima di mangiare devi pagare,» e ritornò nel salone.

Elizabeth passò il coltello di plastica sulla torta, tracciando delle lìnee perfettamente dritte sulla superficie gelata. Dopo averla divisa in pezzi quadrati, ne tagliò un pezzo dall’angolo e lo mise su un piattino di plastica vicino al gelato che si stava sciogliendo. «Hai niente da indossare?» disse. «Puoi prendere in prestito il mio abito da sera color ruggine.»

Sandy la guardava, con il quaderno per appunti aperto quasi all’ultima pagina. «Conoscevi Tupper molto bene?» chiese.

Il caffè di Elizabeth si era ghiacciato, ma lei ci teneva la mano sopra come se tentasse di assorbirne il calore. «Non particolarmente. Di solito usciva con Tib.»

«È sulla mia lista dei deceduti, Elizabeth. Si è suicidato cinque anni fa.»


Quando Paul tornò a casa erano le dieci passate. Elizabeth se ne stava seduta sul divano avvolta in una coperta.

Si diresse subito al termostato e lo abbassò. «Quanto hai tenuto alto quest’affare?» Gli diede un’occhiata di sbieco. «29 gradi. Be’, almeno non corri nessun pericolo di assideramento. Sei stata seduta là tutto il giorno?»

«Il verme è morto,» disse. «Dopo tutto non l’avevo salvato. Avrei dovuto metterlo sull’erba.»

«Ron Brubaker dice che si è liberato un posto di segretaria nell’ufficio del preside. Gli ho detto che avresti presentato domanda. L’hai fatto, no?»

«Sì,» rispose Elizabeth. Dopo che Sandy se n’era andata via, aveva tirato fuori il modulo dal borsellino e si era seduta al tavolo della cucina per compilarlo. Aveva quasi finito quando si era accorta che era un modulo per la trattenuta dei fondi pensione.

«È venuta Sandy Konkel oggi,» disse. «Ha conosciuto suo marito su una strada bianca. Entrambi si trovavano là per caso. Per caso. Non era nemmeno il suo solito itinerario. Come per il verme. Tib è semplicemente passata di lì, in modo assolutamente inconsapevole, ma il verme era troppo vicino al bordo, è caduto di sotto ed è affogato.» Cominciò a piangere. Le lacrime le scendevano fredde lungo le guance. «È affogato.»

«Che avete fatto con Sandy Konkel? Tirato fuori lo sherry da cucina e ripensato ai vecchi tempi?»

«Già,» disse. «I vecchi tempi.»


La mattina dopo Elizabeth riportò indietro il modulo per la trattenuta dei fondi pensione. Aveva piovuto tutta la notte in modo intermittente, e il tempo si era fatto più freddo. C’erano lastre di ghiaccio sul viale centrale.

«Avevo quasi finito di riempirlo quando mi sono resa conto di che cos’era,» disse alla ragazza. Quando Elizabeth era entrata, c’era un ragazzo con una casacca a bottoni e pantaloni color cachi che se ne stava appoggiato al bancone. La ragazza volgeva la schiena al bancone, impegnata a sistemare dei documenti.

«Non capisco cosa ci sia da prendersela così tanto.» aveva detto il ragazzo, dopodiché si era interrotto e aveva visto Elizabeth. «C’è una cliente,» aveva detto, e si era allontanato dal bancone.

«Sono tutti uguali questi stupidi moduli,» disse la ragazza, consegnando la richiesta a Elizabeth. Raccolse un mucchio di libri. «Ho lezione. Serve nient’altro?»

Elizabeth fece di no con la testa e lasciò passare il ragazzo che non aveva ancora finito di parlare, ma la ragazza non lo degnò nemmeno di uno sguardo. Infilò i libri nello zaino, se lo mise in spalla e attraversò la porta.

«Ehi, aspetta un attimo.» disse il ragazzo, e le andò dietro. Quando Elizabeth fu uscita, avevano già percorso metà del viale. Elizabeth udì il ragazzo che diceva: «Va bene, sono uscito con lei un paio di volte. È forse un delitto?»

La ragazza diede uno strattone allo zaino per liberarsi della sua presa e puntò verso il vecchio dormitorio di Elizabeth. Lì davanti c’era una ragazza con l’impermeabile giallo che parlava con un’altra ragazza dai capelli corti e biondi pettinati all’indietro. La ragazza con l’impermeabile si voltò all’improvviso e si incamminò verso il viale.

Un ragazzo passò accanto a Elizabeth in bici, urtandole un gomito e facendole cadere di mano il modulo di richiesta. Tentò di afferrarlo e vi riuscì prima che cadesse per terra.

«Scusi,» le disse senza nemmeno voltarsi. Aveva indosso una giacca jeans. Le maniche erano troppo corte, e i polsi ossuti sporgevano all’infuori. Guidava la bicicletta con una mano e teneva con l’altra una grande busta di plastica piena di scatole verdi e rosa. Era con quello che l’aveva colpita.

«Tupper,» disse, e fece per corrergli dietro.

Era in terra sul ghiaccio prima ancora di capire che sarebbe caduta, con le mani allargate sul marciapiede e un piede che si era piegato sotto il suo peso. «Tutto bene, signora?» chiese il ragazzo con la casacca a bottoni. Si inginocchiò davanti a lei coprendole la vista sul resto del viale.

Anche Tupper mi avrebbe chiamata “signora”, pensò. Non mi riconoscerebbe nemmeno.

«Dovrebbe stare attenta a correre sul marciapiede. È più scivoloso della cacca.»

«Mi sembrava di aver visto qualcuno che conoscevo.»

Si girò, mantenendo l’equilibrio con il palmo di una mano, e lanciò uno sguardo al viale. In quel momento era deserto. «Com’era questa persona? Forse riesco ancora a raggiungerla.»

«No,» disse Elizabeth. «Se ne è andato da parecchio.»

La ragazza si avvicinò. «Devo chiamare l’ambulanza o qualcosa del genere?» domandò.

«Non so,» le rispose, poi si voltò verso Elizabeth. «Ce la fa a stare in piedi?» chiese lui, e le mise la mano sotto il braccio per aiutarla. Lei provò a raddrizzare il piede che era ancora storto, ma non ci riuscì. Lui fece un altro tentativo, da dietro, e le mise entrambe le mani sotto le braccia, la sollevò, dopodiché la tenne in piedi a forza e le girò intorno in modo da poterla sostenere dal lato in cui si era fatta male. Lei gli si appoggiò contro senza vergogna, tutta tremante.

«Se ce la fai a portare i miei libri e anche la borsa della signora, penso di poterla accompagnare in infermeria,» disse. «Crede che ce la farà a percorrere tutta questa strada?»

«Sì,» rispose Elizabeth, e gli mise il braccio intorno al collo. La ragazza raccolse la borsetta della signora e il suo modulo di richiesta per il lavoro.

«Andavo a scuola qui. Il viale centrale era riscaldato a quel tempo.» Non riusciva ad appoggiarsi nemmeno un po’ sul piede. «È rimasto tutto uguale. Anche gli studenti. Le ragazze portano gonne e maglioni proprio come facevamo noi e anche quelle scarpette col tacco basso che non ti si infilano mai ai piedi, e i ragazzi indossano casacche a bottoni e giacche jeans, e assomigliano proprio a quelli che conoscevo io quando andavo a scuola, e non è giusto. Mi pare sempre di vedere gente che conoscevo.»

«Lo immagino.» disse il ragazzo educatamente. Si spostò, sollevandola in modo che il braccio di lei si appoggiasse più saldamente sulla spalla.

«Forse potrei farle avere una sedia a rotelle. Penso proprio che me ne presteranno una,» disse la ragazza, con voce ansiosa.

«Lo sai che non possono essere loro, ma sembra proprio che lo siano, solo che non li rivedrai mai più, mai. E non saprai nemmeno che ne è stato di loro.» Aveva pensato che sarebbe diventata isterica, e invece la sua voce si fece sempre più tenue finché le parole sembrarono scomparire nel nulla. Non era nemmeno sicura di averle effettivamente pronunciate ad alta voce.

Il ragazzo l’aiutò a salire le scale fino all’infermeria.

«Non si dovrebbe lasciarli andare via,» disse.

«Già.» rispose il ragazzo, e l’aiutò a sdraiarsi sul divano. «Credo proprio che non dovremmo farlo.»

«È scivolata sul ghiaccio nel viale centrale,» spiegò la ragazza alla segretaria. «Mi sa che si è rotta una caviglia. Le fa molto male.» Andò da Elizabeth.

«Rimango io con lei,» disse il ragazzo. «So che hai lezione.»

Lei guardò l’orologio. «Sì. Psicologia educativa. È sicura che non le servirà altro?» chiese a Elizabeth.

«Va bene così. Grazie molte per l’aiuto, a tutti e due.»

«E come farà a tornare a casa?» domandò il ragazzo.

«Chiamo mio marito e mi faccio venire a prendere. Davvero, non è necessario che rimaniate. Sto bene. Davvero.»

«Va bene,» disse lui. Si alzò in piedi. «Dài,» disse alla ragazza. «Ti accompagno a lezione e spiego al vecchio Harrigan che hai fatto l’angelo della misericordia.» Le prese il braccio e lei gli sorrise.

Se ne andarono, e la segretaria consegnò a Elizabeth un portablocco con dei moduli sopra. «Stavano litigando,» disse Elizabeth.

«Be’, qualunque cosa fosse, direi che adesso è finita.»

«Sì,» disse Elizabeth. Grazie a me. Perché sono scivolata sul ghiaccio.

«Una volta vivevo in questo dormitorio,» affermò Elizabeth. «Questo era il salone.»

«Oh,» fece la segretaria. «Scommetto che è cambiato moltissimo da allora.»

«No,» ribatté Elizabeth. «È sempre quello.»

Nel punto in cui trovava il bancone della segretaria c’era stato un tavolo con un telefono sopra, dove gli studenti si registravano entrando e uscendo dal dormitorio, e lungo il muro dalla parte opposta c’era stato il divano dove lei e Tib si erano sedute alla riunione Tupperware. Tupper ci si era già seduto sopra con lo smoking indosso quando lei scese giù per andare in biblioteca.

La segretaria la guardava. «Immagino che faccia male,» disse.

«Sì,» replicò Elizabeth.

Aveva previsto di trovarsi già in biblioteca prima dell’arrivo di Tupper, ma lui era in anticipo di mezz’ora. Si alzò quando la vide sulle scale e disse: «Ho provato a telefonarti oggi pomeriggio. Mi chiedevo se volevi andare a studiare in biblioteca, domani.» Aveva portato un corpetto dentro una scatola bianca per Tib. Si avvicinò e rimase in fondo alle scale con la scatola sulle mani.

«Stasera vado a studiare in biblioteca,» disse Elizabeth, e scese le scale passandogli accanto, temendo che la potesse trattenere, ma lui aveva entrambe le mani occupate dalla scatola con il corpetto. «Credo che Tib non sia ancora pronta.»

«Lo so. Sono venuto prima perché dovevo parlarti.»

«Dovresti chiamarla e farle sapere che sei qui,» disse, e imboccò la porta. Non si era nemmeno registrata all’uscita, cosa che l’avrebbe messa nei guai con la responsabile del dormitorio. Scoprì più avanti che Tib lo aveva fatto al posto suo.

La segretaria si alzò in piedi. «Vado a vedere se il dottor Larenson può riceverla subito,» disse. «È evidente che le fa molto male.»

Si era slogata la caviglia. Il dottore gliela fasciò accuratamente. Nel bel mezzo delle operazioni, suonò il telefono, e la lasciò a sedere con il piede sollevato sul lettino dell’infermeria mentre prendeva la telefonata.

Il giorno dopo il ballo Tupper le aveva telefonato. «Digli che non ci sono,» aveva detto Elizabeth a Tib.

«Glielo dici tu,» aveva replicato Tib, mollandole il telefono, e lei aveva preso la cornetta e aveva detto: «Non voglio parlarti, ma Tib è qui. Di sicuro lei vorrà farlo,» e aveva restituito il telefono a Tib, lasciando poi la stanza. Aveva percorso metà del campus quando Tib la raggiunse.

Si era fatto freddo la sera, e c’era un vento pungente che trasportava le foglie morte in mezzo all’erba. Tib aveva portato la giacca a Elizabeth.

«Grazie,» disse Elizabeth, e se la infilò.

«Almeno non sei del tutto stupida,» disse Tib. «Quasi, però.»

Elizabeth affondò le mani nelle tasche della giacca. «Che doveva dirti Tupper? Ti ha chiesto di uscire un’altra volta? Per andare a una delle sue riunioni Tupperware?»

«Non mi ha chiesto di uscire. Gli ho chiesto io di portarmi al Ballo del Raccolto perché mi serviva un appuntamento. Ti mettono in servizio al fine settimana se non ne hai uno, dunque l’ho chiesto a lui. E dopo averlo fatto, avevo paura che non avresti capito.»

«Capire cosa?» disse Elizabeth. «Puoi uscire con chi ti pare.»

«Non voglio uscire con Tupper, e lo sai. Se non la smetti, dovrò trovarmi un’altra compagna di stanza.»

E aveva risposto, senza avere idea di quanto importanti siano le piccole cose come quella, di quanto riattaccare il telefono o avere una gomma bucata o dire una frase possa far volare spruzzi in tutte le direzioni e trascinarti al di là del bordo, aveva risposto: «Forse ti converrebbe farlo.»

Avevano vissuto per due settimane senza parlarsi. La compagna di stanza di Sharon Oberhausen non era tornata dopo il Giorno del Ringraziamento, e Tib si trasferì nella sua stanza fino alla fine del trimestre. Poco dopo Elizabeth aderì agli Alpha Phi e si trasferì nella palazzo dell’associazione femminile.

Tornò il dottore e finì di fasciarle la caviglia. «Lo rimedia un passaggio per casa? Le do un paio di stampelle. In queste condizioni vorrei che non camminasse più del minimo indispensabile.»

«No, chiamo mio marito.» Il dottore l’aiutò a scendere dal lettino e ad appoggiarsi alle stampelle. Uscì nella sala d’attesa e spinse dei bottoni sul telefono per permetterle di telefonare all’esterno.

Compose il numero di casa e disse alla suoneria del telefono di venire a prenderla. «Arriva fra pochissimo,» informò poi la segretaria. «Lo aspetto fuori.»

La segretaria l’aiutò a scendere le scale. Poi tornò dentro, ed Elizabeth uscì sul marciapiede e rimase lì in piedi, guardando la finestra centrale.

Dopo che Tupper ebbe portato Tib al ballo degli Angel Flight, era venuto a tirare oggetti alla sua finestra. Li vedeva tutte le mattine quando andava a lezione, apribarattoli di plastica, tagliaananas e reggispazzoloni da cucina sparsi sul prato e sul marciapiede. Non aveva mai aperto la finestra, e dopo un po’ lui aveva smesso di venire.

Elizabeth guardò l’erba. Inizialmente non riusciva a trovare il verme. Frugò nell’erba con la punta della stampella, appoggiandosi solo sul piede buono. Stava lì, dove l’aveva messo, ormai rinsecchito e di un rosso più scuro, quasi nero. Era ricoperto di cristalli di ghiaccio.

Elizabeth osservò la segretaria attraverso la finestra. Quando quella si alzò per archiviare la sua scheda, Elizabeth attraversò la strada e si incamminò verso casa.


Tornando a casa a piedi, la caviglia di Elizabeth si era orribilmente gonfiata, tanto che quando Paul rientrò, lei quasi non riusciva più a muoverla.

«Che ti è successo?» le disse furioso. «Perché non mi hai chiamato?» Guardò l’orologio. «Ora è troppo tardi per avvertire Brubaker. Andava fuori a cena con la moglie. Suppongo che non ti senta di andare al concerto.»

«No,» disse Elizabeth. «Ci vengo.»

Abbassò il termostato senza nemmeno guardarlo. «E in ogni caso che diavolo hai combinato?»

«Pensavo di aver visto un ragazzo che conoscevo. Ho provato a raggiungerlo di corsa.»

«Un ragazzo che conoscevi?» chiese Paul incredulo. «Al college? Che ci fa qui? Aspetta ancora di laurearsi?»

«Non so,» disse Elizabeth. Si chiedeva se Sandy si fosse mai vista sul campus, vestita col maglione bianco neve e le perle addosso, in piedi davanti al palazzo dell’associazione studentesca mentre parlava con Chuck Pagano. Lei non è là, pensò Elizabeth. Sandy non aveva detto: “Digli che non ci sono.” Non aveva detto: “Forse ti converrebbe farlo,” e grazie a quello e a una gomma a terra, Sondra Dickeson non è intrappolata nel campus, in attesa che qualcuno la venga a salvare. Come invece sono loro.

«Non ti rendi nemmeno conto di quanto ci verrà a costare questa sciocchezza, vero?» disse Paul. «Brubaker mi ha detto oggi pomeriggio che ti avrebbe fatto avere il lavoro nell’ufficio di presidenza.»

Tolse la fasciatura e le guardò la caviglia. Il bendaggio si era tutto bagnato sulla via del ritorno. Lui gliene cercò un altro. Tornò indietro con il modulo raggrinzito per la richiesta di lavoro. «L’ho trovato nel cassetto della scrivania. Mi hai detto che avevi consegnato la richiesta.»

«È caduta nella fogna,» disse lei.

«Perché non l’hai buttata via?»

«Pensavo che sarebbe potuta servire,» rispose, poi gli si avvicinò zoppicando sulle stampelle e gliela tolse di mano.


Arrivarono in ritardo al concerto a causa della sua caviglia, per cui non riuscirono a sedere vicino ai Brubaker, che incontrarono alla fine dello spettacolo. Il dottor Brubaker presentò la moglie.

«Mi dispiace tanto,» disse Geraldine Brubaker. «Sono anni che Ron dice di far sistemare il viale centrale. Una volta era riscaldato.» Era la donna che Sandy aveva indicato alla riunione Tupperware e che aveva descritto come Geraldine che ama Gesù. Indossava una giacca rosso scuro e aveva una messa in piega rigonfia come quelle delle ragazze ai tempi in cui Elizabeth andava al college. «Siete stati tanto gentili a invitarci, ma ovviamente comprendiamo che con questa caviglia…»

«No,» la interruppe Elizabeth. «Avremmo piacere che veniste. Sto benone, davvero. È solo una piccola slogatura.»

I Brubaker dovevano parlare con qualcuno dietro le quinte. Paul spiegò loro come arrivare a casa sua e portò fuori Elizabeth. Dato che erano arrivati tardi, non avevano trovato posto per la macchina. Paul aveva dovuto posteggiare vicino all’infermeria. Elizabeth disse che ce la faceva a camminare fino all’auto, ma ci misero quindici minuti per percorrere tre quarti del viale.

«È ridicolo,» disse Paul rabbioso, e accelerò il passo per andare a prendere l’automobile.

Lei arrancò lentamente fino alla fine della strada e si sedette su una delle panchine di cemento che erano state le aperture dell’impianto di riscaldamento. Si era messa un vestito di lana e la giacca più pesante che aveva, ma sentiva ancora freddo. Appoggiò le stampelle contro la panchina e guardò il suo vecchio dormitorio.

C’era qualcuno in piedi lì davanti, che osservava la finestra centrale. Sembrava che avesse freddo. Aveva infilato le mani nelle tasche della giacca jeans, e dopo qualche minuto tirò fuori qualcosa e la lanciò verso la finestra.

È inutile, pensò Elizabeth, lei non verrà.

Aveva fatto un ultimo tentativo per parlarle. Era il trimestre di primavera. Aveva piovuto di nuovo. Il viale era coperto di vermi. Tib indossava l’uniforme degli Angel Flight, e sembrava che avesse freddo.

Tib aveva fermato Elizabeth appena fuori dal dormitorio e le aveva detto: «Ho visto Tupper l’altro giorno. Mi ha chiesto di te, e gli ho detto che stavi alla casa degli Alpha Phi.»

«Oh,» aveva fatto Elizabeth, e aveva provato ad andarsene, ma Tib l’aveva trattenuta, continuando a parlarle come se niente fosse successo, come se fossero ancora compagne di stanza. «Esco con questo tipo del CAUR. Jim Scates. È fantastico!» aveva detto, come se fossero ancora amiche.

«Sono in ritardo per la lezione,» disse. Tib lanciò nervosa uno sguardo giù per il viale, e anche Elizabeth lo fece, e vide Tupper che si stava avvicinando sulla bicicletta. «Grazie tante,» disse con rabbia.

«Vuole solo parlarti.»

«Di cosa? Di come ti porterà al ballo serale degli Alpha Sig?» aveva detto, voltando poi le spalle ed entrando nel dormitorio prima che lui potesse raggiungerla. Le aveva telefonato per quasi un’ora, ma lei non aveva risposto, e dopo un po’ aveva lasciato perdere.

Tuttavia non si era dato per vinto. Era ancora là, sotto la sua finestra, che le tirava tagliaananas e separauova, e lei, dopo tutti questi anni, ancora non si affacciava. Lui sarebbe rimasto là per sempre, e lei non sarebbe mai, mai venuta.

Si alzò in piedi. La punta di gomma di una delle stampelle scivolò sul ghiaccio sotto la panchina, e per poco non cadde. Ritrovò l’equilibrio appoggiandosi sul duro cemento.

Paul strombazzò col clacson e accostò al marciapiede, con i lampeggianti accesi. Uscì dall’auto. «Per l’amor di Dio, i Brubaker saranno già arrivati,» disse. Le prese le stampelle e la trascinò in tutta fretta verso la macchina, sostenendola sotto un’ascella con la mano.

Quando ripartirono, il ragazzo stava ancora là, con lo sguardo alla finestra, in attesa.


I Brubaker erano già arrivati, e aspettavano nel vialetto. Paul la lasciò in auto per andare ad aprire la porta di casa. Il dottor Brubaker le aprì lo sportello e provò ad aiutarla a mettersi sulle stampelle. Geraldine continuava a dire: «Oh, veramente, avremmo capito.» Rimasero entrambi da una parte con l’aria disorientata, mentre Elizabeth entrava in casa zoppicando.

Geraldine si offrì di preparare il caffè, ed Elizabeth la lasciò fare, seduta al tavolo della cucina con ancora la giacca addosso. Paul aveva preparato tazzine, piatti e il vassoio di biscotti prima di uscire di casa.

«Lei era alla riunione Tupperware, no?» disse Geraldine, aprendo la credenza per cercare i filtri del caffè. «Non ho avuto proprio la possibilità di conoscerla. Ho visto che Sandy Konkel le aveva messo le grinfie addosso.»

«Alla riunione ha detto che le piace Gesù.» disse Elizabeth. «È cristiana?»

Geraldine aveva cominciato ad aprire un filtro del caffè. Si interruppe e fissò Elizabeth negli occhi. «Certo,» rispose. «Lo sono. Vede, Sandy Konkel mi ha detto che una riunione Tuppervvare non era luogo per la religione, e io le ho ribattuto che qualunque posto può essere l’occasione per una testimonianza cristiana. E avevo ragione, perché quella testimonianza le ha parlato, no, Elizabeth?»

«Che succede se si è fatto qualcosa, tanto tempo fa, e si scopre poi che si è rovinato tutto?»

«“Perché riconoscendo il tuo peccato ti sarà possibile liberartene,”» declamò Geraldine, con la caffettiera sotto il rubinetto.

«Non parlo di peccato,» disse Elizabeth. «Parlo delle piccole cose che si pensa non siano troppo importanti, come mettere un piede in una pozzanghera o litigare con qualcuno. Che succede se si parte e si lascia qualcuno in piedi sulla strada perché ci aveva fatto arrabbiare e questo gli cambia per sempre la vita, lo trasforma in un’altra persona? O se si volta le spalle a qualcuno e ci si allontana da lui perché si è feriti nell’animo oppure non si vuole aprire la finestra, e grazie a quest’unica piccola cosa tutte le loro vite sono cambiate e ora lei beve troppo, lui si è suicidato e non ci si rende nemmeno conto di averlo fatto.»

Geraldine aveva aperto la borsetta e ne stava tirando fuori una Bibbia. Si fermò con la Bibbia ancora dentro per metà, con lo sguardo fisso su Elizabeth. «Ha fatto suicidare qualcuno?»

«No,» disse Elizabeth. «Non l’ho fatto suicidare e non l’ho fatta divorziare, ma se quel giorno non mi fossi voltata e allontanata da loro, tutto sarebbe stato diverso.»

«Divorziare?» chiese Geraldine.

«Sandy aveva ragione. Quando si è giovani si pensa solo a se stessi. Io riuscivo solo a pensare a quanto lei fosse più carina di me e quanto fosse il tipo di ragazza che aveva decine di appuntamenti, e quando lui la invitò a uscire, pensavo che in realtà gli fosse sempre piaciuta, e ci soffrivo moltissimo. Buttai via il separauova, e stavo tanto male, ed ecco perché non gli ho voluto parlare quel giorno, ma non sapevo quanto fosse importante! Non sapevo che c’era una pozzanghera là che mi avrebbe trascinato giù nella fogna.»

Geraldine appoggiò la Bibbia sul tavolo. «Non so cosa lei abbia fatto, Elizabeth, ma qualunque cosa sia, Nostro Signore la perdonerà. Vorrei leggerle qualcosa.» Aprì la Bibbia al punto in cui c’era un segnalibro a forma di croce. «“Perché Dio amava così tanto il mondo che rinunciò al suo unico Figlio cosicché chiunque creda in Lui non perirà, ma avrà la vita eterna”. Gesù, l’unico figlio di Dio, è morto sulla croce e resuscitato perché ci fossero perdonati i nostri peccati.»

«E se non fosse resuscitato?» disse Elizabeth spazientita. «E se fosse rimasto lì nella tomba sempre più fredda, fino a ricoprirsi di cristalli di ghiaccio, senza mai sapere se li aveva salvati oppure no?»

«È pronto il caffè?» chiese Paul, entrando in cucina col dottor Brubaker. «O voi donne vi siete messe a chiacchierare e ve ne siete scordate del tutto?»

«E se avessero aspettato che Gesù li salvasse, e avessero aspettato per tutti quegli anni senza che lui lo sapesse? Avrebbe dovuto tentare di salvarli, no? O poteva semplicemente lasciarli là, in piedi e al freddo con lo sguardo verso la sua finestra? E forse non ce l’avrebbe fatta. Forse avrebbero divorziato e si sarebbero suicidati in ogni caso.» Cominciò a battere i denti. «E anche se li avesse salvati, non sarebbe riuscito a salvare se stesso. Perché era troppo tardi. Era già morto.»

Paul girò intorno al tavolo verso di lei. Geraldine stava sfogliando la Bibbia, alla frenetica ricerca del versetto adatto alla situazione. Paul prese il braccio di Elizabeth, ma lei si divincolò, insofferente. «In Matteo vediamo che fu resuscitato dai morti e oggi è vivo. Proprio adesso,» disse Geraldine, con la voce spaventata. «E qualunque sia il peccato che lei serba nel cuore, Lui la perdonerà se lo accetta come suo personale Salvatore.»

Elizabeth sbatté un pugno sul tavolo con tanta forza che il vassoio dei biscotti tremò. «Non parlo di peccato. Parlo di aprire una finestra. Lei ha messo un piede nella pozzanghera e il verme è stato trascinato giù nella fogna ed è affogato. Non avrei dovuto lasciarlo sul marciapiede.» Diede un altro pugno al tavolo. Il dottor Brubaker prese la pila di tazzine da caffè e le poggiò sul ripiano, come se temesse che lei avrebbe potuto cominciare a scagliarle contro il muro. «Avrei dovuto metterlo nell’erba.»


Paul se ne andò al lavoro senza nemmeno fare colazione. La caviglia di Elizabeth si era gonfiata così tanto che quasi non riusciva a infilarsi le pantofole, ma si alzò lo stesso e preparò il caffè. I filtri erano ancora sul ripiano dove li aveva lasciati Geraldine Brubaker.

«Non ti bastava aver perso l’occasione di trovare lavoro, dovevi mettere nei guai anche me?»

«Mi dispiace per ieri sera,» disse. «Riempio oggi il modulo di richiesta per il lavoro e lo porto al campus. Quando la caviglia guarirà…»

«Dovrebbe essere caldo oggi,» disse Paul. «Ho spento la caldaia.»

Quando se ne fu andato, compilò la richiesta. Tentò di cancellare la macchia scura lasciata dal verme, ma non veniva via, e c’era un quesito che non riusciva a leggere. Le dita le si erano irrigidite per il freddo, e dovette fermarsi parecchie volte per alitarci sopra, riempiendo comunque tutte le domande che poté, poi piegò il foglio e lo portò al campus.

La ragazza con l’impermeabile giallo se ne stava alla fine del viale, e parlava con una ragazza che indossava l’uniforme degli Angel Flight. Zoppicò nella loro direzione a testa bassa, affrettando il passo, con il suono della bicicletta di Tupper nelle orecchie.

«Mi ha chiesto di te,» disse Tib, ed Elizabeth alzò gli occhi.

Non era affatto simile a come se la ricordava. Era leggermente sovrappeso e non tanto carina, il tipo di ragazza che non sarebbe riuscita a farsi invitare al ballo. I capelli corti facevano sembrare ancora più cicciottella la faccia rotonda. Sembrava speranzosa e un po’ preoccupata.

Non ti preoccupare, pensò Elizabeth. Sono qui. Non guardò se stessa. Si concentrò nel tentativo di raggiungerli al momento giusto.

«Gli ho detto che stavi alla casa degli Alpha Phi.» disse Tib.

«Oh,» sentì la sua stessa voce, e sotto di essa il ronzio di una bicicletta.

«Esco con questo tipo del CAUR. È assolutamente fantastico!»

Ci fu una pausa, poi la voce di Elizabeth disse: «Grazie tante,» ed Elizabeth si appoggiò con la punta di gomma della stampella contro una lastra di ghiaccio e cadde in terra.

Per un minuto fu accecata dal dolore. Si è rotta, pensò, e strinse i pugni per trattenere le urla.

«Tutto bene?» chiese Tib, inginocchiandosi davanti a lei e coprendole del tutto la vista. No, non tu! Non tu! Per un minuto ebbe paura che non avesse funzionato, che la ragazza si fosse voltata e se ne fosse andata. Ma d’altra parte, quella non era una sconosciuta ma solo se stessa, troppo buona per lasciare affogare un verme. Aveva solo girato dietro ad Elizabeth, da dove non la poteva vedere. «Se l’è rotta?» disse. «Non so, devo chiamare un ambulanza?»

No. «No,» disse Elizabeth. «Va tutto bene. Dovreste solo aiutarmi a rimettermi in piedi.»

La ragazza che era stata Elizabeth Wilson poggiò i libri sulla panchina di cemento, si avvicinò e si inginocchiò vicino ad Elizabeth. «Spero che non crolliamo l’una sull’altra,» disse, e le sorrise. Era carina. Non lo sapevo nemmeno io, pensò Elizabeth, nemmeno quando me lo disse Tupper. Le afferrò un braccio mentre Tib la sostenne dall’altra parte.

«Vedo che avete fatto inciampare di nuovo dei passanti innocenti. Quante volte vi ho detto di non farlo?» Finalmente ecco Tupper. Aveva appoggiato la bici nell’erba e aveva lasciato la busta di Tupperware lì vicino.

Tib e la ragazza che era stata lei stessa la lasciarono e si fecero da parte, e lui le si inginocchiò vicino. «Non sono cattive, davvero. Sono solo un po’ mattacchione. Ma con le bucce di banana siete andate troppo in là, ragazze,» disse, tanto vicino a lei che poteva sentirne l’alito sulla guancia. Si girò per guardarlo, temendo all’improvviso che anche lui potesse essere diverso, ma era solo Tupper, che aveva amato per tutti quegli anni. La cinse con un braccio. «Adesso deve solo mettermi il braccio intorno al collo, tesoro. Ecco, così. Elizabeth, vieni qui e fai ammenda dei tuoi peccati aiutando questa bella signora ad alzarsi.»

Lei aveva già raccolto i libri e se li teneva stretti al petto, con l’aria di chi è arrabbiato e non vede l’ora di andarsene. Guardò Tib, ma Tib stava raccogliendo le stampelle, con la schiena curva sui tacchi alti perché la gonna stretta degli Angel Flight le impediva di piegarsi.

Rimise di nuovo i libri in terra e si spostò dall’altro lato di Elizabeth per sostenerle il braccio, e invece Elizabeth le afferrò la mano e la strinse forte in modo che non se ne andasse. «L’ho portata al ballo perché mi aveva aiutato con la riunione Tupperware. Le ho detto che le dovevo un favore,» spiegò lui, ed Elizabeth si voltò a guardarlo.

Ma lui in effetti non la stava guardando. Guardava oltre, in direzione dell’altra Elizabeth, quella che non rispondeva al telefono, non andava alla finestra, ma sembrava che guardasse proprio lei, e su quel viso giovane ancora vivo nel suo ricordo c’era l’espressione di un amore così nudo e vulnerabile che la colpì con la violenza di un pugno.

«Te l’avevo detto,» disse Tib. Appoggiò le stampelle contro la panchina.

«Sono sicura che alla signora non interessano certe faccende,» disse Elizabeth.

«Te l’avrei spiegato alla festa, ma quell’idiota di Sharon Oberhausen…»

Tib le portò le stampelle. «Dopo averglielo chiesto, mi sono domandata: “E se pensasse che sto provando a portarle via il ragazzo?” e mi sono preoccupata così tanto che avevo paura di dirtelo. Davvero, gli ho chiesto di portarmici solo per non essere di servizio durante il fine settimana. Cioè, non è che lui mi piaccia o cose del genere.»

Tupper fece un sorrisetto a Elizabeth. «Provo a pagare i miei debiti, e questo è il modo in cui vengo ringraziato. Lei non si arrabbierebbe con me se portassi la sua compagna di stanza a un ballo, no?»

«Forse sì,» rispose Elizabeth. Sentiva freddo, seduta lì sul cemento. Stava cominciando a tremare. «Ma ti perdonerei.»

«Vedi?» disse.

«Capisco,» disse Elizabeth disgustata, ma gli stava sorridendo. «Non credi che dovremmo togliere questa passante innocente dal marciapiede prima che muoia assiderata?»

«Op-là, tesoro,» fece Tupper, e con un agile movimento la alzò e la mise a sedere sulla panchina di pietra.

«Grazie,» disse lei. Batteva i denti dal freddo.

Tupper le si inginocchiò davanti ed esaminò la caviglia.

«Mi sembra bella gonfia,» disse. «Vuole che chiamiamo qualcuno?»

«No, passerà mio marito a minuti. Rimango a sedere qui finché non arriva.»

Tib raccolse la richiesta di Elizabeth dalla pozzanghera. «Mi sa che si è rovinata,» disse.

«Non fa niente.»

Tupper prese la busta con le scatole. «Senta un po’,» le chiese, «non è che le interessa una riunione Tupperware? Come padrona di casa potrebbe guadagnare punti preziosi per…»

«Tupper!» esclamò Tib.

«Vuoi lasciare in pace questa povera signora?» disse Elizabeth.

Tirò su la busta. «Solo se vieni con me a consegnare gli scomparti per l’insalata al palazzo dei Sigma Chi.»

«Io vengo,» disse Tib. «C’è un tesoro dei Sigma Chi che voglio conoscere.»

«E vengo anch’io,» disse Elizabeth, mettendo un braccio intorno a Tib. «Non mi fido dei ragazzi che ti trovi da sola. Jim Scates è davvero un bastardo. Sharon non ti ha detto quello che ha fatto a Marilyn Reed?»

Tupper lasciò la busta con le scatole a Elizabeth mentre tirava su la bicicletta. Elizabeth la passò a Tib.

«È sicura di star bene?» le chiese Tupper. «È freddo qua fuori. Potrebbe aspettare suo marito nella sede dell’associazione studentesca.»

Avrebbe tanto voluto mettergli la mano sulla guancia per una sola volta. «Sto bene così,» disse.

I tre scesero per il viale in direzione di Frasier, con Tupper che portava a mano la bici. Quando si trovarono al livello della Carter Hall, tagliarono attraverso il prato verso Frasier. Li guardò finché non scomparvero dalla vista, poi rimase a sedere un altro po’ sulla panchina. Aveva sperato che potesse succedere qualcosa, qualcosa che indicasse che li aveva salvati, ma non successe nulla. La caviglia non le faceva più male. Aveva smesso di dolerle nel momento in cui Tupper l’aveva toccata.

Restò seduta ancora un po’. Le sembrava che si stesse facendo più freddo, benché avesse smesso di tremare, e dopo un po’ si alzò in piedi e se ne andò a casa, lasciando le grucce dov’erano.


Era freddo in casa. Elizabeth accese il termostato e si mise a sedere al tavolo in cucina, ancora con la giacca addosso, aspettando che la temperatura s’alzasse. Quando non lo fece, le venne in mente che Paul aveva spento la caldaia, e andò a prendere una coperta nella quale si avvolse dopo essersi seduta sul divano. La caviglia non le faceva affatto male, ma era fredda al tatto. Quando suonò il telefono, non riuscì quasi a muoverla. Le ci vollero parecchi squilli prima di raggiungerlo.

«Pensavo che non avresti risposto,» le disse Paul. «Ti ho preso un appuntamento con un certo dottor Jamieson oggi pomeriggio alle tre. È uno psichiatra.»

«Paul,» disse. Sentiva così freddo che parlava a fatica. «Mi dispiace.»

«È un po’ tardi per le scuse, no?» disse lui. «Ho raccontato al dottor Brubaker che eri sotto l’effetto di antidolorifici. Non so se se l’è bevuta.» Riattaccò.

«Troppo tardi,» disse Elizabeth. Mise giù la cornetta. Il dorso della mano le si era ricoperto di cristalli di ghiaccio. «Paul,» cercò di dire, ma le labbra le si erano irrigidite per il freddo, e non ne venne fuori alcun suono.

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