Raymond F. Jones Corso per corrispondenza

Il vecchio sentiero che correva dalla fattoria alla cassetta delle lettere sulla strada era la stessa pista polverosa che ricordava da molti eoni prima. L’alto strato della polvere estiva si smuoveva lento e incerto ai suoi piedi. Perché le impronte del suo piede sinistro erano salde e profonde come lo erano state quando aveva percorso per l’ultima volta quel sentiero, ma là dove si muoveva il suo piede destro, veniva tracciata una linea frastagliata e continua, con depressioni irregolari, e c’era il segno nitido di un bastone accanto alle impronte strascicate.

Alzò per un attimo gli occhi al cielo quando una formazione di aerei passò sopra la sua testa, proveniente dalla base per l’addestramento all’alta acrobazia, a cinquanta miglia di distanza. Fu colto da una viva nostalgia, un desiderio che quasi lo sopraffece, nei confronti degli uomini che aveva conosciuto… e Ruth.

Era a casa; era tornato vivo, ma tanti di loro erano morti, non sarebbero mai tornati, e a cosa serviva?

Con Ruth morta niente serviva. Per un attimo sentì gli occhi bruciargli, per l’intimo dolore… gli fecero male come se lo scoppio d’una bomba l’avesse accecato, quando ricordò quel giorno nel piccolo ospedale da campo quanto l’aveva vista morire e aveva udito il rombo degli aerei che passavano sopra, in alto.

Più tardi, aveva preso il volo da solo, ignorando gli ordini, deciso a morire insieme a lei, ma dopo aver trascinato con sé il maggior numero possibile di nazisti. Ma non era morto. Ne era venuto fuori con una gamba frantumata da una pallottola esplosiva ed era stato mandato a casa ad arrugginire e a morire un po’ per volta, un anno dopo l’altro.

Scosse la testa e cercò di scacciar via questi pensieri dalla sua mente. Stava sbagliando. I medici l’avevano avvertito…

Riprese la sua lunga marcia, trascinandosi dietro la gamba mezza inutile. Quello era lo stesso sentiero si era precipitato di corsa tante volte anni prima, d’estate. C’erano una pozza per nuotare e uno stagno per pescare a un quarto di miglio da lì. Cercò di cancellare il ricordo della tragedia con la rievocazione di quei giorni felici. Socchiuse gli occhi e si sforzò di spazzar via dalla mente la paura e l’amarezza.

Erano le dieci del mattino e il signor McAfee, il postino di campagna, era in ritardo, ma Jim Ward intravide a un miglio di distanza, sulla strada, la sua Ford vecchia e sbuffante che sollevava una nuvolaglia di polvere.

Jim era pesantemente appoggiato al robusto palo di legno di cedro che reggeva la cassetta delle lettere, e quando il signor McAfee si avvicinò con passo saltellante, riusci a salutarlo con la mano e a sorridere con allegria.

Il signor McAfee si riaggiustò gli occhiali a cavalcioni sul naso, muovendo rapidamente le dita come sui pistoni d’un trombone.

«Buon Dio, Jim, è un piacere vederti in giro!»

«Fa un bell’effetto essere in piedi». Jim riuscì a infondere entusiasmo nella sua voce. Ma sapeva che non sarebbe riuscito a parlare molto a lungo col vecchio Charles McAfee… come se niente fosse cambiato dall’ultima volta».

«Qualche lettera per i Ward, oggi?»

Il postino sfogliò la manciata di corrispondenza. «Soltanto una».

Jim gettò un’occhiata al nome del mittente, e scrollò le spalle. «Sono già sulla lista dei polli da spennare. Non perdono tempo; non appena si accorgono che sulle tue ossa è rimasta ancora un po’ di carne da rosicchiare. Tienla tu».

Si girò dolorante e guardò in direzione della casa. «Devo tornare. Lieto di averti visto, signor McAfee».

«Già, sicuro, Jim. Lieto di averti rivisto. Ma io… ehm… devo consegnare la corrispondenza…» Gli porse la lettera, speranzoso.

«E va bene». Jim sbottò in una risata e agguantò la circolare.

Tornò indietro soltanto fino alla quercia gigante i cui rami si protendevano tanto da proiettare l’ombra sulla cassetta delle lettere. Si sedette lì all’ombra, la schiena rivolta al grosso tronco, e cercò di seguire con lo sguardo la formazione di aerei che era ritornata sopra la valle e traspariva qua e là tra i ciuffi di fogliame. Dopo un po’ abbassò lo sguardo sulla busta dalla quale le sue dita stavano strappando piccoli frammenti di carta. Aprì la busta di malavoglia e gettò un’occhiata sul suo contenuto. In sgargianti, dozzinali caratteri rosso e porpora, lo scritto parve balzargli addosso:


SOLDATO — QUALE SARÀ IL TUO FUTURO?


Sei tornato dalla guerra. Hai trovato la vita diversa da quella che era prima, e la maggior parte di ciò che ti era familiare non c’è più. Al loro posto vi sono altre cose, cose nuove che sono destinate a restare e fanno parte del mondo in cui dovrai vivere. Hai pensato a! posto che occuperai? Sei pronto a riprendere la tua vita, in un tempo di pace?


NOI POSSIAMO AIUTARTI


Hai sentito parlare del COORDINATORE D’ENERGIA? No, naturalmente, poiché si tratta d’una fonte segretissima d’energia che ha fatto girare le ruote dell’industria bellica per molti mesi. Ma adesso il segreto di questa sterminata fonte di nuova energia può essere rivelato, e nel prossimo decennio saranno richiesti centinaia, migliaia di tecnici addestrati — come tu, tu stesso, potresti diventare.


LASCIA CHE TI DIMOSTRIAMO


Lascia che ti dimostriamo che sappiamo bene di cosa stiamo parlando. Noi siamo certi che tu, soldato addestrato a usare le più complicate macchine di guerra, sarai tanto interessato a questa nuova, quasi miracolosa fonte d’energia e alla tecnica per maneggiarla, che siamo disposti a spedirti ASSOLUTAMENTE GRATIS le tre prime lezioni del nostro corso di venticinque lezioni, che farà di te uno specialista del COORDINATORE D’ENERGIA. Lascia che te lo dimostriamo. Riempi l’allegata cartolina e spediscila oggi stesso!

Non scrollare le spalle, non buttar via questa circolare come se fosse una pubblicità qualsiasi. IMPOSTA LA CARTOLINA SUBITO!


Jim Ward sorrise al peculiare stile della circolare, riandando indietro con la memoria. Gli ricordava Billy Hensley, quando avevano tutti e due tredici anni. Spedivano diligentemente per posta tutti i tagliandi, regolarmente compilati, che riuscivano a trovare nelle riviste. Avevano ricevuto uno sterminato campionario di saponette, trucchi magici, cataloghi, e una volta perfino un uccello vivo. Avevano ammucchiato tutta la roba nella soffitta di Hcnsley, fino a quando il padre di Bill non aveva deciso di buttarla via.

D’impulso, in un estemporaneo tributo alla felicità di quei giorni scomparsa per sempre, Jim Ward scribacchiò il suo nome e l’indirizzo con un mozzicone di matita, invitando così i coordinatori d’energia a spedirgli le loro prime tre lezioni.

Il signor McAfee doveva percorrere un altro miglio soltanto per arrivare in fondo alla strada, poi sarebbe tornato indietro, passando di nuovo davanti alla fattoria dei Ward, diretto a Kramer’s Forks. Jim lo aspettò e lo chiamò.

«Vuoi prender su questa?»

Il postino fermò la sua sferragliante Ford e balzò a terra. «Cosa c’è?»

Jim ripeté la richiesta e gli porse la cartolina per la risposta, già affrancata. «Vuoi prenderla?»

Il signor McAfee prese la cartolina, la girò tra le dita e lesse tutto quello che c’era scritto.

«Buona idea», grugnì. «Così, hai intenzione di seguire un corso per corrispondenza su questa nuova energia, qualunque cosa sia? Penso sia formidabile, Jim. Ti darà nuovi interessi». Jim si alzò in piedi con uno sforzo, aiutandosi col bastone e il tronco della quercia. «Ora farò meglio a vedere se ce la faccio a tornare a casa».

Tutto l’estro e il buonumore se n’erano andati.


Con fantastica rapidità — tre giorni più tardi — il signor McAfee si fermò di nuovo alla fattoria dei Ward. Controllò con un’occhiata la grossa busta che aveva nello zaino e il nome del mittente. Aveva scorto Jim Ward sulla veranda della fattoria e fece svoltare la Ford su per il sentiero. Lo sferragliare indusse Jim a girare la testa e a riscuotersi dal torpore senza pensieri in cui aveva tentato d’immergersi. Si tolse la pipa di bocca e seguì l’avvicinarsi della macchina.

«Ecco il tuo corso», urlò il signor McAfee. «Ecco le tue prime lezioni!»

«Quali lezioni?»

«Il corso per corrispondenza che avevi chiesto. L’energia… cos’era? Non ricordi?»

«No», disse Jim. «Me n’ero completamente scordato. Porta via quella roba, non la voglio. È stato soltanto uno stupido scherzo».

«Non dovresti sentirti così, Jim, dopotutto la tua gamba guarirà. Ho sentito il dottore che lo diceva all’emporio, ieri. E tutto andrà a posto. Non serve che ti lasci abbattere. Inoltre… io devo consegnare la posta».

Gettò la busta marrone sulla veranda accanto a Jim. «Te l’ho portata subito, perché pensavo che avessi una gran fretta di riceverla».

Jim sorrise per scusarsi. «Mi spiace, Mac. Non intendevo prendermela con te. Grazie per avermela portata. La studierò bene, e con la massima concentrazione, proprio qui, sulla veranda, subito stamattina».

L’espressione del signor McAfee si fece raggiante. Annui e si allontanò con la Ford sferragliante. Jim tornò a chiudere gli occhi, ma non riuscì a ritrovare la piacevole vacuità di poco prima. Ora, nella sua mente continuava a stagliarsi il cielo con gli aerei che volavano in cerchio e in picchiata, e il volto d’una ragazza che giaceva immobile e pallida, gli occhi chiusi.

Jim aprì gli occhi, le mani gli scivolarono giù dai fianchi e toccarono la busta. L’aprì, lacerandola, ed esaminò i fogli in essa contenuti. Era proprio il genere di roba che gli arrivava per posta da ragazzo. Scorse rapidamente i titoli dei capitoli e gettò da parte la prima lezione. C’era un sacco di roba ovvia, con esempi banali sui mulini ad acqua, le macchine a vapore e l’elettricità. Aveva tutto l’aspetto d’un tema tirato via da uno studente delle superiori sullo sviluppo dell’energia dai tempi di Archimede a oggi.

Le pagine ciclostilate erano realizzate in modo assai scadente. Pareva che le matrici fossero state battute su una macchina per scrivere i cui tasti fossero stati colpiti con un martello.

Gettò da parte anche la seconda lezione e lanciò un’occhiata sul primo foglio della terza. La sua mano si arrestò a mezz’aria nell’atto di buttar via anche questa lezione accanto alle prime due. Aveva intravisto, nel primo foglio e nei successivi, formule e calcoli.

Questa era roba a livello universitario. Il suo cervello lottò per richiamare a sé i primi elementi del calcolo integrale e delle equazioni a derivate parziali di cui da lungo tempo non si era più servito.

C’erano pagine e pagine di quella roba. Era come la luce di un faro, fioca e lontanissima, ma che indicava un percorso sicuro alla sua mente, e si faceva sempre più intensa man mano procedeva. Avanzò lungo i passi intricati dell’alta matematica, superandoli uno alla volta, assimilando i brevi paragrafi tra una formula e l’altra. Quando infine giunse all’ultima pagina e poté chiudere il grosso fascicolo, si accigliò: il sole era ormai disceso a metà nel cielo pomeridiano.

Jim fissò i campi lontani, e rifletté. Quella non era roba terra terra. Una matematica come quella non poteva far parte d’un corso per corrispondenza alla buona. Raccolse la grossa busta e si concentrò sul nome del mittente. Tutto quello che vi era scritto diceva: M.H. Quilcon Schools, Henderson, Iowa. E ogni lezione era firmata, in calce, con una riproduzione in ciclostile della vistosa firma «M.H. Quilcon».

Jim raccolse la prima lezione e cominciò a leggerla lentamente, con la massima attenzione, alla ricerca, quasi, di ciò che poteva trovarsi nascosto fra le righe, un qualche mistico messaggio.

Alla fine di luglio la sua gamba si era irrobustita quanto bastava a consentirgli di camminare senza bastone. Procedeva con lentezza, zoppicando, e di tanto in tanto la gamba cedeva come se il ginocchio non riuscisse a sostenere il peso. Ma Jim imparò presto a recuperar l’equilibrio prima di cadere, e si godette tutto il brivido di poter camminare di nuovo.

Alla fine di luglio era ormai arrivata la decima lezione del corso per corrispondenza, e Jim seppe di essere giunto fin dove poteva farcela da solo. Viveva in uno stupore incantato, mentre si aggirava in quel nuovo, meraviglioso mondo scientifico che gli si era schiuso davanti agli occhi. Sapeva che erano stati compiuti grandi passi nella tecnologia e nella produzione, ma gli pareva incredibile che un scoperta fondamentale come quella della coordinazione d’energia si fosse limitata a produrre, per tanti mesi, macchine di guerra. A produrle soltanto: si chiese come mai il principio non fosse stato applicato più direttamente dentro le stesse armi, nel loro stesso funzionamento… ma non ne capiva abbastanza per sapere se fosse o no possibile. Non riusciva ancora a capire da dove provenisse quell’energia che era alla base del sistema.

La decima lezione era stampata male come tutte le precedenti. Ma era assai più consistente: lo spessore del fascicolo era quello d’un libro. Quando l’ebbe finito, Jim si era ormai reso conto che era indispensabile, per lui, saperne di più sulle origini e i fondamenti della nuova scienza. Doveva parlare con qualcuno che ne sapesse qualcosa. Ma non conosceva nessun altro che ne avesse sentito parlare. E anche lui, non aveva visto in giro nessuna pubblicità della M.H. Quilcon Schools. Tutto ciò che ne sapeva era contenuto in quella prima circolare e nelle dieci lezioni.

Non appena ebbe completato i compiti per casa relativi alla decima lezione, e li ebbe affidati alle cure del signor McAfee, Jim Ward decise di recarsi personalmente a Henderson, nello Iowa, a far visita alla Quilcon Schools.

Desiderò aver trattenuto presso di sé i fogli coi compiti svolti: avrebbe potuto portarli laggiù più in fretta di quanto avrebbero impiegato attraverso i normali canali della posta.


L’accelerato si fermò a Henderson, Iowa, appena quel tanto che gli consentì di scendere. Riparti, poi, subito, e Jim Ward si guardò intorno.

L’uomo dall’aria assonnata che fungeva da bigliettaio, spedizioniere e custode lo fissò meravigliato e sputò un cospicuo fiotto ambrato di tabacco attraverso lo scrittoio, fuori della finestra.

«Cerca qualcuno, signor mio?»

«Sto cercando Henderson, Iowa. È questa?» chiese Jim, dubbioso.

«C’è proprio arrivato, signor mio. Ma non cammini troppo in fretta, altrimenti se ne troverà fuori. I confini di Henderson sono a un solo isolato oltre lo spaccio di Smith».

Jim notò il cartello sopra la porta e diede un’occhiata alla scritta che non aveva visto prima: Henderson, Iowa. Pop. 806.

«Sto cercando un certo signor M.H. Quilcon. Dirige una scuola per corrispondenza, qui da qualche parte. Lo conosce?»

L’intero personale della stazione tornò a frugarsi il cervello e infine sbottò, pensieroso: «Col prossimo ottobre saranno ventinove anni che vivo qui. Mai sentito un nome simile qui intorno… e li conosco tutti».

«C’è qualche scuola per corrispondenza qui da voi?»

«La signorina Marybell Anne Simmons di tanto in tanto dà qualche lezione come estetista, ma è l’unica scuola di quel genere che io conosca».

Stupito, Jim Ward mormorò i suoi ringraziamenti e uscì a lenti passi dalla stazione. Il panorama che gli si parò davanti era sconcertante. Si chiese se la popolazione non fosse drasticamente diminuita da quand’era stato fatto il censimento scritto sul cartello, là dentro.

Un piccolo emporio fatiscente lo fronteggiava sul lato opposto della strada. Un po’ più là era un minuscolo edificio scheletrico che una scritta qualificava come Ufficio dello Sceriffo. Al di qua della strada Jim vide lo spaccio di Smith, a una settantina di metri di distanza, con una sella e un sacco di fertilizzante esposti in vetrina. Nella direzione opposta in un unico blocco occhieggiavano l’ufficio postale, la banca e quello che veniva pubblicizzato come un giornale con relativa tipografia.

Jim s’incamminò verso quest’ultimo edificio mentre, dalla sconquassata veranda dell’emporio, alcuni sfaccendati seguivano incuriositi il suo avanzare strascicato nella polvere.

La direttrice dell’ufficio postale alzò gli occhi dalla bracciata di corrispondenza che stava suddividendo fra le varie cassette quando Jim entrò. Lo salutò con un allegro «allò!» che parve cadere tintinnando dalla sua formosa figura.

«Sto cercando un uomo chiamato Quilcon. Ho pensato che lei potesse darmi qualche informazione su di lui».

«Kweelcon?» Corrugò le sopracciglia. «Non c’è nessuno, qui, con quel nome. Com’è scritto?»

Prima che lui potesse rispondere la donna lasciò cadere una manciata di lettere sul pavimento. Jim fu certo di aver visto quella che lui aveva spedito alla scuola prima di partire.

Mentre la donna si chinava per raccogliere le lettere, un’ombra bruna parve sfrecciare attraverso il pavimento. Jim ebbe la fugace impressione di un’enorme lumaca marrone che si muoveva con la velocità del fulmine.

La direttrice cacciò un grido di rabbia e batté i piedi sul pavimento. Un attimo dopo si era già ripresa.

«Un armadillo», spiegò. «Quella dannata bestia gira qui intorno da mesi e pare che nessuno riesca ad ammazzarlo». Ricominciò a classificare la corrispondenza.

«Credo che gliene manchi una», disse Jim. La donna non stringeva più tra le mani la busta che lui aveva riconosciuta per propria.

La donna scrutò il pavimento tutt’intorno. «Le ho raccolte tutte, grazie. Adesso… come ha detto che era il nome?»

Jim si sporse oltre il bancone e scrutò il pavimento. Ne era certo… Ma era ovvio che non c’erano più lettere in vista, là sotto, e non c’era nessun altro posto dove poteva essersi ficcata.

«Quilcon», sillabò Jim. «Io stesso non sono sicuro della pronuncia, ma è scritto proprio così».

«Non c’è nessuno a Henderson con quel nome. Ma… si, aspetti un momento. È strano, sa?, ma un mese fa ho visto una busta partire da qui con quel nome scritto sull’angolo in alto a sinistra. Quel giorno pensai che era un nome strano, e mi chiesi chi poteva avercelo messo, ma non l’ho mai scoperto, e ho pensato di essermelo immaginato. Come fa a sapere che doveva venir qui a cercarlo?»

«Potrei aver ricevuto io quella lettera che lei ha visto in partenza quel giorno, no?»

«Be’, perché non lo chiede al signor Herald? È al giornale, qui alla porta accanto. Ma sono certa che non c’è nessuno, qui a Henderson, con quel nome».

«Pubblicate un giornale, qui?»

La donna scoppiò a ridere. «Lo chiamiamo così. Il signor Herald possiede una banca e una grossa fattorìa, e pubblica gratis il giornale… è un hobby. Non è gran cosa, ma qui a Henderson lo leggono tutti. Al sabato ne fa un’edizione completa, stampata. Questo, invece, è il quotidiano».

Gli mostrò un foglietto ciclostilato, non molto leggibile. Jim lo sbirciò, poi mosse verso l’uscita. «Grazie lo stesso».

Quando uscì nuovamente nel sole d’estate, c’era qualcosa che gli rodeva il cervello, una sorta di sensazione del tipo là-dentro-ti-sei-dimenticato-di-qualcosa. Non riuscì però a focalizzarne il motivo e si sforzò d’ignorarla.

Poi, quando attraversò la soglia della tipografia, ci arrivò. Quel foglietto ciclostilato di notizie: assomigliava in modo sorprendente ai fogli delle lezioni che aveva ricevuto da M.H. Quilcon. Lo stesso inchiostro purpureo. I fogli un po’ spiegazzati. Ma gli parve una pazzia voler trovare un collegamento tra i due fatti. Tutti i fogli ciclostilati si assomigliano.

Il signor Herald era un ometto corpulento con una frangetta tutt’intorno al cranio calvo. Jim gli ripeté la sua domanda.

«Quilcon?» Il signor Herald si mordicchiò le labbra pensieroso. «No, sono certo di non avere mai udito quel nome. Un nome bizzarro… Sono certo che lo ricorderei, se l’avessi udito».

Jim Ward si rese conto che ulteriori indagini in quel luogo sarebbero state una pura perdita di tempo. C’era qualcosa di sbagliato da qualche parte. Le informazioni altamente tecniche contenute nel suo corso per corrispondenza non potevano certo essere uscite da quella cittadina moribonda.

Gettò un’occhiata al foglietto di notizie che giaceva sulla scrivania cosparsa di carte, accanto a una vecchia Woodstock. «Bel giornaletto, quello che pubblica qui», disse a Herald.

Il signor Herald scoppiò a ridere. «Be’, non è granché in verità, ma mi diverte farlo e la gente se la gode a leggere dei maiali perduti dalla signora Kelly e della pertosse dei figli di Dorius. Serve a vivacizzare un po’ l’atmosfera».

«Ha mai fatto nessun lavoro per conto di altri, stampato o ciclostilato?»

«Sono sempre a disposizione di chi voglia, ma sono tre anni che non ho più nessun cliente esterno».

Jim si guardò intorno con occhio indagatore. La vecchia Woodstock pareva l’unica macchina per scrivere presente nella stanza.

«Tanto vale che riparta», disse. «Ma, mi chiedevo se non potrebe lasciarmi usare la sua macchina per buttar giù un appunto e lasciarlo all’ufficio postale, se mai Quilcon si facesse vivo».

«Certo, faccia pure. Si accomodi».

Jim sì sedette alla sferragliante macchina e batté qualche riga mentre il signor Herald scompariva nel retro della tipografia. Poi Jim si alzò e si cacciò in tasca il foglio. Avrebbe tanto voluto aver portato con sé un foglio d’una delle lezioni.

«Grazie», gridò al signor Herald. Prese su una copia dell’edizione più recente del quotidiano e se la cacciò in tasca insieme al foglio battuto a macchina.


Durante il viaggio di ritorno studiò il foglio ciclostilato fino a quando non ne ebbe mandata a memoria ogni riga, ma si astenne dal trarre conclusioni finché non fu tornato a casa.

Dalla stazione chiamò la fattoria e Hank, il suo bracciante, venne a prenderlo. Le dieci miglia che lo separavano dalla fattoria gli parvero cento. Ma, giunto infine nella sua stanza, Jim stese sul letto i due fogli che aveva portato con sé e aprì il fascicolo della prima lezione del corso per corrispondenza.

Non c’era possibilità di sbagliarsi. Le matrici delle pagine ciclostilate del corso erano state battute con la vecchia macchina del signor Herald. C’era l’identica sbrecciatura sul lato della o, e la b era appiattita sul lato del rigonfiamento. Alla r mancava metà del trattino di base.

Era stato il signor Herald a stilare il corso.

Il signor Herald doveva essere M.H. Quilcon. Ma perché mai aveva negato di conoscere il nome? Perché non aveva voluto confessare di esser lui l’autore del corso?

Alle dieci di quella sera il signor McAfee arrivò alla fattoria con un espresso per Jim.

«Di solito non faccio le consegne così fuori mano a quest’ora di notte», dichiarò. «Ma ho pensato che forse ti sarebbe piaciuto averla subito. Potrebbe trattarsi di qualcosa d’importante. Forse un lavoro, qualcosa del genere. È del signor Quilcon».

«Grazie… Grazie per avermela portata, Mac».

Jim si affrettò a tornare nella sua stanza e aprì la busta, lacerandola con le mani che gli tremavano: Lesse:


Caro Signor Ward,

i suoi progressi nella comprensione dei principi della coordinazione d’energia sono davvero eccezionali e sono molto soddisfatto del modo in cui ha affrontato e svolto la decima lezione che ho appena ricevuto da lei.

Si è presentata un’insolita opportunità che sono spinto a offrirle. A qualche distanza da qui si trova un grosso motore a coordinamento d’energia che necessita d’importanti riparazioni. Ritengo che lei sia del tutto qualificato a lavorare su questa macchina, sotto un’adeguata supervisione, arricchendosi così d’una preziosa esperienza. L’installazione è situata a una certa distanza dall’abitato di Henderson, circa due miglia a sud, sulla Balmer Road. Là troverà l’Hortan Machine Works, dove è situato appunto il motore. Sono richieste delle riparazioni urgenti e lei è lo studente qualificato più vicino, in grado di approfittare di quest’occasione, che potrebbe anche condurre a un ambito rapporto permanente. Perciò, le chiedo di venire subito. L’incontrerò là.

Con ossequi

M.H. Quilcon


Jim Ward restò seduto a lungo sul letto con la lettera dispiegata davanti a sé. Quella che era cominciata come una semplice ricerca d’informazioni si stava rivelando un vero e proprio rompicapo.

Chi era M.H. Quilcon?

Sembrava ovvio che Quilcon fosse il signor Herald, il banchiere e editore di giornali a tempo perso. I fascicoli del corso per corrispondenza erano certamente usciti dalla sua macchina per scrivere. Le probabilità che due macchine per scrivere avessero gli stessi quattro o cinque difetti nei caratteri erano infinitesime.

E Herald — se era Quilcon — doveva aver scritto quella lettera subito prima o subito dopo la sua visita. Anche quella lettera, in tutta evidenza, era uscita dalla vecchia Woodstock.

C’era qualcosa di affascinante in quell’enigma, e in più la sensazione di un che di sinistro, pensò Jim. Poi scoppiò a ridere, prendendosi in giro per quell’atmosfera da melodramma, e cominciò a rifare la valigia. C’era un treno a mezzanotte con cui poteva ripartire subito per Henderson.

Quando per la seconda volta arrivò a Henderson, era un pomeriggio rovente. L’unico membro del personale della stazione alzò gli occhi sorpreso, quando scese dal treno.

«Di nuovo qui? Credevo ci avesse rinunciato».

«Ho scoperto dove si trova il signor Quilcon. È all’Hortan Machine Works. Mi sa dire con precisione dove si trova?»

«Mai sentita nominare».

«Dovrebbe trovarsi circa due miglia fuori dell’abitato, sulla Balmer Road».

«È la strada principale che prosegue attraverso il distretto di Willow Creek. Li non ci sono fabbriche. Dev’essersi sbagliato di stato, signor mio. Oppure qualcuno la sta prendendo in giro».

«Lei pensa che il signor Herald potrebbe dirmi qualcosa su questa fabbrica di macchine? Voglio dire, lei sa se si occupa di macchine e di tutto ciò che le riguarda?»

«Buon Dio! Al vecchio Herald interssano soltanto i soldi e quel suo piccolo, stupido giornale. Macchinari! Non riuscirebbe ad agganciare niente di più complicato delle sue giarrettiere».

Jim si avviò lungo la strada principale, verso Wollow Creek. La Balmer Road ben presto si restrinse e svoltò, e Henderson ben presto scomparve dietro le alture. Il corso del Willow Creek era un nastro scintillante attraverso una distesa di prati.

Non c’era un posto più improbabile al mondo per una fabbrica di macchinari di qualsiasi genere, pensò Jim. Qualcuno gli stava giocando un incredibile scherzo. Ma in che modo, e perché avessero scelto proprio lui per farlo gli riusciva del tutto inspiegabile.

Ma allo stesso tempo sentiva, dentro di sé, che non era uno scherzo. C’era qualcosa di serio, di ben deciso ed efficace in tutta la faccenda. I principi della coordinazione d’energia suonavano giusti. Aveva sgobbato abbastanza su quelle lezioni per esserne convinto. Sentiva che, adesso, sarebbe stato quasi capace di costruire coi suoi soli mezzi un motore funzionante con la coordinazione d’energia… salvo per il fatto che non sapeva di dove derivasse l’energia. L’aria intorno a lui riverberava la luce del sole, nel silenzio rotto soltanto dal mormorio del ruscello e dal fruscio dei salici accanto ad esso. Jim trovò impossibile valutare il tempo e la distanza.

Si sforzò di fare passi sempre uguali e si mise a contarli finché non fu certo di aver percorso almeno due miglia. Si fermò e si guardò intorno quasi deciso a tornare indietro, riesaminando la strada già fatta.

Guardò davanti a sé. I suoi occhi scrutarono ogni più piccolo dettaglio della prateria tutt’intorno. E poi lo vide.

La luce del sole mandava barbagli come se si riflettesse su una superficie metallica. E in quella chiazza luminosa, appena leggibile per la distanza, c’era una scritta:


HORTAN MACHINE WORKS


Accantonando ogni giudizio sull’incongruità di una fabbrica di macchinari in quell’ambiente pastorale, attraversò il ruscello e s’incamminò attraverso l’erba verso il piccolo rialzo.

Quando fu vicino, la fabbrica parve essere una semplice struttura a forma di cupola, di circa dieci metri di diametro, con una porta aperta su un lato. Si avvicinò ad essa con la mente preparata ad ogni sorpresa. La scritta rozzamente tracciata sopra la porta sembrava opera d’un imbianchino in stato di ebbrezza alcoolica.

Jim entrò in un locale fiocamente illuminato e mise giù la sua valigia sul pavimento, accanto a uno stretto banco che si allungava tutt’intorno alla stanza.

Utensili e altri arnesi di foggia insolita erano appoggiati sul banco e appesi alle pareti. Attese un po’, ma non comparve nessuno.

Poi notò una porta interna e una ripida rampa a spirale che conduceva giù, in un seminterrato. Superò la porta e, un po’ camminando, un po’ scivolando, scese di sotto.

Qui ebbe modo di notare che c’era una illuminazione artificiale dovuta a tubi fluorescenti dal curioso aspetto. Ma ancora non si vedeva segno di anima viva, e non c’era un solo oggetto in quella stanza che gli apparisse familiare. Qua e là erano appoggiati alle pareti strani affari che in modo vago assomigliavano a mobili. Jim si sentì a disagio in tutta quella stranezza e stava per risalire la ripida rampa quando udì una voce.

«Sono il signor Quilcon. È lei, signor Ward?»

«Sì. Lei… dov’è?»

«Mi trovo nella stanza accanto. Non potrò uscire finché non avrò finito un lavoro che ho appena incominciato. Le dispiace proseguire fino al piano inferiore? Laggiù troverà i macchinari danneggiati. La prego di mettersi subito al lavoro. Sono certo che lei capirà subito ciò che va fatto. Io la raggiungerò fra un attimo».

Esitando, Jim si girò verso l’altro lato della stanza dove vide una seconda rampa che portava ancora più in basso, in un locale vividamente illuminato. Si guardò intorno ancora una volta, poi scese la seconda rampa.

Questa nuova stanza aveva il soffitto molto alto e un diametro un po’ maggiore delle precedenti, ed era quasi del tutto occupata dalle macchine.

La principale struttura del motore era formata da alte sagome simili a torrioni metallici disposti a brevi intervalli e con rigonfiamenti bulbo a una certa altezza. Formavano un cerchio compatto, con strette passerelle radiali che passavano tra essi.

Per un lungo attimo Jim sostò a esaminare queste torri, che s’innalzavano fin quasi a sette metri dal pavimento. Tutte le varie parti di quello strano corso per corrispondenza, ogni singolo paragrafo da lui mandato a memoria, parvero scivolare al posto giusto in un singolo, grande mosaico. I diagrammi, i disegni di macchine, che gli erano parsi incomprensibili, ora chiarirono davanti a lui strutture e funzioni. Ora sapeva esattamente a cosa serviva ogni singola parte, e come funzionava l’intero motore. Spremette il suo corpo lungo le strette passerelle che passavano in mezzo alle torri e s’insinuò fino al centro della grande macchina composita. La sua gamba malata gli rese difficile la cosa, ma alla fine raggiunse la struttura danneggiata.

Uno dei tubi si era spaccato, aprendosi sotto un tremendo sforzo, e oltre la fenditura Jim poteva intravedere il prodigioso intrico dei cavi che lo riempivano. Cavi che adesso in buona parte erano bruciati e ridotti a una massa fusa. Il danno era avvenuto in uno dei circuiti di controllo, e ciò bloccava il funzionamento dell’intera macchina, ma Jim sapeva che la riparazione non sarebbe stata difficile.

Scivolò nuovamente fuori dalla grande struttura e trovò i comandi d’un congegno simile a una gru: li azionò e la gru discese fino al tubo spaccato, l’afferrò e portò via il tratto danneggiato.

Jim si avvicinò alle pareti, e da armadietti e cassetti sparsi dovunque prelevò utensili e parti di ricambio; poi tornò al tubo lesionato.

Racchiuso in uno spazio angusto, cominciò a strappar via i cavi bruciati e le parti fuse. Ben presto dimenticò ogni altra cosa, per immergersi tutto, corpo e mente, in quel lavoro, affascinato dalla bellezza e dalla potenza di quel grande motore. Qui, dentro quell’ampio locale, c’era una macchina in grado di fornire, da sola, l’energia necessaria a una grande città.

Il suo funzionamento si basava sul principio delle correnti magnetiche, non più su quelle elettriche. La scoperta delle correnti magnetiche era stata annunciata soltanto pochi mesi prima che lui tornasse a casa dalla guerra. L’applicazione pratica della scoperta era stata fulminea.

E Jim cominciò a intravedere la vera origine dell’energia che alimentava la macchina. Questa risiedeva nelle grandi correnti di forza magnetica e gravitazionale che scorrevano tra i pianeti e i soli dell’universo. Potente quanto l’energia atomica, e altrettanto illimitata nelle sue risorse, essa non richiedeva nessun macchinario tremendamente pericoloso per essere imbrigliata. Il principio del coordinatore d’energia era semplice.

La scomoda, contorta posizione in cui si trovava cominciò a fargli dolere i muscoli, al punto da costringerlo a uscir fuori a distendere le gambe. Mentre sostava, ritto in piedi, accanto al motore, ricominciò a riflettere sullo scopo che quella possente macchina poteva avere, in quella strana località. Perché mai era stato costruito là, e quale uso potevano mai avere le sue energie?

Cominciò a camminare avanti e indietro, per ripristinare la circolazione nelle gambe, e intanto cercò di seguire lo scorrere dell’energia attraverso il motore, per determinare dove, e quanta tensione esso dovesse sopportare.

Le sue ricerche lo condussero ancora più in basso, a un ulteriore livello sotterraneo dell’edificio, e qui trovò ciò che stava cercando, la tensione alla quale la tremenda potenza del motore veniva accoppiata.

Qui, però, si trovò davanti a qualcosa che sfuggiva alla sua comprensione, poiché il generatore di tensione era anch’esso una macchina di strana concezione, e nessuna delle sue caratteristiche era stata trattata dal corso per corrispondenza.

La macchina al piano superiore intercettava le correnti magnetiche dello spazio, selezionando e concentrando quelle che scorrevano in una data direzione.

Poi, l’energia di quelle correnti veniva convogliata nella macchina in questa sala più sotto, ma non c’era nessun punto di reazione contro cui l’energia potesse venir applicata.

A meno che…

La conclusione logica, inevitabile s’impose nella sua mente. C’era un solo punto concepibile di reazione.

Rimase completamente immobile e un fremito lo percorse tutto. Fissò le lisce pareti tutt’intorno. Metalliche, dovunque. E quel locale: era più stretto di quello superiore — come se l’intero edificio avesse la forma d’un fuso, dalla cupola che sporgeva là sopra, dal terreno, fino al pavimento dell’ultimo sotterraneo.

L’unico punto possibile di reazione era l’edificio stesso.

Ma non era un edificio, era un vascello.


Jim risali nella sala del motore, su per la rampa, incespicando e aiutandosi con le unghie, poi proseguì tenacemente fino alla camera sovrastante. Era ormai a metà strada sulla rampa superiore, quando udì un’altra volta la voce.

«È lei, signor Ward? Ho quasi finito e sarò da lei fra un attimo. Ha completato le riparazioni? È stato molto difficile?»

Jim esitò, ma non rispose. C’era qualcosa, nella tonalità di quella voce, che gli dava i brividi. Prima non se n’era accorto, pieno di curiosità come era, e d’interesse per quel posto. Ma adesso avvertiva la qualità ultraterrena di quella voce… inumana.

Capi all’improvviso che non si trattava d’una voce, ma che le parole erano state formate nel suo cervello come se fosse stato lui stesso a pronunciarle. Aveva quasi raggiunto la sommità della rampa e si stava tirando su, carponi, sul pavimento della stanza superiore, quando colse l’ombra della porta che si chiudeva e udì il clangore metallico quando sbatté nell’incorniciatura. La stanza era ermeticamente chiusa, e soltanto le piccole finestre lasciavano passare un po’ di luce.

Si alzò, drizzandosi completamente, e si calmò al pensiero che il vascello non poteva volare. Non poteva ancora decollare, con tutto quel lavoro di riparazione ancora da fare, e lui non aveva nessuna intenzione di finirlo, di questo era fermamente convinto.

«Quilcon!» chiamò. «Si faccia vedere. Chi è lei, e cosa vuole da me?»

«Voglio che lei finisca le riparazioni, e in fretta», rispose all’istante la voce. «E in fretta… devono esser terminate in fretta».

C’era una nota di disperazione e sconforto in quella voce, che cominciava a far effetto su Jim. Poi, egli colse il lieve movimento sulla parete accanto a lui.

In un piccolo emisfero trasparente appeso sulla parete si trovava la lumaca che Jim aveva intravisto nell’ufficio postale, la creatura che la direttrice aveva definito «armadilio». Non l’aveva notata, quand’era entrato per la prima volta nella cupola. Ora la creatura si stava muovendo con lente pulsazioni che rigonfiavano la sua superficie, sulla quale spiccava una rete di linee livide, come un intrico di vene.

Da quel piccolo emisfero dalle sfumature dorate si dipartiva un groviglio di cavi che andavano a strumenti e a scatole di raccordo disseminati per tutto il locale. All’interno dell’emisfero un centinaio di minuscoli pseudopodi stringevano le estremità dei cavi.

Era una nave… e quella lumaca all’interno dell’emisfero era il suo incredibile pilota alieno. Jim lo seppe all’istante, diventando conscio della realtà sgomentante e gelida che gli giungeva in ondate di pensiero da quella lumaca chiamata Quilcon, facendo irruzione nella sua mente. Erano una nave e un pilota giunti da fuori della Terra… dagli sconfinati abissi dello spazio.


«Cosa vuole da me? Chi è lei?» chiese Jim Ward.

«Sono Quilcon. Lei è un buon allievo. Impara bene e subito».

«Cosa vuole da me?»

«Voglio che lei ripari il motore danneggiato».

C’era qualcosa che non andava in quella creatura. Jim lo sentiva, sia pure come qualcosa d’impalpabile. Un’aura d’infermità. Una disperata sollecitazione che finì per invadergli del tutto la mente.

Ma c’era qualcos’altro in primo piano nella mente di Jim. L’orrore causato dalla creatura aliena si attenuò e Jim poté contemplare quel miracolo che era giunto fin qui, all’umanità.

«Farò un patto con lei», disse con calma. «Mi dica come costruire una nave come questa, ed io riparerò il motore per lei».

«No, no! Non c’è tempo per questo. Devo fare in fretta…»

«Allora me ne andrò e non farò più nessuna riparazione».

Si avviò verso la porta, ma subito fu afferrato da un’onda paralizzante, come se avesse stretto in mano due elettrodi carichi. La morsa si rilassò soltanto quando arretrò dalla porta.

«Il mio potere è debole», disse Quilcon, «ma ancora per molti giorni sarà forte abbastanza per questo. Troppi, perché lei possa sopravvivere senza cibo e acqua. Ripari il motore, e io la lascerò andare».

«Quello che le chiedo è un prezzo troppo alto da pagare, per avere il mio aiuto?»

«Lei è stato pagato abbastanza. Può insegnare alla sua gente a costruire macchine a coordinamento d’energia. Non è sufficiente?»

«La mia gente vuol costruire motori come questo e viaggiare nello spazio».

«Questo non glielo posso insegnare. Non so farlo. Non sono stato io a costruire questa nave».

La sua mente fu spazzata da impetuose ondate di pensieri turbati, ma la tensione si acquietò in lui. Il primo timore che aveva provato davanti a una vita totalmente aliena lasciò la sua mente, e Jim provò una strana affinità con quella creatura. Era ferita e malata, questo l’aveva capito, ma non riusciva a credere che non sapesse com’era costruita la nave.

«Coloro che hanno costruito questa nave vengono spesso a commerciare sul mio pianeta», spiegò Quilcon. «Ma noi non possediamo navi come questa. La maggior parte di noi non desidera altro che passar la propria vita tra le caverne umide e le spiagge soleggiate del nostro mondo, ma io ardevo dal desiderio di vedere gli altri mondi, quelli da cui queste navi venivano.

«Quando questa nave atterrò vicino alla mia caverna, vi strisciai dentro e mi nascosi. Poi la nave decollò, e viaggiò per un tempo lunghissimo. Finché un giorno un guasto al motore uccise tutti e tre gli operatori della nave ed io rimasi solo.

«Anch’io rimasi ferito, ma non ucciso. Morì soltanto l’altro di me».

Jim non comprese quest’ultima, strana frase, ma non interruppe la storia di Quilcon.

«Fui in grado di elaborare dei mezzi per controllare il volo della nave», questi proseguì, «e di atterrare sul vostro pianeta senza distruggerla. Ma non potevo ripararla a causa della natura del mio corpo».

Allora Jim capì che la storia della creatura doveva esser vera. Era ovvio che quella nave era stata costruita per essere impiegata da creature del tutto diverse da Quilcon.

«Esplorai la vostra città più vicina e appresi il vostro modo di vivere e i vostri costumi. Mi serviva l’aiuto di uno di voi per riparare la nave. Avrei potuto indurre con la forza uno di voi a svolgere i compiti più semplici, ma non certo le operazioni più complesse che la riparazione richiede.

«Poi, scoprii quel curioso modo d’imparare in uso tra voi. Costrinsi l’uomo Herald a preparare il materiale e a spedirlo a lei. E m’impadronivo delle lettere di risposta prima che quella persona all’ufficio postale potesse vederle. Mi ero procurato il suo nome dai giornali, insieme a quello di molti altri che risultarono insoddisfacenti.

«Dovevo insegnarle a capire a fondo il coordinatore d’energia, giacché soltanto usando volontariamente le sue più alte facoltà mentali, lei sarebbe staio in grado di afferrare ogni singolo particolare della sua struttura ed eseguire le riparazioni. Io posso assisterla, ma non costringerla a farlo».

La creatura ricominciò a pregarlo: «E adesso, vuole affrettarsi a riparare il motore?… Sto morendo, ma vivrò più a lungo di lei… è un lungo viaggio fino al mio pianeta natio, ma devo arrivarci e ho bisogno d’ogni istante che ancora mi rimane».

Jim colse per un attimo una visione… quasi un sogno… Il mondo natio della creatura. Un mondo di sicurezza e di pace… secondo il punto di vista di Quilcon. Ma neppure l’estraneità di quel mondo riuscì a cancellare del tutto la sensazione di tranquilla bellezza che la mente di Quilcon trasmetteva a quella di Jim. Essi, Quilcon e la sua gente, erano una specie molto intelligente. Avevano sviluppato a livelli eccezionali le leggi della matematica e le teorìe della logica, ma l’esiguità del loro sviluppo corporeo aveva loro impedito d’indagare in altri campi della scienza la cui esistenza era stata dimostrata alle loro menti proprio dalla logica e dalla matematica che avevano elaborato. I più ricchi d’intelligenza fra loro erano creature frustrate la cui esistenza era resa tollerabile soltanto da un’infinita capacità di stoico adattamento.

Ma di tutti loro, Quilcon era fra i più inquieti, ribelli e ambiziosi. Nessuno di loro aveva mai osato intraprendere un viaggio come il suo. Un’ondata di pietà e di comprensione s’irradiò da Jim Ward.

«Farò un patto con lei», esclamò Jim, fremente e affannato. «Riparerò il motore se lei mi insegnerà i principi del suo funzionamento. Se lei non li possiede, adesso, se li potrà procurare senza grandi difficoltà. La mia gente deve avere una nave come questa».

Cercò di visualizzare nella propria mente cosa avrebbe significato per la Terra possedere il volo spaziale un secolo… o addirittura cinque secoli prima che il lento avanzare della scienza e della tecnica umane lo rendesse possibile.

La creatura continuò a tacere.

Poi infine parlò. «Farò un patto con lei», disse Quilcon. «Lasci che io sia l’altro di lei, e le darò ciò che vuole».

«L’altro di me? Di che cosa sta parlando?»

«Per lei è difficile capire. Si tratta d’un unione… come quella che facciamo nel nostro mondo. Quando due o più di noi vogliono essere insieme, noi andiamo insieme nello stesso cervello, lo stesso corpo. Adesso io sono solo, ed è un’esistenza insopportabile poiché ho conosciuto cosa voglia dire avere un altro di me».

«Lasci che entri stabilmente nel suo cervello, nella sua mente, e che viva lì con lei. Insegneremo al suo e al mio popolo. Porteremo questa nave in tutti gli universi che le creature viventi possono sognare. O così, o moriremo insieme entrambi, poiché è passato troppo tempo perché io possa tornare al mio mondo. Questo mio corpo sta morendo».

Stupefatto dall’ultimatum di Quilcon, Jim Ward fissò quella brutta lumaca là sulla parete. Il suo corpo bruno pulsava, scosso da violente pulsazioni di dolore, e Jim sentì emanare da esso una sensazione di delirio e terrore crescenti.

«Presto! Lasci che venga lì da lei!» implorò la creatura.

Jim avverti una sensazione… come se delle dita gli stessero sondando il cranio, cercando, implorando di poter entrare. Si sentì raggelare. S’immaginò gli anni futuri, e pensò a un’esistenza con questa mente aliena dentro la sua. Le due menti avrebbero forse lottato per la conquista definitiva del suo corpo, e lui sarebbe forse finito schiavo nel proprio cadavere vivente…

Cercò di sondare i pensieri di Quilcon, ma non riuscì a trovare nessuna sensazione, nessun intento di conquista. C’erano invece gradevolezze quasi umane intrecciate a un nuovo mondo di scienza e pensiero.

Seppe che Quilcon avrebbe mantenuto la promessa di consegnare agli uomini della Terra i segreti di quella nave. Già questo, da solo, sarebbe valso il prezzo del suo sacrificio… sempre che di sacrificio si trattasse.

«Vieni!» Fu un invito pacato.

Fu come se un torrente di luce liquida fluisse nel suo cervèllo. Fu accecante, straziante nella sua intensità. Gli parve di sentire, più che vedere, l’involucro bruno di Quilcon che tremolava dentro l’emisfero trasparente, per poi raggrinzirsi fino a sembrare una piccola noce marrone.

Ma nella sua mente c’era adesso l’unione, e Jim si soffermò ad assaporare, tremando all’improvvisa, indicibile realtà, la nuova conoscenza. Seppe cos’era Quilcon, e la gioia zampillò dentro di lui ancor più avida di quella luce abbagliante. Un pensiero fiorì nel suo cervello: il sesso sta forse soltanto nella diversità delle funzioni corporee, nella grana della pelle e nel tono della voce?

Riandò col ricordo a un altro giorno… quando il cielo e la terra sottostante erano pieni di morte, e anche un piccolo ospedale da campo. Una figura pallida, distesa su una branda, aveva mormorato: «Starai bene, Jim. Io vado… avanti, credo, ma tu starai bene. Lo so. Non sentire troppo la mia mancanza».

Si era convinto che per lui non ci sarebbe stata più pace, ma adesso c’era di nuovo pace in lui, e la voce di Quilcon era come quella voce, di tanto tempo prima, poiché man mano la creatura sondava i suoi pensieri, la sua innata capacità accordò sentimenti e pensieri alieni con quelli d’un terrestre, e infine disse: «Ora, tutto è a posto, Jim Ward?»

«Sì… sì, è proprio così». L’intensità dei sentimenti che erompevano in lui quasi l’accecò. «Ed io voglio chiamarti Ruth, come un’altra Ruth…»

«Mi piace questo nome». La sua voce aveva una punta di timidezza, mentre esprimeva il suo gradimento. E Jim non trovò affatto strano il fatto di non poter vedere il suo interlocutore, poiché nella sua mente c’era una visione molto più bella di quanto avrebbe potuto essere una concreta immagine terrestre.

«Avremo tutto», disse. «Tutto ciò che il tuo mondo e il mio possono offrire. E vedremo tutti gli altri mondi».

Ma, com’era stata così pratica l’altra Ruth, anche questa lo era. «Prima di tutto dobbiamo riparare il motore. Vogliamo farlo, adesso?»

La figura solitaria di Jim Ward si riscosse. Si avviò verso la rampa a spirale e nuovamente scomparve nelle profondità della nave.

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