Robert Bloch Diretto per l’inferno

Martin era un bambino, quando suo padre lavorava alle ferrovie. Non guidò mai le locomotive: faceva lo scambista per la CB&Q ed era orgoglioso del suo mestiere. E ogni sera, quando si ubriacava, cantava la vecchia canzone del Diretto per l’Inferno.

Martin non si ricordava le parole, ma non poteva dimenticare il modo in cui suo padre la cantava e quando il vecchio fece lo sbaglio di sbronzarsi di pomeriggio e finì strizzato tra un carro cisterna della Pennsy e un merci dell’AT&SF, Martin in un certo senso si meravigliò che i suoi compagni di lavoro non cantassero quella canzone al funerale.

Dopo, le cose non filarono tanto lisce per Martin, ma per una ragione o per l’altra gli tornava sempre in mente la canzone. Quando sua madre se ne andò via con un commesso viaggiatore di Keokuk (e suo padre si dovette rivoltare nella tomba, a sapere che aveva fatto una cosa del genere; e poi con un passeggero!), Martin canticchiava tra sé il motivo ogni notte, all’orfanotrofio. E dopo che se ne scappò via, continuò a fischiettare piano la canzone negli accampamenti dei vagabondi, quando gli altri balordi dormivano.

Per quattro, cinque anni, Martin se ne andò in giro, e poi si accorse che non stava andando da nessuna parte. Quindi cercò di darsi da fare con un mucchio di cose: raccoglier frutta nell’Oregon, lavare i piatti in una trattoria del Montana, rubare coprimozzi d’auto a Denver e copertoni a Oklahoma City: ma durante i sei mesi che passò ai lavori forzati nell’Alabama si accorse che se andava avanti così non aveva scampo. Allora cercò di entrare nelle ferrovie, come aveva fatto suo padre, ma gli dissero che erano tempi duri.

Martin, però, non riuscì a star lontano dalla ferrovia; dovunque andasse, seguiva le rotaie. Avrebbe preferito saltare su un merci diretto a nord con un freddo cane, piuttosto che alzare la mano per scroccare un passaggio a una Cadillac diretta in Florida. E ogni volta che riusciva a procurarsi una lattina di Sterno, andava a sistemarsi in un caldo e simpatico sottopassaggio, ripensava ai bei giorni andati e più spesso che mai mugolava la canzone del Diretto per l’Inferno. Era il treno degli ubriaconi e dei peccatori, dei giocatori e degli imbroglioni, dei perditempo, dei puttanieri e tutta l’allegra brigata. Sarebbe stato bello farsi un viaggetto in quella compagnia, però Martin non aveva tanta voglia di pensare a cosa accadesse quando il treno alla fine arrivava in Rimessa. Non riusciva a vedersi a caricar di carbone le caldaie dell’Inferno, senza nemmeno un sindacato a proteggerlo. Però sarebbe stato un bel viaggetto, se fosse veramente esistito un Diretto per l’Inferno: ma, ovviamente, non esisteva.

Cioè, Martin credeva che non esistesse: poi, una sera, si ritrovò a camminare lungo i binari diretto a sud, appena fuori di Appleton Junction. La notte era fredda e scura, come lo sono le notti di novembre nella valle del Fox River, e lui sapeva che prima dell’inverno doveva riuscire ad arrivare a New Orleans, magari addirittura nel Texas. Non aveva tanta voglia di andarci, sebbene avesse sentito che un mucchio di automobili nel Texas hanno i coprimozzi d’oro zecchino.

Nossignore, lui non era tagliato per rubacchiare a quel modo. È peggio di un delitto: non rende. Fare il mestiere del Diavolo, va bene, ma non per una paga così miserabile. Forse era meglio lasciarsi convertire dall’Esercito della Salvezza.

Martin continuò a camminare canticchiando la canzone di suo padre, aspettando un convoglio che lo portasse lontano da Junction. Doveva prenderlo, non poteva fare altro. Ma il primo treno che arrivò, arrivò dall’altra direzione, ruggendo lungo il binario.

Martin guardò avanti stringendo gli occhi, ma non riusciva a distinguere nient’altro che il rumore ed era il rumore di un treno; poteva anche sentire le rotaie vibrare e cantare sotto i suoi piedi.

Ma come era possibile? La prossima stazione era Neenah-Menasha, e di là non sarebbe dovuto arrivare niente prima di diverse ore.

Spesse erano le nubi nel cielo, e la bruma vagava sui campi gelida e opaca nella mezzanotte di novembre. Anche così, tuttavia, Martin sarebbe dovuto riuscire a scorgere i fari del treno che avanzava, mentre c’era soltanto il fischio che erompeva dalla nera gola della notte. Martin era in grado di riconoscere le caratteristiche di quasi tutti i treni, ma non aveva mai sentito un fischio come quello: non era un avvertimento, era come l’urlo di un’anima dannata.

Balzò via di lato perché ormai il treno stava arrivando. Ed eccolo, improvvisamente apparire gigantesco tra uno stridore di freni. Non avrebbe mai creduto che potesse bloccarsi in così breve spazio. Le ruote non dovevano essere oliate, perché urlavano anche loro, urlavano disperate.

Ma il treno si fermò e gli stridii si spensero in un gemito sommesso e Martin, guardando in su, vide che era un treno passeggeri, grande e nero, senza una sola luce nella cabina di guida o lungo l’interminabile coda di vagoni. Non riuscì a leggere nessuna scritta lungo le fiancate, ma era certo che quel treno non era di servizio sulla Northwestern Road.

Ne fu anche più sicuro quando vide un uomo discendere dalla carrozza di testa: c’era qualcosa di strano nel modo in cui camminava, come strascicando un piede; e poi la lanterna che egli portava era spenta e lo sconosciuto la levò davanti alla faccia e ci soffiò sopra e subito la lanterna si accese rosseggiando. Non c’è bisogno di far parte delle ferrovie per capire che quello è un modo molto curioso di accendere le lanterne.

Mentre la figura si avvicinava, Martin riconobbe il berretto da macchinista e questo lo tranquillizzò per un momento: ma poi si accorse che era un po’ troppo sulla fronte, come se qualcosa lo tenesse sollevato.

Tuttavia Martin sapeva essere educato, e quando l’altro gli sorrise, disse: — Buona sera, signor macchinista.

— Buona sera, Martin.

— Come fa a sapere il mio nome?

L’altro si strinse nelle spalle. — Come facevi tu a sapere che io ero il Macchinista?

— Ma lei è il Macchinista, no?

— Per te, certo. Altra gente, in altre strade della vita, mi riconosce anche sotto differenti aspetti. Per esempio, dovresti vedere per chi mi prendono quelli di Hollywood. — Sogghignò. — Io faccio un mucchio di viaggi — spiegò.

— E adesso, cosa fa da queste parti? — domandò Martin.

— Be’, la risposta dovresti saperla. Sono capitato qui perché tu avevi bisogno di me. Stanotte mi sono accorto di colpo che stavi cascando male, pensavi addirittura di metterti con l’Esercito della Salvezza. No?

— Be’…

— Non ti vergognare. Errare è umano, come ha detto qualcuno… Forse Selezione? Be’, non fa niente. Quello che conta è che avevi bisogno di me. Così sono partito e ti sono venuto incontro.

— Perché?

— Naturalmente per darti un passaggio. È meglio viaggiare comodi in treno che trascinarsi per le strade gelate dietro la banda dell’Esercito della Salvezza, non ti pare? È dura per i piedi, mi hanno detto, ma è ancora peggio per i timpani.

— Non so se voglio veramente salire sul suo treno, signor Macchinista — disse Martin. — Sto pensando a dove andrò a finire.

— Ah, sì, certo, la solita vecchia storia. — Il Macchinista sospirò. — Forse preferisci fare un patto, eh?

— Ecco, sì — rispose Martin.

— Be’, penso di piantarla con questo genere di cose; non c’è più pericolo di un calo della clientela, adesso: perché dovrei offrirti delle condizioni speciali?

— Lei mi vuole, vero? Altrimenti non si sarebbe dato la briga di venire a cercarmi fin qui.

Il Macchinista sospirò di nuovo. — Sì, hai ragione. Ammetto che l’orgoglio è sempre stato il mio punto debole, e poi mi spiacerebbe perderti, dopo aver pensato a te per tutti questi anni. — Esitò. — D’accordo. Se insisti, sono pronto a trattare con te sulla base di quello che vuoi tu.

— Quello che voglio io?

— La solita proposta: qualunque cosa desideri.

— Ah — disse Martin.

— Ma ti avverto subito, non ci saranno trucchi. Ti garantisco qualsiasi cosa tu chieda, ma in cambio tu mi prometterai di salire sul treno quando arriverà il momento.

— E se il momento non arriverà mai?

— Arriverà.

— E se io le chiedessi una cosa che mi libererà per sempre dalla promessa?

— Non esiste un desiderio del genere.

— Ne è sicuro?

— Lascia che sia io a preoccuparmi — gli ribatté il Macchinista. — Non importa quello che hai in testa: guarda che alla fine sono io a decidere e non ci saranno possibilità estreme, non ci saranno pentimenti all’ultima ora, non ci saranno bionde fräulein o avvocati di grido per tirarti fuori. Io faccio patti chiari: tu ti prendi quello che vuoi e io mi prendo quello che voglio io.

— Ho sentito che lei truffa la gente; dicono che lei è peggio di un venditore di auto usate.

— Ehi, un momento!

— Mi scusi — disse Martin in fretta. — Resta un fatto, sembra, che di lei non ci si deve fidare.

— D’accordo, lo ammetto. D’altronde, pare che tu abbia trovato la strada per superare questa situazione.

— Ho una proposta a prova di bomba.

— A prova di bomba? Divertente! — L’altro cominciò a sorridere, ma si fermò. — Stiamo sprecando del tempo prezioso, Martin. Torniamo all’affare: che cosa vuoi da me?

Martin tirò un profondo respiro: — Voglio essere in grado di fermare il Tempo.

— Adesso?

— No, non ancora. E non per tutto il mondo: capisco che forse è impossibile, ma voglio essere in grado di fermare il Tempo per me solo, una volta sola, nel futuro. Quando arriverò al punto in cui mi troverò felice e soddisfatto, voglio fermarmi: così continuerò per sempre a essere felice.

— È un desiderio coi fiocchi — scherzò il Macchinista. — Devo ammettere che non ho mai sentito niente del genere, fino a ora… e credimi, ne ho sentite, di stranezze. — Sorrise, rivolto a Martin. — Ci hai pensato bene, eh?

— Per anni — ammise Martin; poi tossì. — Allora, cosa ne dice?

— Non è impossibile, nei termini del tuo senso soggettivo del tempo — mormorò il Macchinista. — Sì, penso che possiamo farlo.

— Guardi che io voglio fermarmi sul serio, non semplicemente immaginarmelo.

— Ho capito. Si può fare benissimo.

— Allora lei è d’accordo?

— Perché no? Te l’ho promesso, no? Qua la mano.

Martin esitò: — Mi farà male? Sa, io non posso sopportare la vista del sangue, e…

— Stupidaggini! Ti hanno raccontato un sacco di baggianate. L’affare è già combinato, ragazzo mio. Volevo semplicemente darti in mano qualcosa: il mezzo e il modo per soddisfare il tuo desiderio. In pratica è impossibile stabilire esattamente in quale momento ti deciderai a valerti del tuo diritto e io non posso mollare tutto per venire di corsa. Quindi è meglio che tu faccia da solo.

— Vuol darmi un arnese per fermare il Tempo?

— L’idea sarebbe quella, appunto. Lasciami pensare un momento a qualcosa di pratico… — Il Macchinista esitò, e poi: — Ah, giusto quello che ci vuole! Ecco, tieni il mio orologio.

Lo tirò fuori dal taschino della giacca: era un orologio da ferroviere, con la cassa d’argento. Ne aprì il coperchio e fece una delicata regolazione. Martin cercò di capire che cosa stesse combinando esattamente, ma le dita si muovevano tanto in fretta che non riusciva a seguirle.

— Ecco fatto — sorrise il Macchinista. — È tutto a posto, adesso. Quando deciderai che è il momento di fermarti, non hai che da ruotare all’indietro il bottone della ricarica, finché la molla sarà tutta scaricata e l’orologio si fermerà. Quando l’orologio sarà fermo, il Tempo si bloccherà per te. È chiaro? — Così dicendo, lasciò cadere l’orologio nella mano di Martin. Il giovane strinse forte le dita sulla cassa. — È tutto qui, allora?

— Certamente. Ma ricordati: potrai fermare il tempo una sola volta, quindi sarà bene che tu faccia molta attenzione; assicurati di essere davvero soddisfatto, quando sceglierai il momento di arrestarti. Ti avverto in tutta franchezza: stai attento a fare una buona scelta.

— Lo farò. — Martin sorrise. — E dato che lei è stato onesto, lo sarò anch’io, perché c’è una cosa che lei sembra aver dimenticato. In realtà, non è affatto importante il momento che sceglierò, perché una volta che io fermerò il Tempo, resterò dove sono per sempre, non invecchierò; e se non invecchierò, non morirò; e se non morirò non prenderò mai il suo treno.

Il Macchinista si volse altrove. Le sue spalle sussultavano convulsamente, come se stesse piangendo. — E poi hai il coraggio di dire che io sono peggio di un venditore di auto usate — singhiozzò con voce strangolata.

Poi scomparve nella nebbia, e il fischio del treno urlò impaziente; d’un colpo si mosse velocemente sulle rotaie, sferragliando via nell’oscurità.

Martin restò immobile, sbattendo gli occhi davanti all’orologio d’argento che teneva in mano; se non fosse stato perché lo vedeva e lo sentiva, se non fosse stato per quell’odore inconfondibile, avrebbe pensato di essersi immaginato la storia dall’inizio alla fine: il treno, il Macchinista, l’affare e tutto il resto. Ma aveva l’orologio e riconosceva benissimo l’odore lasciato dal treno scomparso, anche se non ci sono molte locomotive in giro che utilizzino come combustibile lo zolfo.

Non aveva dubbi sull’affare fatto: era la logica conclusione di pensieri a lungo covati. Uno stupido avrebbe chiesto la ricchezza, la potenza, o Kim Novak. Il suo vecchio si sarebbe venduto per una bottiglia di whisky. Martin sapeva di aver fatto una scelta migliore. Migliore? Era assolutamente a prova di errore: tutto quello che lui doveva fare era di scegliere il suo momento.

Ripose in tasca l’orologio e riprese la via lungo i binari. Fino a quel momento non aveva mai avuto in testa una mèta, ma adesso sì: adesso era in cerca di un momento di felicità.

Ora il giovane Martin non era del tutto un ingenuo, e si rendeva perfettamente conto che la felicità è una cosa relativa e che ci sono diverse condizioni e gradi di soddisfazione, i quali variano nel complesso dei fatti della vita. Quando era stato un vagabondo, si era spesso contentato di un po’ di cibo caldo mendicato, di una comoda panchina in un parco o di una lattina di Sterno confezionata nel 1957 (una buona annata). Più di una volta aveva raggiunto uno stato di momentanea felicità grazie a queste povere cose, ma sapeva benissimo che ne esistevano altre, migliori, ed era ben deciso ad averle.

Due giorni dopo raggiunse la grande città di Chicago. Puntò difilato alla West Madison Street e là cominciò a muovere i primi passi sulla via del miglioramento della sua vita. Diventò un fannullone di città, un accattone girovago. In una settimana era arrivato al punto in cui un vero pasto su di un piatto di cartone, una brandina da due soldi in qualche taverna e un’intera bottiglia di moscatello erano una felicità.

Giunse quindi la notte in cui Martin, dopo essersi goduto appieno tutti questi tre lussi, pensò di togliere la carica dell’orologio, essendo al colmo della soddisfazione. Ma poi ricordò le facce della brava gente cui aveva allungato una mano mendica: certo, erano dei borghesi, però traspiravano prosperità; vestivano bene, avevano buoni impieghi, guidavano belle auto e per loro la felicità doveva essere più eccitante ancora… mangiavano in buoni ristoranti, dormivano su materassi a molle, bevevano whisky di qualità.

Borghesi o no, avevano qualcosa. Martin sfiorò con le dita il suo orologio, respinse la tentazione di fermarlo per avere un’altra bottiglia di vino, e andò a dormire con la decisione di trovarsi un lavoro e di migliorare il suo standard di felicità.

Quando si destò ebbe un momento di indecisione, ma ormai la strada era tracciata: prima della fine del mese Martin fu assunto da un imprenditore per lavorare a un grosso piano di ricostruzione dalle parti del South Side. Il lavoro non gli andava per niente, ma la paga era buona e presto poté permettersi un appartamentino monolocale sulla Blue Island Avenue, si abituò a mangiare in ristoranti decorosi, si comperò un letto confortevole e passava tutti i sabati sera al bar dell’angolo. Era tutto molto bello, ma…

Il suo datore di lavoro era contento di lui e gli aveva promesso un aumento per il mese seguente: quindi, se avesse aspettato ancora un mese, l’aumento gli avrebbe dato la possibilità di permettersi un’auto di seconda mano. Con un’auto, avrebbe potuto dare appuntamento a qualche ragazza, di quando in quando. Altri suoi colleghi lo facevano e sembravano molto contenti. Così Martin continuò a lavorare, e così giunsero l’aumento, l’automobile e qualche ragazza.

La prima volta che ebbe tutto, fu preso dal desiderio di scaricare l’orologio immediatamente, ma poi gli venne fatto di pensare a quello che qualcuno dei più anziani gli diceva sempre. C’era un tizio che si chiamava Charlie, per esempio, che lavorava con lui sul montacarichi, che gli diceva: — Fin che sei giovane e non conosci il trucco, può darsi che ti lasci impressionare da queste troie con cui trotterelli in giro, ma dopo un po’ impari a volere qualcosa di meglio. Una ragazza tutta per te, ecco il segreto.

Martin pensò che era giusto provare. E se non gli fosse piaciuto di più, sarebbe sempre potuto tornare indietro a quello che aveva.

Passarono quasi sei mesi prima che incontrasse Lillian Gillis. A quei tempi si era guadagnato un altro avanzamento e lavorava dentro, in ufficio. Lo facevano andare alla scuola serale per impratichirsi con la contabilità, ma questo voleva dire altri quindici sacchi in più ogni settimana e poi lavorare al coperto era meglio.

Lillian era splendida. Quando gli disse che accettava di sposarlo, Martin si sentì sicuro che fosse giunto il momento; solo che lei era… insomma, lei era una ragazza in gamba e disse che bisognava aspettare prima di sposarsi. Naturalmente Martin non poteva sposarla fino a che non avesse messo da parte un po’ di soldi e poi un altro scatto in su sarebbe stato proprio benvenuto.

Ci volle un anno. Martin restò paziente, perché sapeva che ne sarebbe valsa la pena. Ogni volta che aveva dubbi tirava fuori il suo orologio e lo guardava. Però non lo fece mai vedere né a Lillian né ad alcun altro. La maggior parte degli altri uomini avevano costosi orologi da polso e il vecchio orologio d’argento da ferroviere aveva proprio l’aria della cosina a buon mercato.

Martin sorrideva guardando il bottone della ricarica. Pochi giri soltanto ed egli avrebbe avuto qualcosa che nessuno degli altri poveri sgobboni avrebbe mai posseduto: la felicità perpetua con una deliziosa mogliettina…

Invece il matrimonio si rivelò soltanto un punto di partenza. Certo, era meraviglioso, ma Lillian gli disse che le cose sarebbero andate molto meglio per loro se avessero potuto cambiare casa e stabilirsi altrove. Martin voleva del mobilio decoroso, un televisore e una bella macchina.

Così cominciò a frequentare dei corsi serali e giunse a una promozione all’ufficio principale. Mentre aspettava un figlio, decise che doveva attendere di vederlo nato. Una volta che il pupo fu arrivato, si rese conto che doveva aspettare che crescesse un po’, che cominciasse a camminare e a parlare, che si facesse una personalità.

A quell’epoca la compagnia lo mandò in giro come ispettore nei vari settori ed egli arrivò a mangiare nei ristoranti di classe, a vivere a un livello superiore, ad avere un conto spese. Più di una volta fu tentato di scaricare la molla dell’orologio: quella sì, che era vita!… Naturalmente sarebbe stato anche meglio se non avesse avuto da lavorare. Prima o poi, se avesse potuto entrare direttamente negli affari della compagnia, avrebbe potuto far fagotto e ritirarsi; allora ogni cosa sarebbe stata ideale.

Ci arrivò, ma ci volle del tempo. Il figlio di Martin era già al liceo prima che egli riuscisse a mettersi negli affari. Martin sentì fortemente che era adesso o mai, perché non era proprio più un ragazzo. Ma fu allora che incontrò Sherry Westcott.

Lei non aveva l’aria di considerarlo ormai invecchiato, nonostante cominciasse a perdere capelli e ad aumentare la pancia. Gli disse che un parrucchino avrebbe potuto coprire la macchia della calvizie e che una panciera avrebbe contenuto la ciccia. Gli insegnò effettivamente un mucchio di cose ed egli si divertì talmente a imparare che a un certo punto prese fuori l’orologio e si preparò a scaricarlo.

Sfortunatamente scelse il momento esatto in cui alcuni investigatori privati sfondarono la porta della stanza d’albergo e quindi ci fu un bel periodo di tempo durante il quale Martin fu tanto preso nell’azione di divorzio che onestamente non avrebbe potuto dire di essere contento. Quando firmò l’accordo con Lil, era di nuovo a terra e Sherry non aveva più l’aria di considerarlo tanto giovanile, in fondo. Così si scrollò le spalle e tornò al lavoro.

Riuscì di nuovo a ritirarsi in bellezza, ma questa volta gli ci volle un bel po’ di fatica e non ebbe il tempo di trovare qualcosa di bello per strada. Le signore affascinanti ai sofisticati cocktails non lo attiravano più e nemmeno lo interessava l’alcool; e oltre tutto il medico gli aveva detto di starne lontano.

C’erano altri piaceri che un uomo ricco poteva cercarsi: i viaggi, per esempio; e non le camminate lungo i binari da un villaggio all’altro. Con l’aereo o in crociera di lusso Martin girò il mondo. E giunse l’istante in cui credette che, dopo tutto, era riuscito a ritrovare il suo momento: fu in una notte di luna davanti al Taj Mahal. Martin allora prese il vecchio orologio ammaccato e si preparò a fermare il tempo. Nessuno era là a guardarlo.

Proprio per questo, esitò: sì, era un momento di gioia, ma egli era solo. Lil e il ragazzo se n’erano andati. Sherry se n’era andata e in un modo o nell’altro non aveva avuto tempo di farsi degli amici. Forse, se avesse incontrato qualcuno che gli fosse congeniale, avrebbe raggiunto l’ultima felicità. Qui era la risposta, certo: la felicità non stava nel denaro, nella potenza o nel sesso o nelle belle cose viste; la felicità era nell’amicizia.

Così, durante la crociera di ritorno, Martin cercò di stringere qualche amicizia al bar della nave, ma tutti erano molto più giovani ed egli non aveva niente in comune con loro. Volevano ballare e bere e Martin non era in condizioni di apprezzare quelle cose ormai passate. Ci provò lo stesso e fu forse a causa di questo che ebbe il piccolo incidente il giorno prima che la nave attraccasse a San Francisco. “Piccolo incidente” era la definizione del medico di bordo, però Martin si accorse che lo aveva guardato molto preoccupato quando gli aveva detto di starsene a letto e aveva chiamato un’ambulanza perché venisse sul molo per portare il paziente direttamente all’ospedale.

All’ospedale, nessun dispendioso trattamento, nessun costoso sorriso, nessuna preziosa parola trassero Martin in inganno. Era un vecchio con un cuore in rovina ed erano tutti convinti che stesse per morire.

Ma lui poteva ridersela di tutti, aveva l’orologio: se lo trovò nel soprabito quando si vestì e uscì dall’ospedale. Non doveva morire, poteva eludere la morte solo con un gesto e voleva compierlo da uomo libero, fuori di quelle mura, sotto il grande cielo.

Questo era il segreto della vera felicità, solo ora lo capiva: nemmeno l’amicizia contava quanto la libertà, la cosa migliore fra tutte. Libero da amici, famiglia, desideri.

Martin camminava lentamente lungo la massicciata sotto il cielo notturno; ripensandoci, era giunto di nuovo proprio dove aveva cominciato tanti anni prima, ma il momento era buono, buono abbastanza per essere prolungato per sempre. Era stato un vagabondo, era restato per sempre un vagabondo.

Sorrise a questo pensiero e poi improvvisamente il sorriso gli si torse sul volto teso, mentre un dolore acuto e tagliente gli penetrava il petto. Il mondo cominciò a vorticargli intorno mentre egli piombava giù ai piedi della massicciata. Non riusciva a vedere molto bene, ma era ancora cosciente e capì che cosa era successo: un altro infarto e brutto. Forse questa era la volta buona. Solo che non poteva gingillarsi più a lungo: non poteva più aspettare per vedere cosa c’era dietro l’angolo.

Ora, ora era il momento di usare il suo potere, di salvare la sua vita. Ora! Stava per farlo. Poteva ancora muoversi, niente gli avrebbe impedito di farlo.

Frugò nella tasca, ne trasse il vecchio orologio d’argento, giuoco con le dita sul bottone di carica. Pochi giri, e avrebbe battuto la morte; pochi giri, e nessuno l’avrebbe fatto salire sul Diretto per l’Inferno. Avrebbe potuto restare così per sempre.

Per sempre.

Martin non aveva mai fatto caso alla parola, prima di allora. Continuare per sempre… ma cornei Realmente voleva continuare a essere per sempre un vecchio ammalato, disteso senza aiuto nell’erba?

No, non poteva. Non voleva. E improvvisamente desiderò profondamente il pianto, perché comprendeva che in qualche luogo lungo la sua via egli si era beffato da solo, e adesso era troppo tardi. I suoi occhi si velarono, mentre alle orecchie gli giungeva un frastuono.

Riconobbe il rumore, naturalmente, e non fu per niente sorpreso di vedere il treno sbucare dalla nebbia sferragliando sulla massicciata; e non si stupì quando il treno si arrestò ed egli vide il Macchinista balzarne fuori e venirgli lentamente incontro. Il Macchinista non era cambiato in niente; anche il sorriso era lo stesso.

— Salve, Martin — disse. — Passeggeri in carrozza.

— Lo so — sussurrò Martin. — Ma dovrà caricarmi lei, non posso camminare. Non riesco nemmeno a parlare, vero?

— Ma sì, che stai parlando; ti sento benissimo. E puoi anche camminare. — Si chinò e gli posò una mano sul petto; dopo un attimo di gelida sonnolenza, Martin si sentì di nuovo in grado di camminare. Si alzò e seguì il Macchinista su per la massicciata, verso la fiancata del treno.

— Qui? — domandò.

— No, l’altra carrozza — mormorò il Macchinista. — Credo che tu abbia diritto alla prima classe; sei un uomo di successo, hai avuto il piacere della ricchezza, della posizione, del prestigio; hai conosciuto le gioie del matrimonio e della paternità; hai provato il gusto di mangiare e bere, e anche di fare dei compromessi, e poi hai viaggiato in lungo e in largo; quindi, niente rimpianti all’ultimo momento.

— Bene — sospirò Martin. — Non posso dare la colpa a lei per i miei errori. D’altra parte, lei non può farsi un credito di quanto ho avuto, perché ho lavorato per ogni cosa ottenuta. Ho fatto tutto da solo. Non ho nemmeno avuto bisogno del suo orologio.

— Ah, così? — disse sorridendo il Macchinista. — Ti dispiace restituirmelo, adesso?

— Buono per il prossimo babbeo, eh? — mormorò Martin.

— Forse.

Qualcosa in quel modo di parlare indusse Martin a levare il capo, cercando di scrutare gli occhi del Macchinista, ma la visiera del berretto li teneva in ombra. Così Martin riabbassò lo sguardo sull’orologio.

— Mi dica una cosa — domandò dolcemente. — Se le ridò l’orologio, cosa ne farà?

— Be’, lo butterò nel fosso, ecco cosa farò — gli rispose il Macchinista, allungando la mano.

— E se qualcuno, passando, lo trovasse? e se girasse all’indietro il bottone? se fermasse il Tempo?

— Nessuno lo farà — mormorò il Macchinista. — Nemmeno se sapesse la storia.

— Vuol dire che era tutto un trucco? che questo è soltanto un normale orologio da pochi soldi?

— No — sussurrò il Macchinista — non ho detto questo: ho detto che nessuno girerebbe il bottone all’indietro. Sono tutti come te, Martin: sempre avanti, in cerca della felicità perfetta, in attesa del momento che non arriverà mai. — Il macchinista allungò di nuovo la mano.

Martin sospirò e scosse il capo. — In fondo, lei si è giocato di me.

— Tu stesso ti sei giocato, Martin. Adesso però sali sul Diretto per l’Inferno.

Spinse Martin su per i gradini dentro al vagone. Appena furono entrati, il treno cominciò a muoversi e il fischio lacerò la notte. Martin si trovò nella carrozza traballante cercando negli scompartimenti i volti dei passeggeri. Erano tutti lì seduti e in un certo senso la cosa non sembrava affatto strana.

Eccoli, gli ubriaconi e i peccatori; ecco, i giocatori, gli imbroglioni, i perditempo, i puttanieri e tutta l’allegra brigata. Sapevano dove stavano andando tutti quanti, ma non sembravano preoccuparsene. Le tendine erano tirate sui finestrini, ma dentro c’era luce, e tutti se la stavano spassando; cantavano e facevano girare la bottiglia, ridevano come matti, giocavano ai dadi, raccontavano barzellette e sparavano colossali spacconate, proprio come il padre di Martin cantava nella vecchia canzone.

— Una compagnia proprio in gamba — osservò Martin. — Certo, non ho mai visto un mazzo di gente così simpatica. E pare che si divertano sul serio!

Il Macchinista si strinse nelle spalle: — Ho paura che non saranno più tanto eccitati, quando arriveremo giù in Rimessa.

Per la terza volta, allungò la mano: — Adesso, prima che tu sieda, ridammi l’orologio, per favore. Gli affari sono affari.

Martin sorrise. — Gli affari sono affari — fece eco. — Io avevo accettato di salire sul suo treno se avessi potuto fermare il Tempo quando avessi trovato il giusto momento di felicità: e adesso credo di essere contento come non lo sono mai stato.

Con estrema lentezza, Martin pose le dita sul bottone di ricarica dell’orologio d’argento.

— No! — annaspò il Macchinista. — No! — Ma il bottone ruotò.

— Ti rendi conto di che cosa hai combinato? — gridò isterico il Macchinista. — Adesso non potremo mai più arrivare alla Rimessa! Non faremo che viaggiare, viaggiare… tutti, per sempre!

Martin sorrise e disse: — Lo so. Ma il piacere sta nel viaggio, non nella mèta: me l’ha insegnato lei. Così, forse posso anche rendermi utile: se mi potesse trovare un altro di questi berretti, e mi lascia tenere l’orologio.

E la storia è finita così: con il suo berretto e il vecchio orologio d’argento tutto ammaccato, non c’è e non ci sarà mai nell’universo intero una persona più felice di Martin. Martin, il nuovo Frenatore del Diretto per l’Inferno.

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