Carolyn Janice Cherryh Cassandra

I fuochi.

Lì erano diventati insopportabili.

Alis cercò a tentoni la porta dell’appartamento: sapeva che era solida. Toccò il metallo fresco della maniglia tra le fiamme… tra il fumo che vorticava fuori vide le scale-ombra, abbastanza chiaramente per poterle scendere convincendo i propri sensi che avrebbero sostenuto il suo peso.

Pazza Alis. Non si muoveva in fretta. I fuochi ardevano costanti. Li attraversò, scese i gradini incorporei fino al pianterreno solido… non sopportava l’ascensore, quello spazio chiuso con il pavimento-ombra, che scendeva e scendeva precipitosamente; raggiunse il piano terreno e distolse gli occhi dalle rosse fiamme senza calore.

Un fantasma le disse buongiorno… il vecchio Willis, magro e trasparente sullo sfondo delle fiamme che lingueggiavano. Lei batté le palpebre, rispose al saluto… e non le sfuggì la scrollata di testa del vecchio Willis quando aprì la porta e uscì. Fuori scorreva il traffico di mezzogiorno, noncurante delle fiamme, delle carcasse che bruciavano per la strada, dei muri che crollavano.

Anche l’appartamento crollò… i mattoni neri piombarono in quell’inferno. Un inferno tra gli spettrali alberi verdi. Il vecchio Willis fuggiva bruciando, cadeva… si trasformava in una massa di carne annerita e sussultante… moriva, ogni giorno. Alis non gridava più, trasaliva appena. Ignorò l’orrore che la circondava, passò tra i mattoni sgretolati che non avevano sostanza, tra i fantasmi indaffarati e frettolosi che non volevano essere disturbati.

Il Kingsley’s Cafe era intero, più del resto. Era il rifugio per il pomeriggio, una sensazione di sicurezza. Alis spinse la porta, sentì tintinnare un campanello perduto. I clienti fantasma la guardarono bisbigliando.

Pazza Alis.

I bisbigli la turbavano. Evitò le loro occhiate e la loro presenza, sedette in un separé nell’angolo, dove c’erano soltanto poche tracce del fuoco.

GUERRA, diceva a caratteri cubitali il titolo del giornale nel distributore automatico. Alis rabbrividì e alzò lo sguardo verso il viso spettrale di Sam Kingsley.

— Caffè — disse. — Sandwich al prosciutto. — Era sempre così. Lei non cambiava mai l’ordinazione. Pazza Alis. Era la sua malattia mentale a mantenerla. Ogni mese arrivava un assegno, da quando l’ospedale l’aveva dimessa. Ogni settimana tornava all’ambulatorio, dai dottori che adesso erano ombre come gli altri. L’ambulatorio bruciava intorno a loro. Il fumo ondeggiava nei corridoi celesti e asettici. La settimana prima un paziente era fuggito… avvolto dalle fiamme…

Un tintinnio di porcellana. Sam posò il caffè sul tavolino, e poco dopo tornò e portò il sandwich. Alis chinò la testa e mangiò il cibo trasparente sul piatto sbreccato; la tazza era incrinata e macchiata dal fuoco, e il manico si vedeva appena. Mangiò: la fame era abbastanza forte per vincere l’orrore ormai abituale. Viste cento volte, le scene più terribili avevano perduto il loro potere su di lei: adesso non gridava più alle ombre. Parlava ai fantasmi e li toccava, mangiava il cibo che bene o male calmava gli stimoli tormentosi dello stomaco, portava lo stesso maglione nero troppo largo e la logora camicetta blu e i calzoni grigi perché erano gli unici capi d’abbigliamento che sembravano solidi. Ogni sera li lavava e li asciugava, e l’indomani mattina li indossava, lasciando gli altri appesi nell’armadio. Erano gli unici che fossero solidi, veramente.

Queste cose non le diceva ai dottori. Un’intera vita passata dentro e fuori dagli ospedali l’aveva dissuasa dal confidarsi. Sapeva che cosa dire. La vista parziale le permetteva di sorridere alle facce fantasma, di manipolare astutamente i loro diagrammi e le loro carte mentre stava seduta fra le rovine che avevano incominciato a spegnersi nel tardo pomeriggio. Nel corridoio giaceva un cadavere carbonizzato. Lei non rabbrividiva quando sorrideva gentilmente al dottore.

Le davano le medicine. Le medicine fermavano i sogni, gli ululati delle sirene, i passi precipitosi nella notte davanti al suo appartamento. Le permettevano di dormire nel letto spettrale, in alto fra le rovine, tra le fiamme che crepitavano e le voci che urlavano. Lei non parlava di queste cose. L’aveva imparato in quei lunghi anni negli ospedali. Si lagnava soltanto degli incubi e dell’irrequietezza, e loro le davano altre compresse rosse.

GUERRA, diceva il titolo del giornale.

La tazza tremò e tintinnò sul piattino, quando la prese. Inghiottì l’ultimo boccone di pane e bevve il caffè, cercando di non guardare oltre la vetrina sfondata, dove carcasse di metallo contorto fumavano sulla strada. Rimase, come faceva tutti i giorni, e Sam le riempì borbottando la tazza di caffè che lei avrebbe fatto durare il più a lungo possibile prima di ordinarne un’altra. Alis la sollevò, assaporando il contatto e dominando il tremito delle mani.

Il campanello tintinnò. Un uomo chiuse la porta e andò al banco.

Era integro, nitido ai suoi occhi. Alis lo fissò, stupita, con il cuore che le batteva forte. L’uomo ordinò un caffè, andò al distributore automatico a prendere un giornale, tornò a sedersi e lasciò che il caffè si freddasse mentre leggeva le notizie. Alis lo vedeva di spalle: la giacca di pelle marrone sciupata, i capelli bruni che arrivavano fin quasi al colletto. Finalmente bevve il caffè ormai freddo, tutto d’un fiato, mise il denaro sul banco e lasciò il giornale, con il titolo coperto.

Una faccia giovane, in carne e ossa tra i fantasmi. L’uomo li ignorò tutti e si avviò verso la porta.

Alis uscì dal separé.

— Ehi! — le gridò Sam.

Alis frugò nella borsetta mentre il campanello tintinnava, e buttò sul tavolo una banconota, senza attendere il resto sebbene fosse da cinque dollari. La paura le aveva messo in bocca un sapore di rame; l’uomo era andato via. Corse fuori dal caffè, girò intorno alle macerie senza riflettere, vide l’uomo che spariva tra i fantasmi.

Lo rincorse, facendosi largo a spallate, sfidando le fiamme… gridò mentre le macerie le grandinavano addosso senza farle male, e continuò a correre.

Molti spettri si voltarono a guardarla, scandalizzati… lui fece altrettanto, ed Alis gli corse incontro, sbalordita nel vedere la stessa espressione sulla sua faccia.

— Cosa c’è? — chiese l’uomo.

Alis sbatté le palpebre, stordita dalla scoperta che l’uomo non la vedeva in modo diverso dagli altri. Non riuscì a rispondergli. Irritato, l’uomo riprese a camminare ed Alis lo seguì. Le lacrime le scorrevano sul viso e respirava a fatica. La gente la guardava. L’uomo si accorse della sua presenza e allungò il passo, tra le macerie, tra le fiamme. Un muro incominciò a crollare ed Alis urlò, nonostante tutto.

L’uomo si girò di scatto. La polvere e la fuliggine si alzarono dietro di lui come una nube. Aveva un’espressione sconvolta e incollerita. La guardava come la guardavano gli altri. Le madri trascinavano via i bambini. Un gruppo di ragazzotti si fermò ridendo.

— Aspetti — disse Alis. L’uomo aprì la bocca come se volesse imprecare; lei rabbrividì e le sue lacrime si raffreddarono nel vento insensibile degli incendi. La faccia dell’uomo assunse un’espressione di pietà imbarazzata. Si mise una mano in tasca, tirò fuori un po’ di denaro, in fretta, cercò di darglielo. Lei scrollò la testa, furiosamente, tentando di arrestare le lacrime… guardò verso l’alto e tremò mentre un altro palazzo crollava tra le fiamme.

— Cosa c’è? — chiese l’uomo. — Che cos’ha?

— Per favore — disse Alis. L’uomo girò gli occhi sugli spettri che li guardavano, poi riprese a camminare lentamente. Lei gli si affiancò, imponendosi di non gridare nel vedere quelle rovine, le figure pallide che vagavano attraverso i gusci bruciati degli edifici, i cadaveri contorti in mezzo alla strada, dove si snodava il traffico.

— Come si chiama? — chiese l’uomo. Alis glielo disse. Ogni tanto lui la guardava mentre camminavano, e aggrottava la fronte. Aveva una faccia sciupata per la sua età, e una piccola cicatrice vicino alla bocca. Sembrava più vecchio di lei. Il modo in cui la guardava la metteva a disagio, ma decise di accettarlo… di sopportare qualunque cosa pur di avere accanto quell’unica presenza solida. D’impulso, gli insinuò la mano nell’incavo del gomito, strinse le dita sulla pelle logora. L’uomo la lasciò fare.

E dopo un po’ le passò il braccio intorno alla vita, e proseguirono camminando come due innamorati.

GUERRA, gridava il titolo del giornale, all’edicola.

L’uomo fece per svoltare in una strada, all’angolo del Tenny’s Hardware. Alis esitò, quando vide quello che c’era là. L’uomo si fermò appena se ne rese conto, si girò verso di lei, voltando le spalle agli edifici che bruciavano.

— Non vada là — disse Alis.

— Dove vuole andare?

Lei alzò le spalle, rassegnata, indicò la strada principale.

Allora l’uomo incominciò a parlarle, come se fosse una bambina, per placare le sue paure. Lo faceva per pietà. Certuni la trattavano così. Lei se ne accorse e accettò anche quello.

Si chiamava Jim. Era venuto in città il giorno prima, facendo l’autostop. Cercava lavoro. Non conosceva nessuno. Alis ascoltò la sua loquacità impacciata. Quando lui ebbe finito, continuò a fissarlo, e vide la sua faccia contrarsi in un’espressione di sgomento.

— Non sono pazza — disse Alis, ed era una menzogna, perché a Sudbury tutti sapevano, ma lui non sapeva perché non conosceva nessuno. Il viso era vero e solido, e la piccola cicatrice accanto alla bocca lo rendeva più duro, quando rifletteva; in un altro momento Alis avrebbe avuto paura di lui. Ora aveva paura soltanto di perderla tra i fantasmi.

— È la guerra — disse lui.

Alis annuì, sforzandosi di guardare l’uomo e non gli incendi. Jim le toccò il braccio, gentilmente. — È la guerra — ripeté. — È tutto pazzesco. Sono impazziti tutti.

E poi le posò la mano sulla spalla, e la fece voltare nell’altra direzione, verso il parco dove le foglie verdi ondeggiavano sopra i rami neri e scheletriti. Passeggiarono lungo il laghetto, e per la prima volta dopo molto tempo lei respirò liberamente e si sentì accanto una presenza reale e razionale.

Comprarono il pop-corn e sedettero sull’erba in riva al lago e lo gettarono ai cigni spettrali. I fantasmi dei passanti erano pochi, quei tanti che bastavano per mantenere un senso di frequentazione in quel luogo… quasi tutti anziani che facevano le solite cose con voluta tranquillità nonostante i titoli dei giornali.

— Li vede? — si azzardò finalmente a chiedere Alis. — Tutti rarefatti e grigi?

Jim non capì, non la prese alla lettera, e alzò le spalle. Per prudenza, Alis non insistette. Si alzò e guardò l’orizzonte, dove il fumo si sollevava nel vento.

— Posso invitarti a cena? — chiese lui.

Alis si voltò, preparata, e riuscì a rispondere con un sorriso timido e disperato. — Sì, — disse. Sapeva che altro intendeva pagarsi, lui, oltre alla cena… ed era disposta ad accettare, e si detestava per questo, e aveva una paura disperata che lui se ne andasse, quella sera, l’indomani. Non conosceva gli uomini. Non sapeva cosa poteva dire o fare per impedire che se ne andasse: sapeva soltanto che un giorno se ne sarebbe andato, quando si fosse accorto che era pazza.

Persino i suoi genitori non ce l’avevano fatta a sopportarla… all’inizio erano andati a trovarla negli ospedali, e poi c’erano andati soltanto i giorni festivi, e poi non s’erano più fatti vedere. Alis non sapeva dove fossero.

Un ragazzetto del vicinato era morto annegato. Lei l’aveva detto, che sarebbe annegato. L’aveva gridato. E tutti, in città, avevano detto che era stata lei a spingerlo.

Pazza Alis.

È affetta da fantasie, dicevano i medici. Non è pericolosa.

— L’avevano lasciata andare. C’erano scuole speciali, scuole dello stato.

E di tanto in tanto… gli ospedali.

I tranquillanti.

Alis aveva lasciato a casa le compresse rosse. Quando se ne accorse, le sudarono le palme delle mani. Quelle compresse portavano il sonno. Bloccavano i sogni. Strinse le labbra per dominare il panico e decise che non ne aveva bisogno… non ne avrebbe avuto bisogno perché non era sola. Passò la mano sotto il braccio di Jim e camminò al suo fianco, sicura e stranita, su per i gradini che portavano dal parco alle strade.

Si fermò.

I fuochi erano spenti.

Gli edifici spettrali s’innalzavano sopra i loro gusci schiantati e privi di finestre. I fantasmi si muovevano tra le masse delle macerie, e a volte erano quasi invisibili. Jim cercò di sospingerla, ma lei vacillò; la guardò in modo strano, allora, e la cinse con un braccio.

— Tremi — le disse. — Hai freddo?

Alis scosse la testa, cercò di sorridere. I fuochi erano spenti. Si sforzò d’interpretarlo come un buon auspicio. L’incubo era finito. Alzò lo sguardo verso quel viso solido e preoccupato, e il suo sorriso divenne quasi una risata folle.

— Ho fame — disse.


Indugiarono lungamente a cena da Graben’s… lui con la giacca sciupata, lei con il maglione sformato; gli avventori spettrali vestivano molto meglio, e li fissavano; i camerieri li avevano fatti sedere in un angolo vicino alla porta, dov’erano meno visibili. C’erano cristalli incrinati e piatti rotti sui tavoli incorporei, e le stelle ammiccavano fredde nello squarcio sopra lo scintillio pallido dei lampadari spezzati.

Rovine: fredde, pacifiche rovine.

Alis si guardò intorno, calma. Si poteva vivere tra le rovine, purché i fuochi non ci fossero più.

E c’era Jim che le sorrideva senza un’aria di pietà, ma solo con un’aria di disperazione un po’ folle che lei capiva… Jim che stava spendendo da Graben’s più di quanto poteva permettersi, in quel ristorante che lei non aveva mai sperato di vedere all’interno… Jim che le diceva, prevedibilmente, che era bella. L’avevano detto anche altri. Alis provava un vago risentimento nel sentire quelle parole banali da lui… lui, di cui aveva deciso di fidarsi. Gli sorrise con tristezza, quando Jim lo disse, e poi aggrottò la fronte e quindi, temendo di offenderlo con le sue malinconie, sorrise di nuovo.

Pazza Alis. Lui l’avrebbe scoperto e se ne sarebbe andato quella notte stessa, se non fosse stata prudente. Cercò di fingersi allegra, si sforzò di ridere.

E poi nel ristorante la musica s’interruppe, e gli altri avventori smisero di colpo di parlare, e l’altoparlante diede un annuncio vano.

Ai rifugi… ai rifugi… ai rifugi.

Grida. Urla. Sedie rovesciate.

Alis si abbandonò inerte sulla seggiola, sentì la mano fredda e solida di Jim afferrare la sua, vide la faccia spaventata, la bocca che si muoveva chiamandola per nome. Lui la prese fra le braccia, la tirò a sé e si mise a correre.

Fuori l’aria fredda la investì, ed Alis vide di nuovo le rovine, le figure fantasma correvano verso il caos dove gli incendi erano stati più furiosi.

E comprese.

— No! — gridò, tirandogli il braccio. — No! — ripeté, mentre la gente appena intravvista passava intorno a loro e li urtava, in una fuga verso l’annientamento. Jim cedette alla sua certezza improvvisa, le strinse la mano e fuggì con lei controcorrente, mentre le sirene ululavano all’impazzata nella notte… fuggì con lei mentre correva lungo il percorso conosciuto tra le rovine.

Entrarono da Kingsley’s, dove i tavoli erano abbandonati, i piatti dimenticati, le porte socchiuse, le sedie rovesciate. Entrarono nella cucina e scesero nelle cantine, al buio e al freddo, al sicuro dalle fiamme.

Nessun altro li raggiunse. Finalmente la terra tremò, troppo profondamente perché si udisse un suono. Le sirene tacquero e non si fecero più sentire.

Rimasero distesi nel buio, stringendosi e tremando, e sopra di loro infuriò per ore ed ore il rombo degli incendi, e a volte il fumo penetrava e pungeva gli occhi e le narici. C’erano gli scrosci lontani dei muri che crollavano, rombi che squassavano il suolo: poi vennero più vicino, ma non toccarono il loro rifugio.

E alla mattina, quando nell’aria c’era ancora l’odore delle fiamme, risalirono nella luce fosca del giorno.

Sulle rovine aleggiava il silenzio. Gli edifici spettrali adesso erano solidi, ridotti a gusci vuoti. I fantasmi erano scomparsi. Soltanto i fuochi erano strani, alcuni veri, altri no, e lingueggiavano sopra i mattoni scuri e freddi, e quasi tutti si andavano estinguendo.

Jim imprecò sottovoce, più volte, e pianse.

Quando Alis lo guardò aveva gli occhi asciutti, perché da molto tempo non aveva più lacrime.

E lo ascoltò mentre lui parlava di procurarsi viveri e di lasciare la città, loro due insieme. — D’accordo — disse Alis.

Poi contrasse le labbra, chiuse gli occhi per non scorgere ciò che gli vedeva in faccia. Quando li riaprì vide che era ancora vero: la trasparenza improvvisa, l’ondata di sangue. Alis tremò, e Jim la scosse, con un’espressione angosciata sul viso spettrale.

— Cosa c’è? — chiese lui. — Cosa c’è?

Non poteva dirglielo, non voleva. Ricordava il ragazzo che era annegato, ricordava gli altri spettri. All’improvviso si svincolò da lui e fuggì via, nel labirinto delle macerie che, questa mattina, erano solide.

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