Terry Pratchett Il tristo mietitore

La danza moresca è comune in tutti i mondi abitati del multiverso.

Si danza sotto il cielo sereno per celebrare il risveglio della terra, e sotto le stelle perché è primavera e con un po’ di fortuna l’anidride carbonica si scongelerà. A sentire l’impulso di danzare sono le creature dei fondali marini che non hanno mai visto il sole, così come gli esseri umani urbanizzati il cui unico contatto con la natura è stato quella volta in cui hanno messo sotto una pecora con la Volvo.

Danzano innocentemente giovani matematici dalla barba incolta accompagnati da un’inesperta fisarmonica che suona L’inquilino della comare, e danzano spietatamente uomini del calibro dei Ninja della Moresca di Nuova Ankh, che sono in grado di fare cose bizzarre e terribili con un fazzoletto e una campanella.

Nessuno danza mai come si deve.

Tranne nel Mondo Disco, che è piatto e sostenuto dal dorso di quattro elefanti che viaggiano nello spazio sul guscio della Grande A’Tuin, la tartaruga del mondo.

E anche lì, il giusto modo di danzare lo trovi solo in un posto. È un piccolo paese sulle Ramtop Mountains, dove il grande, semplice segreto si tramanda da generazioni.

Là gli uomini danzano il primo giorno di primavera, indietro e avanti, con le campanelle legate sotto le ginocchia, sventolando i fazzoletti bianchi. La gente va a vederli. Dopo si mangia arrosto di bue, e di solito è l’occasione per una bella gita in famiglia.

Ma non è quello il segreto.

Il segreto è l’altra danza.

E quella non si vedrà per un po’.


C’è un ticchettio, come di un orologio. E in effetti in cielo c’è un orologio, e propaga il ticchettio di secondi nuovi di zecca.

O perlomeno sembra un orologio. Ma in realtà è esattamente l’opposto di un orologio, e la lancetta più lunga fa un solo giro.

C’è una pianura sotto il cielo scuro. È coperta di dolci curve che possono ricordare qualcos’altro se viste da una grande distanza, e in effetti se le si vede da una grande distanza si può solo essere contenti di trovarsi, appunto, a una grande distanza.

Tre sagome grigie fluttuavano sulla pianura. Definire cosa fossero esattamente non si può, nel linguaggio comune. Qualcuno potrebbe chiamarli cherubini, anche se in loro non c’era traccia di guance rosa. Potevano essere annoverati fra coloro che badano a che la gravità funzioni e che il tempo resti separato dallo spazio. Chiamateli revisori della realtà.

Conversavano senza parlare. Non ne avevano bisogno. Si limitavano a cambiare la realtà in modo da aver già parlato.

Uno disse: Non è mai successo prima Ma si può fare?

Uno disse: Dovrà essere possibile. C’è una personalità. E le personalità non sopravvivono. Solo le forze durano.

Lo disse con una certa soddisfazione.

Uno disse: Oltretutto… ci sono state irregolarità. Dove c’è una personalità, ci sono irregolarità. È risaputo.

Uno disse: Ha lavorato in modo non efficiente?

Uno disse: No. Su questo non possiamo dirgli nulla.

Uno disse: Ecco qual è il punto. La parola gli. Assumere una personalità è di per inefficiente. E non vogliamo che questa cosa si diffonda. E se per esempio i fulmini decidessero di fare lo stesso? E magari decidono che la gente gli piace?

Uno disse: Come in un colpo di fulmine?

Uno disse, con un tono che sarebbe stato ancora più freddo se non fosse stato già allo zero assoluto: No.

Uno disse: Scusate. Ho solo fatto una battuta.

Uno disse: E poi, a volte riflette sul suo lavoro. Speculazioni pericolose.

Uno disse: Non c’è dubbio.

Uno disse: Siamo d’accordo, perciò?

Uno, che sembrava riflettere su qualcosa, disse: Un momento. Non avete appena usato il verbo alla prima persona singolare? Non vi starà mica venendo una personalità?

Uno disse, colpevole: A chi? A noi?

Uno disse: Dove c’è personalità, c’è discordia.

Uno disse: Sì, sì. Molto vero.

Uno disse: Sta bene. Ma attenzione.

Uno disse: Allora siamo d’accordo?

Guardarono il volto di Azrael, che si stagliava contro il cielo. In effetti era il cielo.

Azrael annuì lentamente.

Uno disse: Molto bene. Dov’è questo posto?

Uno disse: È il Mondo Disco. Corre nello spazio sul dorso di una tartaruga gigante.

Uno disse: Ah, un mondo di quel genere. Io li odio.

Uno disse: L’avete rifatto. Avete detto ‘io’.

Uno disse: No, non è vero! Io non ho detto… oh, merda…

Prese fuoco e bruciò, come brucia una nuvola di vapore, in fretta e senza lasciare tracce. Quasi immediatamente ne apparve un altro, identico al fratello svanito.

Uno disse: Che ci serva da lezione. Assumere una personalità significa la fine. E ora… andiamo.

Azrael li guardò fluttuare via.

È difficile immaginare i pensieri di una creatura così grande che, nello spazio reale, il suo corpo sarebbe misurato solo in termini di velocità della luce. Ma rigirò la sua enorme massa e, con occhi nei quali potevano perdersi le stelle, cercò tra le miriadi di mondi uno che fosse piatto.

Sul dorso di una tartaruga. Il Mondo Disco… mondo e specchio di mondi.

Sembrava interessante. E nella sua prigionia di un miliardo di anni, Azrael si annoiava E questa è la stanza in cui il futuro si riversa nel passato, attraverso il batter d’occhi dell’adesso.

Lungo le pareti sono allineati dei segnatempo. Non clessidre, anche se ne hanno la forma. Non dei contaminuti da cucina, come quelli che si comprano nelle località di villeggiatura, con il nome della città dipinto allegramente sopra da qualcuno con lo stesso senso estetico di un bombolone alla crema.

Non c’è nemmeno della sabbia dentro. Ci sono dei secondi, che trasformano incessantemente il forse nell’è stato.

Ogni segnatempo ha un nome sopra.

E la stanza è piena del flebile fruscio delle persone che vivono.

Immaginate la scena…

E ora aggiungete il secco ticchettio, sempre più vicino, di ossa sulla pietra.

Una sagoma scura attraversa il campo visivo e si muove lungo gli infiniti scaffali di clessidre fruscianti. Click, click. Eccone una con il bulbo superiore quasi vuoto. Delle dita ossee si sollevano e toccano. Una, poi un’altra. Altre ancora. Molte, moltissime. Questa, questa.

Una giornata di lavoro. Se qui esistessero le giornate.

Click, click. La sagoma scura si sposta con pazienza lungo le file.

Si ferma.

Ed esita.

Perché c’è un piccolo segnatempo d’oro, non più grande di un orologio.

Ieri non c’era, o non ci sarebbe stato, se qui ‘ieri’ avesse un senso.

Le ossa si chiudono sull’oggetto e lo tengono alla luce.

C’è un nome sopra, in piccoli caratteri maiuscoli.

Il nome è MORTE.

Morte mette giù il segnatempo, poi lo riprende. Le sabbie del tempo scorrevano già. Provò a girarlo, tanto per fare un esperimento. La sabbia continuò a scorrere, solo che stavolta andava all’insù. Non si era aspettato niente di diverso.

Voleva dire che, se fosse esistito un domani, non ci sarebbe stato. Mai più.

Ci fu un movimento nell’aria alle sue spalle.

Morte si voltò lentamente e si rivolse alla figura che fluttuava indistinta nella penombra.

PERCHÉ?

La figura glielo disse.

MA QUESTO… NON È GIUSTO.

La figura disse che no, era giusto.

Nel volto di Morte non si mosse un muscolo, visto che non ne aveva.

FARÒ RICORSO.

La figura disse che proprio lui doveva sapere che non c’erano ricorsi. Mai. Non potevano esserci.

Morte ci pensò su, poi disse:

HO SEMPRE FATTO IL MIO DOVERE COME RITENEVO NECESSARIO.

La figura si avvicinò. Assomigliava vagamente a un monaco incappucciato in grigio.

Disse: Lo sappiamo. Per questo ti lasciamo tenere il cavallo.


Il sole era vicino all’orizzonte.

Sul Disco, le creature dalla vita più breve erano le efemere, che raggiungevano appena le ventiquattro ore. Due delle più anziane zigzagavano senza meta sulle acque di un torrente di trote, parlando di storia con alcuni membri più giovani della schiusa serale.

«Non c’è più il sole di una volta» disse una di loro.

«Hai proprio ragione. Nelle vecchie ore avevamo un sole come si deve. Mica questa roba rossa».

«Ed era pure più alto».

«Vero. Verissimo».

«E le ninfe e le larve avevano un minimo di rispetto».

«Parole sante» disse l’altra efemera con veemenza.

«Secondo me se le efemere si comportassero meglio in queste ore, avremmo ancora un sole come si deve».

Le efemere più giovani ascoltavano educatamente.

«Mi ricordo» disse una delle anziane, «quando qui era tutta campagna, a perdita d’occhio».

Le più giovani si guardarono intorno.

«È ancora campagna» azzardò una, dopo una pausa di cortesia.

«Mi ricordo quando era una campagna migliore» disse la più anziana in tono tagliente.

«Esatto» disse la sua collega. «E c’era una mucca».

«Precisamente! Hai ragione! Mi ricordo quella mucca! Se ne stava lì per quaranta, anche cinquanta minuti. Era marrone, se mi ricordo bene».

«In queste ore non ne vedi più, di mucche come quella».

«Non ne vedi proprio, di mucche».

«Cos’è una mucca?» chiese una delle più piccole.

«Visto?» disse la più anziana, trionfante. «Ecco l’ephemeroptera moderna». Fece una pausa. «Che stavamo facendo prima di parlare del sole?»

«Zigzagavamo senza meta sull’acqua» disse una delle giovani. C’era comunque la forte probabilità che fosse vero.

«No, prima».

«Ehm… ci stavi raccontando della Grande Trota».

«Ah sì. Giusto. La Trota. Bene: se sei stata una buona efemera, se hai zigzagato su e giù come si deve…»

«… dando retta agli anziani che ne sanno di più…»

«… sì, dando retta a chi ne sa di più, alla fine la Grande Trota…»

Clop.

Clop.

«Sì?» disse una delle giovani efemere.

Nessuna risposta.

«La Grande Trota cosa?» disse nervosamente un’altra.

Guardarono in basso, verso una serie di cerchi concentrici che si allargavano sull’acqua.

«Il sacro segno!» disse un’efemera. «Ricordo che me ne hanno parlato! Un Grande Cerchio nell’acqua! Quello è il segno della Grande Trota!»

La più anziana delle giovani efemere osservò l’acqua pensosamente. Cominciava a rendersi conto del fatto che, essendo la più anziana fra le presenti, ora aveva il privilegio di volare più vicina alla superficie.

«Dicono» disse quella in testa al nugolo zigzagante, «che quando la Grande Trota arriva per te, vai in una terra piena di… piena di…» Le efemere non mangiano. Era senza parole. «Piena d’acqua» terminò, mogia.

«Chissà» disse la più anziana.

«Dev’essere veramente bello, laggiù» disse la più giovane.

«Perché?»

«Perché nessuno vuole mai tornare».


Al contrario, le cose più vecchie di Mondo Disco erano i celebri Pini Contatori, che crescono sul ciglio delle nevi perenni delle alte Ramtop Mountains.

Il Pino Contatore è uno dei pochi esempi conosciuti di evoluzione in prestito.

La maggior parte delle specie si occupa della propria evoluzione man mano che va avanti, così come la Natura ha stabilito. Così è tutto molto naturale e biologico, e in armonia con i misteriosi cicli del cosmo, che ritiene che non ci sia niente di meglio che milioni di anni di tentativi frustrati e di errori per dare a una specie tempra morale, e in alcuni casi, anche una colonna vertebrale.

Dal punto di vista delle specie probabilmente va bene così, ma dalla prospettiva degli individui coinvolti può essere una vera porcata, ammesso che quel certo piccolo rettile rosa possa un giorno evolversi in un porco.

E perciò i Pini Contatori evitano tutto questo lasciando che siano gli altri vegetali a evolversi al posto loro. Un seme di pino, posandosi in un punto qualsiasi del Disco, assume immediatamente il codice genetico locale più efficace per mezzo della risonanza morfica e diventa qualunque cosa si adatti meglio al suolo e al clima, cavandosela di solito molto meglio degli alberi autoctoni di cui solitamente usurpano il posto.

Ciò che rende i Pini Contatori particolarmente degni di nota, tuttavia, è il modo in cui contano.

Avendo una vaga nozione del fatto che gli umani calcolano l’età degli alberi contando gli anelli, i Pini Contatori originari decisero che quello era il motivo per cui gli umani tagliavano gli alberi.

Nel giro di una notte ogni Pino Contatore modificò il proprio codice genetico in modo che producesse sul tronco, più o meno ad altezza d’occhi, la sua età esatta a chiare cifre. Nel giro di un anno l’industria delle targhe ornamentali per numeri civici li fece fuori tutti, e solo pochi ne sopravvivono oggi, in zone molto difficili da raggiungere.

I sei Pini Contatori di quella colonia ascoltavano il più anziano, il cui tronco contorto dichiarava trentunomilasettecentotrentaquattro anni. La conversazione andava avanti da diciassette anni, ma si stava velocizzando.

«Mi ricordo quando qui non era tutta campagna».

I pini guardarono le mille miglia di paesaggio. Il cielo tremolò come in un mediocre effetto speciale di un film sui viaggi nel tempo. Comparve la neve, rimase un istante, poi svanì.

«E che cos’era, allora?» chiese il pino più vicino.

«Ghiaccio. Se possiamo chiamarlo così. Allora sì che c’erano ghiacciai come si deve. Non come il ghiaccio di adesso, che una stagione c’è e l’altra è sparito. Quello restava per secoli».

«E che cosa ne è stato?»

«Andato».

«Andato dove?»

«Dove vanno le cose. Tutto corre via».

«Uau. Quello è stato tosto».

«Quello cosa?»

«Quell’inverno, un istante fa».

«E me lo chiami un inverno? Quando ero un alberello io sì che avevamo gli inverni…»

Poi l’albero scomparve.

Dopo una pausa di choc che durò un paio d’anni, uno del gruppo disse: «È sparito! Così, da un giorno all’altro!»

Se gli altri alberi fossero stati umani, avrebbero strascicato i piedi, a disagio.

«Succede, ragazzo» disse uno, con cautela. «È stato portato in un Posto Migliore,[1] puoi starne certo. Era un buon albero».

Il giovane, che aveva solo cinquemilacentoundici anni, disse: «Che genere di Posto Migliore?»

«Non ne siamo certi» disse uno. Tremolò a disagio, a causa di una settimana di tempesta. «Ma crediamo che c’entri della… segatura».

Dal momento che gli alberi non erano in grado di accorgersi di eventi che duravano meno di un giorno, non sentivano mai il rumore delle asce.


Windle Poons, il mago più vecchio di tutta l’Università Invisibile (casa della magia, della stregoneria e delle grandi cene) stava per morire anche lui.

Lo sapeva, in un certo senso tremolante e fragile.

Naturalmente, rifletté guidando la sedia a rotelle sul lastricato verso il suo studio a pianoterra, in generale tutti sanno che devono morire, anche la gente comune. Nessuno sapeva dove si trovava prima di nascere, ma una volta nati ci voleva poco prima di ritrovarsi con il biglietto di ritorno già timbrato.

Ma i maghi lo sapevano davvero. Non in caso di morte violenta o assassinio, naturalmente, ma se la causa della morte era il semplice esaurimento della vita… be’, lo sapevano. Di solito la premonizione avveniva in tempo per restituire i libri della biblioteca, far lavare l’abito migliore in tintoria e farsi prestare grosse somme dagli amici.

Lui aveva centotrenta anni. Gli venne in mente che era stato vecchio per la maggior parte della sua vita. Non era giusto.

E nessuno aveva detto «Ah». Ne aveva parlato nella Sala Non Comune la settimana precedente, e nessuno aveva raccolto l’accenno. E oggi a pranzo gli avevano a malapena rivolto la parola. Anche i suoi cosiddetti vecchi amici sembravano evitarlo, e dire che non stava nemmeno provando a chiedere soldi in prestito.

Era come quando nessuno si ricorda del tuo compleanno, solo peggio.

Sarebbe morto tutto solo, e non sarebbe importato a nessuno.

Aprì la porta con la ruota della sedia e cercò sul tavolino la scatola con l’acciarino e l’esca.

Un’altra cosa che non andava, quella. Oggigiorno nessuno usava più l’acciarino, compravano quei grossi fiammiferi gialli e puzzolenti fatti dagli Alchimisti. Windle disapprovava. Il fuoco era importante. Non si doveva poterlo accendere così, come se nulla fosse, senza un minimo di rispetto. Oggi la gente era così, sempre a correre in giro, e poi… il fuoco. Sì, ai vecchi tempi era anche molto più caldo. Il fuoco di oggi non ti scaldava a meno che non ti ci sdraiavi sopra. C’era qualcosa nella legna… era la legna sbagliata. Oggigiorno tutto era sbagliato. Più sottile, più sfocato. Niente sembrava vero. E i giorni erano più corti. Mmm. Qualcosa era andato storto con i giorni. Erano più corti. Mmm. Ogni giornata durava una vita, il che era strano, visto che i giorni, al plurale, correvano via in un fuggi fuggi generale. Non c’erano molte cose da fare per un mago di centotrenta anni, e Windle aveva preso l’abitudine di arrivare in sala da pranzo due ore prima di ogni pasto, per passare il tempo.

Giornate senza fine, che si rincorrevano veloci. Non aveva senso. Mmm. Bada bene, nemmeno il senso era più quello di una volta.

E ora a dirigere l’Università chiamavano dei ragazzini. Ai vecchi tempi c’erano maghi veri, omoni grossi come rimorchiatori, il tipo di mago che potevi guardare con rispetto.

Poi all’improvviso erano spariti tutti e Windle si era ritrovato a sentire prediche da ragazzini che avevano ancora i loro denti in bocca. Come quel Ridcully. Windle se lo ricordava bene. Un magrolino, con le orecchie a sventola e il naso che colava, e che chiamava la mamma la prima sera nel dormitorio. Sempre pronto a fare danni. Qualcuno aveva provato a dire a Windle che ora Ridcully era Arcicancelliere. Mmm. Dovevano pensare che era diventato scemo.

Ma dov’era quel maledetto acciarino? Le dita… anche quelle erano un’altra cosa, una volta…

Qualcuno tolse la copertura a una lanterna. Qualcun altro gli mise un bicchiere nella mano tesa.

«Sorpresa!»


Nell’atrio della casa di Morte c’è un orologio con il pendolo simile a una lama ma senza lancette, perché nella casa di Morte non c’era altro che il presente (ovviamente c’era un presente prima di adesso, ma era sempre un presente, solo più vecchio).

Il pendolo è una lama che avrebbe fatto venire a Edgar Allan Poe la voglia di mollare tutto e ricominciare come cabarettista per veglioni di capodanno. Ondeggia con un leggero spostamento d’aria, affettando dolcemente sottili strisce di intervallo dalla pancetta dell’eternità.

Morte superò l’orologio ed entrò nella cupa penombra del suo studio. Albert, il domestico, lo aspettava con asciugamano e piumino.

«Buongiorno, signore».

Morte sedette silenziosamente nella grande poltrona. Albert gli avvolse le spalle spigolose con l’asciugamano.

«Un’altra bella giornata, oggi» disse in tono casuale.

Morte non disse nulla.

Albert spiegò il panno per lucidare e tirò indietro il cappuccio di Morte.

ALBERT.

«Signore?»

Morte tirò fuori il piccolo segnatempo d’oro.

VEDI QUESTO?

«Sì, signore. È molto grazioso. Non ne ho mai visti di simili prima. Di chi è?»

MIO.

Albert guardò con la coda dell’occhio la scrivania di Morte. Su un angolo c’era una grande clessidra in una cornice nera. Non conteneva sabbia «Credevo che quella fosse la sua, signore».

LO ERA. ORA INVECE È QUESTA. REGALO DI PENSIONAMENTO DI AZRAEL IN PERSONA.

Albert sbirciò l’oggetto che Morte aveva in mano.

«Ma… la sabbia, signore. Sta scorrendo».

DIREI DI SÌ.

«Ma questo vuol dire… Cioè…?»

VUOL DIRE CHE UN GIORNO LA SABBIA SCORRERÀ DEL TUTTO, ALBERT.

«Lo so, signore, ma… lei… credevo che il Tempo fosse una cosa che riguardava gli altri, signore. Giusto? Comunque non lei, signore». Il tono di Albert si fece supplichevole.

Morte si tolse l’asciugamano e si alzò.

VIENI CON ME.

«Ma lei è Morte, signore» disse Albert, correndo di traverso dietro all’alta figura che si dirigeva attraverso l’atrio verso il corridoio che portava alla stalla. «Non è uno scherzo, vero?» chiese in tono speranzoso.

NON SONO FAMOSO PER IL MIO SENSO DELL’UMORISMO.

«Naturalmente no, senza offesa. Ma vede, lei non può morire, lei è Morte, dovrebbe capitare a se stesso, come un serpente che si mangi la coda…»

CIONONDIMENO, MORIRÒ. NON C’È POSSIBILITÀ DI APPELLO.

«Ma che ne sarà di me?» disse Albert. Il terrore balenò sulle sue parole come schegge di metallo sul filo di una lama.

CI SARÀ UN’ALTRA MORTE.

Albert drizzò la schiena.

«Non credo proprio di poter servire un nuovo padrone» disse.

ALLORA RITORNA NEL MONDO. TI DARÒ DEL DENARO. SEI STATO UN BUON SERVITORE, ALBERT.

«Ma se torno…»

SÌ, disse Morte. MORIRAI.

Nella calda penombra equina della stalla, il pallido cavallo di Morte alzò la testa dall’avena ed emise un piccolo nitrito di saluto. Il suo nome era Binky. Era un cavallo vero. Morte aveva provato focosi destrieri e cavalli scheletrici in passato, e li aveva trovati poco pratici, soprattutto i focosi, che tendevano a incendiare il proprio giaciglio e poi a restarsene lì con aria imbarazzata.

Morte prese la sella dal gancio e poi lanciò un’occhiata ad Albert, che stava attraversando una crisi di coscienza.

Migliaia di anni prima, Albert aveva scelto di servire Morte, invece di morire. Non era esattamente immortale. Il tempo reale era proibito nel regno di Morte. C’era solo il presente in continua mutazione, ma era tanto che andava avanti. Gli erano rimasti meno di due mesi di tempo reale; Albert accumulava i suoi giorni come lingotti d’oro.

«Io, ehm…» cominciò. «Cioè…»

PAURA DI MORIRE?

«Non è che non voglia… Cioè, ho sempre… è solo che la vita è un’abitudine dura a morire…»

Morte lo guardò con curiosità, come si potrebbe guardare uno scarafaggio rovesciato sul dorso che non riesce a rigirarsi.

Alla fine Albert ricadde nel silenzio.

CAPISCO, disse Morte sganciando le briglie di Binky.

«Ma non sembra preoccupato! Davvero morirà?»

SÌ. SARÀ UNA GRANDE AVVENTURA.

«Sul serio? E non ha paura?»

NON SONO CAPACE DI AVERE PAURA.

«Posso farle vedere come si fa, se vuole» azzardò Albert.

NO. VORREI IMPARARE DA SOLO. FINALMENTE FARÒ DELLE ESPERIENZE.

«Signore, se lei se ne va, ci sarà…?»

UN’ALTRA MORTE NASCERÀ DALLE MENTI DEI VIVI, ALBERT.

«Oh». Albert parve sollevato. «Non è che per caso sa che tipo è, vero?»

NO.

«Magari, che so, è meglio che faccia un po’ di pulizie, un inventario, cose del genere?»

BUONA IDEA, disse Morte il più gentilmente possibile. QUANDO VEDRÒ LA NUOVA MORTE, TI RACCOMANDERÒ CALDAMENTE.

«Oh. La vedrà, dunque?»

OH, SÌ. E ORA DEVO ANDARE.

«Come, così presto?»

CERTO. NON DEVO PERDERE TEMPO! Morte sistemò la sella, poi si voltò e tenne la minuscola clessidra, con orgoglio, sotto il naso adunco di Albert.

VISTO! HO TEMPO. FINALMENTE HO TEMPO!

Albert si tirò indietro, nervoso.

«E ora che ha tempo, che cosa ci farà?» disse.

LO SPENDERÒ.

La festa era al culmine. Lo striscione con la scritta ‘130 ANNI GLORIOSI! ADDIO WINDLE’ si era un po’ afflosciato per via del caldo. Si era arrivati al punto in cui non c’era più niente da bere tranne il punch e niente da mangiare se non una misteriosa salsina gialla con delle tortillas molto sospette, e a nessuno importava niente. I maghi chiacchieravano con l’allegria forzata di chi si vede già per tutto il giorno e ora deve passare insieme anche la sera.

Windle Poons sedeva nel mezzo, con un enorme bicchiere di rum in mano e un cappellino stupido in testa. Era quasi alle lacrime.

«Una vera festa di addio!» continuava a mormorare. «Non sono più stato a una Festa di Addio da quella del Vecchio ‘Gratta’ Hocksole» le maiuscole gli vennero spontanee, «ehm, quando è stato, mmm, nell’Anno della Focena Intimidatoria. Anche se tutti se ne sono scordati».

«Il Bibliotecario si è occupato dei dettagli» disse il Tesoriere, indicando un grosso orango che cercava di soffiare in una trombetta. «Ha fatto anche la salsa di banana. Spero che qualcuno la mangi subito».

Si chinò.

«Posso portarti altra insalata di patate?» disse, con il tono deliberatamente alto di chi parla con gli anziani e con gli imbecilli.

Windle si portò una mano tremante all’orecchio.

«Che? Cosa?»

«Altra! Insalata! Ne vuoi?»

«No, grazie».

«Un’altra salsiccia, magari?»

«Cosa?»

«Salsiccia!»

«Mi fanno venire l’aria nella pancia per tutta la notte» disse Windle. Ci pensò su un momento e fece una pausa.

«Ehm» gridò il Tesoriere, «per caso sai a che ora…?»

«Eh?»

«A! Che! Ora!»

«Alle nove e mezzo» rispose Windle, prontamente anche se in modo poco udibile.

«Be’, niente male» disse il Tesoriere. «Così ti rimane il resto della serata, ehm… libera».

Windle rovistò negli spaventosi recessi della sua sedia a rotelle, cimitero di vecchi cuscini, libri pieni di orecchi e antiche caramelle succhiate a metà. Produsse un libriccino dalla copertina verde e lo mise nelle mani del Tesoriere.

Il Tesoriere lo voltò. Scribacchiate sulla copertina c’erano le parole: ‘Windle Poons. Il Diario di Lui Medesimo’. Un pezzo di cotica di maiale segnava la data di oggi.

Sotto ‘Cose Da Fare’, una mano rattrappita aveva scritto: ‘Morire’.

Il Tesoriere non poté fare a meno di voltare pagina.

Infatti. Sulla pagina di domani, sotto ‘Cose da Fare’: ‘Nascere’.

Il suo sguardo corse al tavolino in uno degli angoli della stanza. Malgrado il discreto affollamento, c’era una zona libera tutt’intorno, come una sorta di spazio personale che nessuno avrebbe invaso.

Riguardo al tavolo nella Cerimonia della Partenza c’erano istruzioni speciali. Doveva essere coperto da un panno nero con alcuni sigilli magici ricamati. Un piatto con una selezione delle migliori tartine, un bicchiere di vino. Dopo lunghe discussioni tra i maghi, era stato aggiunto anche un buffo cappellino di carta.

Tutte quelle cose sembravano in attesa.

Il Tesoriere tirò fuori l’orologio e fece scattare il coperchio.

Era uno di quelli nuovi, da tasca, con le lancette. Indicavano le nove e un quarto. Lo scosse. Un minuscolo oblò si aprì sotto il 12 e un demone molto piccolo cacciò fuori la testa e disse: «Dacci un taglio, capo, pedalo più forte che posso».

Richiuse l’orologio e si guardò disperatamente intorno. Nessun altro sembrava molto ansioso di stare vicino a Windle Poons. Il Tesoriere sentiva che stava a lui fare conversazione. Esaminò i possibili argomenti, ma tutti presentavano dei problemi.

Widdle Poons gli venne in aiuto.

«Sto pensando di tornare come donna» disse in tono colloquiale.

Il Tesoriere aprì e chiuse la bocca un paio di volte.

«Non vedo l’ora» proseguì Poons. «Credo che sarà uno spasso».

Il Tesoriere passò ansiosamente in rassegna il suo limitato repertorio di argomenti sulle donne. Si chinò verso l’orecchio accartocciato di Windle.

«Non c’è parecchio» disse alla cieca, «da lavare? E fare i letti e cucinare e cose del genere?»

«Non nel genere di vita che ho in mente io» rispose Windle con fermezza.

Il Tesoriere chiuse la bocca. L’Arcicancelliere batté sul tavolo con un cucchiaio.

«Fratelli…» cominciò, quando ci fu qualcosa di simile al silenzio. Questo scatenò un coro di esultanza.

«Come sapete, siamo qui stasera per festeggiare il, ehm, ritiro» risata nervosa, «del nostro vecchio amico e collega Windle Poons. Sapete, vedere il vecchio Windle seduto qui stasera mi fa tornare in mente la storia della mucca con tre zampe di legno. Dunque, c’era questa mucca…»

Il Tesoriere smise di ascoltare. Conosceva la storiella. L’Arcicancelliere rovinava sempre il finale, e in ogni caso aveva altro a cui pensare.

Continuava a guardare il tavolino.

Il Tesoriere era un’anima gentile e un po’ nervosa, e amava il suo lavoro. A parte tutto, nessun altro lo voleva. Molti maghi volevano essere Arcicancellieri, per esempio, o capi di uno degli otto ordini della magia, ma praticamente nessun mago aveva voglia di passare tutto il suo tempo in un ufficio tra scartoffie e conti. Tutto il lavoro burocratico dell’Università tendeva ad accumularsi nell’ufficio del Tesoriere, il che voleva dire che la sera andava a letto molto stanco e dormiva profondamente, senza doversi preoccupare di scorpioni inaspettati nel pigiama.

Far fuori un mago di ordine superiore era un metodo riconosciuto di avanzamento. Tuttavia, la persona che potesse desiderare uccidere il Tesoriere doveva essere qualcuno che ricavava il suo stesso tranquillo piacere da colonne di cifre, disposte in bell’ordine, e persone del genere non ricorrono spesso all’omicidio.[2]

Ripensò alla sua infanzia, tanto tempo fa sulle Ramtop Mountains. Lui e sua sorella lasciavano sempre un bicchiere di vino e una Torta nella notte di Hogswatch per Hogfather. Allora le cose erano diverse. Lui era molto più giovane, non sapeva quasi nulla e probabilmente era molto più felice.

Per esempio non sapeva che un giorno sarebbe diventato un mago e che insieme ad altri maghi avrebbe lasciato un bicchiere di vino, una Torta e un vol-au-vent di pollo dall’aria sospetta, più un cappellino di carta, per…

… qualcun altro.

Quando era bambino le feste di Hogswatch seguivano sempre lo stesso schema. Proprio quando i bambini erano così eccitati da star male, uno degli adulti diceva in tono malizioso «Credo che stia per arrivare un ospite speciale!» e incredibilmente, come a un segnale convenuto, si sentivano dei campanelli sospetti fuori dalla finestra, ed entrava…

…entrava…

Il Tesoriere scosse la testa. Qualche nonno con i baffi finti, ovviamente. Qualche vecchio allegrone con un sacco pieno di giocattoli, che lasciava impronte di stivali sulla neve. Qualcuno che ti dava qualcosa.

Invece stasera…

Naturalmente il vecchio Windle forse aveva un atteggiamento diverso. Dopo centotrenta anni, forse la morte presenta un certo fascino. Probabilmente veniva una certa curiosità di scoprire cosa succedeva dopo.

Il contorto aneddoto dell’Arcicancelliere arrivò tortuosamente alla fine. I maghi riuniti risero educatamente, cercando di capire la barzelletta.

Il Tesoriere guardò l’orologio, di nascosto. Le nove erano passate da venti minuti.

Windle Poons fece un discorso. Lungo, divagante e inarticolato, sui vecchi tempi; sembrava convinto che la maggior parte delle persone intorno a lui fossero morte da circa cinquant’anni, ma non importava, perché a non stare a sentire il vecchio Windle ci eri abituato.

Il Tesoriere non riusciva a staccare gli occhi dall’orologio. Dall’interno veniva il cigolio prodotto dal demone che pedalava per l’eternità.

Le nove e venticinque.

Il Tesoriere si chiese come sarebbe successo. Sentivi magari (Credo che stia per arrivare un ospite speciale) un rumore di zoccoli?

La porta si sarebbe aperta o Lui ci sarebbe passato attraverso? Domanda scema. Lui era noto per la sua capacità di entrare nei posti più sigillati… specialmente in quelli sigillati, se ci pensavi con un po’ di logica. Chiuditi da qualche parte e sarà solo questione di tempo.

Il Tesoriere sperava che usasse la porta nel modo normale. I suoi nervi erano già abbastanza scossi.

Il livello della conversazione stava calando. Diversi altri maghi, notò il Tesoriere, stavano guardando la porta.

Windle era al centro di un circolo in discreto allargamento. Nessuno lo evitava in senso stretto; era come se un moto browniano apparentemente casuale stesse dolcemente allontanando tutti da lui.

I maghi potevano vedere Morte. E quando un mago muore, arriva Morte in persona a guidarlo verso l’Oltre. Il Tesoriere si chiese come mai questo fosse considerato un privilegio…

«Ma che state guardando tutti?» disse allegramente Windle.

Il Tesoriere aprì l’orologio.

L’oblò sotto il 12 si aprì.

«La pianti di scuotere?» squittì il demone. «Così perdo il conto».

«Scusa» sussurrò il Tesoriere. Erano le nove e ventinove.

L’Arcicancelliere fece un passo avanti.

«Allora addio, Windle» disse, stringendo la mano incartapecorita del vecchio. «Questo posto non sarà più lo stesso senza di te».

«Non so come faremo» disse il Tesoriere, sollevato.

«Buona fortuna per la prossima vita» disse il Decano. «Passa a fare un saluto, se ti ricordi chi eri».

«Non sparire, eh?» disse l’Arcicancelliere.

Windle Poons annuì gentilmente. Non aveva sentito ciò che avevano detto. Annuiva come principio generale.

I maghi, come un sol uomo, si voltarono verso la porta.

L’oblò sotto il 12 si aprì.

«Bing bing bong bing» disse il demone. «Binghi binghi bong bing bing».

«Cosa?» trasalì il Tesoriere.

«Nove e mezzo» disse il demone.

I maghi si voltarono verso Windle Poons, con aria vagamente accusatoria.

«Che avete da guardare?» chiese lui.

La lancetta dei secondi sull’orologio continuava a cigolare.

«Come ti senti?» chiese il Decano, a voce ben alta.

«Mai stato meglio» rispose Windle. «Ehm, ce n’è ancora di quel rum?»

I maghi riuniti lo videro versarsi una dose generosa.

«Meglio andarci piano con quella roba» disse nervosamente il Decano.

«Alla salute!» disse Windle Poons.

L’Arcicancelliere tamburellò con le dita sul tavolo.

«Poons» disse, «ma ne sei sicuro?»

Windle era partito per la tangente. «Qualche altra tuterilla? Non le definirei vero cibo» disse, «che c’è di tanto speciale nell’intingere gallette dure nella melma? Quello che mi ci vorrebbe ora è uno dei famosi pasticci di carne di Dibbler…»

E poi morì.

L’Arcicancelliere lanciò un’occhiata ai suoi colleghi, poi si avvicinò in punta di piedi alla sedia a rotelle e sollevò un polso dalle vene bluastre per sentire il battito. Scosse la testa.

«È così che me ne voglio andare» disse il Decano.

«Come, borbottando sui pasticci di carne?» chiese il Tesoriere.

«No. Tardi».

«Un momento, un momento» disse l’Arcicancelliere. «Questo non va bene. Secondo la tradizione, Morte in persona interviene per la morte di un ma…»

«Forse aveva da fare» si affrettò a dire il Tesoriere.

«Sì, esatto» disse il Decano. «C’è un’epidemia di influenza abbastanza grave sulla via di Quirm, a quanto mi dicono».

«E c’è stata anche una bella tempesta ieri notte. Un sacco di naufragi, penserei» disse il Docente di Rune Recenti.

«E naturalmente è primavera, e sulle montagne ci sono un sacco di valanghe».

«E la peste».

L’Arcicancelliere si accarezzò la barba, pensieroso.

«Mmm» disse.


Unici fra tutte le creature del mondo, i troll credono che tutti gli esseri viventi vadano all’indietro nel tempo. Se il passato è visibile e il futuro è nascosto, dicono, significa che stai guardando nella direzione sbagliata. Tutti gli esseri viventi attraversano la vita dal retro verso il davanti. Un’idea molto interessante, considerando che è stata elaborata da una specie i cui membri passano la maggior parte del tempo a picchiarsi l’un l’altro sulla testa con dei sassi.

Qualunque sia il senso di marcia, il Tempo è una di quelle cose che le creature viventi possiedono.

Morte galoppava tra incombenti nuvole nere.

Ora anche lui aveva Tempo.

Tempo prezioso.

Windle Poons sbirciò nell’oscurità.

«Ehi?» disse. «C’è nessuno? Oi!»

Ci fu un sussurro lontano e sconsolato, come il vento in fondo a un tunnel.

«Vieni fuori, vieni fuori, chiunque tu sia» disse Windle, con voce tremante di folle allegria. «Non ti preoccupare. A dire il vero, non vedo l’ora».

Batté le sue mani spirituali e se le fregò con entusiasmo forzato.

«Dai, datti una mossa. Qui c’è gente che ha nuove vite da vivere».

Il buio rimase inerte. Nessuna figura, nessun suono. Era vuoto, senza forma. Lo spirito di Windle Poons si mosse a fronteggiare il buio.

Scosse la testa. «Che gran casino» mormorò. «Non va bene per niente».

Bazzicò in giro per un po’ ma poi, visto che non sembrava esserci altro da fare, si diresse verso l’unica casa che avesse mai avuto.

La casa che aveva occupato per centotrenta anni. Non lo aspettava e oppose molta resistenza. Bisogna essere molto determinati o molto potenti per vincere una resistenza del genere, ma Windle Poons era stato un mago per oltre un secolo. Oltretutto era come forzare la porta di casa propria, quella vecchia casa in cui hai vissuto per anni. Sapevi dov’era quella finestra metaforica che non chiudeva bene.

A farla breve, Windle Poons tornò da Windle Poons.


I maghi non credono negli dei, così come la maggior parte delle persone non ritiene necessario, per esempio, credere nei tavoli. Sanno che esistono, che sono lì per uno scopo, probabilmente pensano che abbiano un posto in un universo bene organizzato, ma non vedono il motivo di crederci, di andare in giro a dire: «O grande tavolo, senza il quale siamo uno zero». Comunque, o gli dei ci sono, che ci si creda o no, oppure esistono solo in funzione della fede, per cui in entrambi i casi tanto vale ignorare tutta la faccenda e, per così dire, mettersi l’animo in pace.

Ciò nondimeno, c’è una piccola cappella accanto all’Aula Magna dell’Università, poiché non si diventa maghi di successo facendo saltare la mosca al naso agli dei, anche se quei nasi esistono solo in senso etereo o metaforico. I maghi non credono negli dei, ma sanno per certo che gli dei credono negli dei.

In quella cappella giaceva la salma di Windle Poons. L’Università aveva istituito l’esposizione di ventiquattro ore da quella storia imbarazzante, trent’anni prima, con il defunto Prissal ‘Mattacchione’ Teatar.

Il corpo di Windle Poons aprì gli occhi. Due monete caddero sul pavimento di pietra con un tintinnio.

Le mani, intrecciate sul petto, si distesero.

Windle sollevò la testa. Qualche idiota gli aveva messo un giglio sulla pancia.

Guardò di lato. C’erano due candele ai lati della sua visuale.

Sollevò ancora un poco la testa.

C’erano altre due candele ai piedi.

Grazie al cielo c’è stato il vecchio Teatar, pensò. Altrimenti starei già guardando l’interno di una cassa di legno da poco prezzo.

Buffo, pensò. Sto pensando. E chiaramente.

Uau.

Windle si distese, sentendo lo spirito scorrere nel corpo come metallo fuso in uno stampo. Pensieri incandescenti saettavano nel buio della sua mente, rimettendo in moto neuroni addormentati.

Non era così quand’ero vivo.

Ma non sono morto.

Non sono vivo e non sono morto.

Una specie di non-vivo.

O di non-morto.

Oh, cavolo…

Si alzò a sedere. Muscoli che non funzionavano a dovere da settanta o ottanta anni ingranarono la quarta. Per la prima volta in tutta la sua vita, anzi, si corresse, diciamo ‘periodo di esistenza’, il corpo di Windle Poons era completamente sotto il suo controllo. E lo spirito di Windle Poons non aveva nessuna intenzione di stare a discutere con un fascio di muscoli.

Ora il corpo si alzò in piedi. Le giunture delle ginocchia fecero un po’ di resistenza, ma non erano in grado di contrastare l’assalto della forza di volontà più di quanto una zanzara malata potesse resistere a una fiamma ossidrica.

La porta della cappella era chiusa a chiave. Tuttavia Windle scoprì che una semplice pressione era sufficiente a scalzare la serratura dal legno e a lasciare le impronte delle dita nel metallo della maniglia.

«Oh, cielo» disse.

Si diresse in corridoio. L’acciottolio lontano delle posate e il mormorio gli dissero che era in corso uno dei quattro pasti giornalieri dell’Università.

Si chiese se ai morti fosse permesso mangiare. Probabilmente no, pensò.

Ma poi, poteva mangiare? Non che non avesse fame, ma… ecco, sapeva come pensare, e muoversi e camminare era solo questione di tendere alcuni nervi in posizione ovvia, ma com’è che funzionava uno stomaco, esattamente?

Windle cominciò a rendersi conto che il corpo umano non è gestito dal cervello, malgrado ciò che ne pensa il cervello medesimo. In realtà è gestito da decine di complessi sistemi automatici, che ronzano e ticchettano con quel genere di precisione a cui non fai caso finché non si rompe.

Esaminò se stesso dalla sala controllo del cranio. Guardò la silenziosa industria chimica del fegato con lo stesso senso di smarrimento con cui un costruttore di canoe esamina i comandi computerizzati di una supercorazzata. I misteri dei reni attendevano l’autorevole controllo di Windle. Ma al dunque, che cos’era una milza? E come la facevi andare?

Provò una stretta al cuore.

O anche no.

«Oh, dei» mormorò Windle, appoggiandosi alla parete. E quello come funzionava, ora? Punzecchiò un paio di nervi possibili. Com’era… sistolico… diastolico… sistolico… diastolico…? E poi c’erano i polmoni…

Come un giocoliere che faceva girare diciotto piatti allo stesso momento, come un uomo che cerca di programmare un videoregistratore con un manuale di istruzioni tradotto dal giapponese in olandese da un pilatore di riso coreano, come un uomo che scopre cosa significa davvero l’autocontrollo, Windle Poons si incamminò barcollando.


I maghi dell’Università Invisibile davano grande importanza all’abbondanza dei pasti. Sostenevano che nessuno poteva affrontare seriamente la stregoneria senza zuppa, pesce, selvaggina, numerosi vassoi di carne, uno sformato o due, qualcosa di grosso e pieno di crema, piccole leccornie su pane tostato, frutta fresca e secca e una mentina formato mattone dopo il caffè. Dava il giusto rivestimento allo stomaco. Era anche importante che i pasti fossero serviti a intervalli regolari. Dava forma alla giornata, dicevano.

Tranne il Tesoriere, naturalmente. Non mangiava molto, viveva di nervi. Era convinto di essere anoressico, perché ogni volta che si guardava allo specchio vedeva un ciccione. Era l’Arcicancelliere, che gli stava alle spalle e gli gridava contro.

E la sorte volle che fosse proprio lui a sedere di fronte alla porta quando Windle Poons la sfondò, perché era più facile che cincischiare con le maniglie.

Il Tesoriere dette un morso al cucchiaio di legno.

I maghi si voltarono sulle panche e rimasero a occhi sbarrati.

Windle Poons ondeggiò un momento, recuperò il controllo di corde vocali, labbra e lingua, e poi disse: «Credo di poter metabolizzare l’alcol».

L’Arcicancelliere fu il primo a riprendersi.

«Windle!» disse. «Credevamo che fossi morto!»

Non era una gran battuta, doveva ammetterlo. Non mettevi un tizio su un tavolo di marmo con candele e gigli tutt’intorno perché pensavi che avesse un po’ di mal di testa e volesse farsi una mezz’oretta di sonno.

Windle fece qualche passo avanti. I maghi più vicini inciamparono l’uno addosso all’altro nel tentativo di allontanarsi.

«Sono morto, razza di scemo» mormorò. «Credi che me ne vada in giro normalmente così? Dio buono». Lanciò un’occhiataccia ai presenti. «Qualcuno qui sa come funziona una milza?»

Raggiunse il tavolo e riuscì a sedersi.

«Probabilmente ha a che fare con la digestione» disse. «È buffo, passi tutta la vita con quell’affare che ticchetta o gorgoglia o quello che è, e non sai mai a che accidenti serve. È come quando sei a letto e senti lo stomaco che fa gurgle-plop-plop. Per te è solo un gurgle-plop-plop, ma chissà quali processi chimici meravigliosamente complessi ci sono dietro…»

«Sei un non-morto?» chiese il Tesoriere, riuscendo alla fine a sputar fuori le parole.

«Non l’ho chiesto io» disse il defunto Windle Poons, guardando irritato il cibo. «Sono tornato solo perché non c’era un altro posto dove andare. Credi che voglia stare qui?»

«Ma sicuramente» disse l’Arcicancelliere, «non… Sai quel tizio, con il teschio e la falce…»

«Mai visto» tagliò corto Windle, esaminando i piatti più vicini. «Questa storia della non-morte ti manda al manicomio».

I maghi si facevano segni frenetici al di sopra della sua testa. Lui li guardò malissimo.

«E non pensate che non veda tutti quei segni frenetici» disse. Era incredibile, ma era così. Occhi che negli ultimi sessant’anni avevano visto attraverso un velo opaco ora erano costretti a funzionare come il più sofisticato dei meccanismi ottici.

In effetti erano due i filoni di pensiero principali che occupavano le menti dei maghi dell’Università Invisibile.

La maggior parte pensava: ‘Ma è terribile, è veramente il vecchio Windle, era tanto un bravo tipo, come ce ne liberiamo? Come ce ne liberiamo?

Ciò che pensava Windle Poons, tra i lampi e i ronzii della cabina di pilotaggio della sua mente, era: ‘Ecco, è vero. Questa è la vita dopo la morte. Ed è la stessa. La mia solita fortuna’.

«Allora» disse, «che avete intenzione di fare?»


Erano passati cinque minuti. Un gruppetto dei maghi più anziani si affrettava lungo il corridoio pieno di spifferi, al seguito dell’Arcicancelliere, la cui veste svolazzava alle sue spalle.

La conversazione era di questo tipo:

«Deve essere Windle! Parla perfino come lui!»

«Non è il vecchio Windle. Il vecchio Windle era molto più vecchio!»

«Più vecchio? Più vecchio che morto?»

«Ha detto che rivuole la sua stanza da letto, e non vedo perché mi dovrei trasferire…»

«Ma hai visto i suoi occhi? Sembrano succhielli!»

«Eh? Chi è Succhielli?»

«Voglio dire che ti passano da parte a parte!»

«… Ha una bellissima vista sul giardino, e ho già portato lì tutta la mia roba e non è giusto…»

«È mai successo prima?»

«Be’, c’è stato il vecchio Teatar…»

«Sì, ma lui non è mai morto davvero, si dipingeva solo la faccia di verde e apriva il coperchio della bara gridando: ‘Sorpresa, sorpresa!’…»

«Zombie qui non ne abbiamo mai avuti».

«È uno zombie?»

«Credo di sì…»

«Vuol dire che suonerà i bonghi e ballerà tutta la notte il limbo?»

«Ah, fanno così?»

«Il vecchio Windle? Non mi sembra il tipo. Non gli è mai piaciuto molto ballare, nemmeno da vivo…»

«A ogni modo, non c’è da fidarsi di questi dei voodoo. Il mio motto è: mai fidarsi di un dio che sorride sempre e porta un cappello a cilindro».

«… che mi venga un colpo se lascerò la mia stanza a uno zombie dopo aver aspettato anni…»

«È il tuo motto? È buffo».

Windle Poons si aggirava di nuovo all’interno della sua testa.

Strano. Ora che era morto, o non era più vivo o quel che era, aveva le idee più chiare che mai.

E anche il controllo era diventato più facile. Quasi non doveva più preoccuparsi della faccenda della respirazione, la milza sembrava funzionare meglio, i sensi andavano a mille. L’apparato digerente era ancora un po’ un mistero, però.

Si specchiò in un piatto d’argento.

Sembrava ancora morto. Volto pallido, occhiaie rosse. Un corpo morto. Funzionante ma fondamentalmente morto. Era giustizia, questa? Era la giusta ricompensa per quasi centotrenta anni di fede nella reincarnazione? Tornare sotto forma di cadavere?

Non c’era da stupirsi se i non-morti erano noti per essere sempre molto irritati.


In una prospettiva a lungo termine, stava per succedere qualcosa di meraviglioso.

In una prospettiva a medio o a breve termine, stava per succedere qualcosa di orrendo.

È come la differenza tra osservare una splendida nuova stella nel cielo invernale ed essere effettivamente vicini a una supernova. È la differenza tra la bellezza della rugiada mattutina su una ragnatela ed essere una mosca.

Era una cosa che normalmente non succedeva da migliaia di anni.

E stava per succedere ora.

Stava per succedere in fondo a una credenza fuori uso in una cantina fatiscente nelle Ombre, la parte più antica e più malfamata di AnkhMorpork.

Plop.

Era un suono dolce, come la prima goccia di pioggia su un secolo di polvere.


«Forse potremmo far camminare un gatto nero sulla sua bara».

«Lui non ha una bara!» si lagnò il Tesoriere, il cui rapporto con la sanità mentale era sempre piuttosto interlocutorio.

«Va bene. Gli compriamo una bella bara nuova e ci facciamo camminare sopra un gatto nero?»

«No, è una stupidaggine. Dobbiamo fargli bere un sorso d’acqua».

«Cosa?»

«Bere un sorso d’acqua. I non-morti non lo possono fare».

I maghi, che si erano riuniti nello studio dell’Arcicancelliere, rivolsero la loro totale, affascinata attenzione a quell’ultima frase.

«Sicuro?» chiese il Decano.

«È risaputo» disse il professore di Rune Recenti, in tono neutro.

«Lo faceva spesso, da vivo».

«Da morto no, però».

«Ah sì? Be’, ha un senso».

«Un corso d’acqua» disse all’improvviso il professore di Rune Recenti. «Ecco com’era, scusate. Non possono attraversare un corso d’acqua».

«Be’, quello nemmeno io» disse il Decano.

«Non-morto! Non-morto!» Il Tesoriere cominciava a perdere la bussola.

«Oh, non prenderlo in giro» disse il professore, battendo sulla schiena del collega tremante.

«Oh, ma io dico sul serio» disse il Decano. «Affogherei».

«I non-morti non possono attraversare l’acqua nemmeno su un ponte».

«E lui è l’unico, poi? Non ci sarà un’invasione?» disse il professore.

L’Arcicancelliere tamburellò con le dita sulla scrivania.

«È poco igienico avere dei morti che se ne vanno in giro» disse.

Questo zittì tutti. Nessuno aveva mai visto la cosa da quel lato, ma Mustrum Ridcully era esattamente il tipo d’uomo che poteva farlo.

A seconda del punto di vista, Mustrum Ridcully era il peggiore, o il miglior Arcicancelliere che l’Università avesse avuto da un secolo a questa parte.

Tanto per cominciare, era troppo. Non che fosse particolarmente grosso, ma aveva il tipo di personalità debordante che occupa tutto lo spazio disponibile. Al termine della cena era fragorosamente ubriaco, e questo andava bene, era un accettabilissimo comportamento da mago. Ma poi tornava nella sua stanza e giocava a freccette per tutta la notte, poi usciva alle cinque per andare a caccia di anatre. Urlava agli altri. Cercava di tenerli allegri. E non metteva mai le vesti appropriate. Aveva convinto la signora Whidow, la temuta governante dell’Università, a cucirgli una specie di costume abbondante, di uno sgargiante blu e rosso; due volte al giorno i maghi lo guardavano confusi correre con impegno intorno agli edifici dell’Università, con il cappello a punta saldamente legato con uno spago. Lui li salutava con rumorosa allegria, perché un tratto fondamentale dei tipi come Mustrum Ridcully era la ferrea convinzione che tutti si sarebbero divertiti come lui, se ci avessero provato.

«Magari schiatta» si dicevano l’un l’altro speranzosi, guardandolo mentre cercava di spaccare la crosta di ghiaccio sul fiume Ankh per un tuffo mattutino. «Tutto questo esercizio salutare non può fargli bene».

All’Università arrivavano gli echi di diverse storie. L’Arcicancelliere aveva combattuto per due round a mani nude con Detritus, l’enorme troll tuttofare del Tamburo Riparato. L’Arcicancelliere aveva fatto a braccio di ferro con il Bibliotecario per scommessa, e anche se naturalmente non aveva vinto, aveva ancora il suo braccio. L’Arcicancelliere voleva che l’Università formasse una sua squadra di calcio per il grande derby del giorno di Hogswatch.

Dal punto di vista intellettuale, Ridcully manteneva il suo posto di lavoro per due ragioni. Una era che non cambiava opinione mai, in nessun caso, su nulla. L’altra era che gli ci volevano diversi minuti per comprendere qualsiasi nuova idea gli venisse proposta, e questa è una caratteristica fondamentale in un leader, perché se qualcuno insiste nel volerti spiegare qualcosa per più di due minuti probabilmente è importante, mentre se lascia perdere subito quasi certamente è una cosa con cui non valeva la pena disturbarti.

A quanto pareva, di Mustrum Ridcully ce n’era più di quanto un corpo potesse ragionevolmente contenere.

Plop. Plop.

Nella credenza buia in cantina, uno scaffale intero era già pieno.


Di Windle Poons ce n’era esattamente quanto un corpo ne potesse contenere, e lui lo guidava con attenzione nei corridoi.

Non me lo sarei mai aspettato, pensava. Non me lo merito. Dev’esserci un errore da qualche parte.

Sentì un vento fresco sul viso e capì di essere uscito all’aperto. Davanti a lui c’erano i cancelli dell’Università, chiusi a chiave.

All’improvviso Windle Poons provò un senso acuto di claustrofobia. Aveva aspettato di morire per anni, e ora che era morto si ritrovava bloccato in questo… mausoleo pieno di vecchi scemi, dove avrebbe dovuto passare il resto della vita a fare il morto. La prima cosa da fare era uscire e darsi una degna fine…

«’Sera, signor Poons».

Si voltò molto lentamente e vide la piccola sagoma di Modo, il nano giardiniere dell’Università, seduto nel crepuscolo a fumare la pipa.

«Oh. Salve, Modo».

«Ho sentito che è morto, signor Poons».

«Ehm. Sì. Ero morto».

«Vedo che è guarito, allora».

Poons annuì e guardò cupamente le mura. I cancelli dell’Università venivano chiusi tutti i giorni al tramonto, obbligando studenti e personale a scavalcare le mura. Dubitava molto di potercela fare.

Strinse le mani a pugno. Oh, be’…

«C’è qualche altro cancello da queste parti, Modo?» chiese.

«No, signor Poons».

«E dove ne mettiamo un altro?»

«Come dice, signor Poons?»

Ci fu un rumore di muratura torturata, seguito da una breccia vagamente a forma di Poons nel muro. Windle rinfilò dentro il braccio per recuperare il cappello.

Modo riaccese la pipa. Si vedono un sacco di cose interessanti in questo lavoro, pensò.


In un vicolo, temporaneamente fuori dalla vista dei passanti, qualcuno di nome Reg Shoe, che era morto, si guardò intorno, poi estrasse di tasca una lattina di vernice e dipinse sul muro le parole:


MORTI SÌ! SEPOLTI MAI!


… e corse via, o perlomeno barcollò via a gran velocità.


L’Arcicancelliere aprì una finestra sulla notte.

«Ascoltate».

I maghi ascoltarono.

Un cane abbaiò. Da qualche parte un ladro fischiò, e qualcuno gli rispose da un tetto vicino. In lontananza, una coppia stava avendo il genere di litigio che di solito spinge il quartiere ad aprire le finestre e prendere appunti. Ma erano solo motivi che spiccavano nel ronzio costante della città. Ankh-Morpork faceva le fusa nella notte, sulla via per l’alba, come un’enorme creatura vivente; anche se naturalmente questa era solo una metafora.

«Allora?» disse il Sommo Algebrico. «Non sento niente di speciale».

«Appunto. Decine di persone muoiono ad Ankh-Morpork ogni giorno. Se avessero cominciato tutti a tornare come il povero Windle, non credete che ne sapremmo qualcosa? La città sarebbe in subbuglio. Più in subbuglio del solito, cioè».

«Un paio di non-morti in giro ci sono sempre» disse il Decano, dubbioso. «Vampiri, zombi, banshee e così via».

«Sì, ma loro sono non-morti di natura» disse l’Arcicancelliere. «Sanno come gestire la cosa, ci sono nati».

«Non si può nascere non-morti» osservò il Sommo Algebrico.

«Voglio dire che è una tradizione» sbottò l’Arcicancelliere. «Dove sono nato io c’erano alcuni vampiri molto rispettabili. Erano nelle loro famiglie da secoli».

«Sì, ma bevono sangue» disse il Sommo Algebrico. «A me non pare una cosa molto rispettabile».

«Ho letto da qualche parte che non hanno veramente bisogno di sangue» disse il Decano, volenteroso, «ma di qualcosa che sta nel sangue. Credo che si chiamino Emogoblin».

Gli altri maghi lo guardarono.

Il Decano scrollò le spalle. «Non guardate me» disse. «Si chiamano Emogoblin. C’entra qualcosa il ferro che certi hanno nel sangue».

«Mi venga un colpo se ho dei goblin di ferro nel sangue» disse il Sommo Algebrico.

«Perlomeno sono meglio degli zombie» disse il Decano. «Molto più a modo. I vampiri non se ne vanno in giro trascinando i piedi».

«La gente viene trasformata in zombie, sapete» disse il professore di Rune Recenti in tono casuale. «Non c’è nemmeno bisogno della magia. Basta il fegato di un certo pesce raro e l’estratto di una particolare radice. Una cucchiaiata, e ti svegli zombie».

«Che tipo di pesce?» chiese il Sommo Algebrico.

«E io che ne so?»

«E allora chi lo sa?» disse il Sommo Algebrico in tono acido. «Qualcuno si è svegliato la mattina e ha detto: ‘Ehi, ho un’idea, mi sa che trasformo qualcuno in zombie, mi ci vuole solo il fegato di un pesce raro e un pezzo di radice, si tratta soltanto di trovare quella giusta. C’è la fila fuori dalla porta! Numero 94, fegato di guarracino rosso e radice di maniaco… non funziona. Numero 95, fegato di pesce palla e radice di dum-dum… non funziona. Numero 96…’»

«Ma che sta dicendo?» chiese l’Arcicancelliere.

«Stavo solo facendo notare l’intrinseca inverosimiglianza di…»

«Stia zitto» disse l’Arcicancelliere senza tanti complimenti. «A me sembra… insomma, la morte deve succedere, giusto? Deve esserci. È il presupposto della vita. Sei vivo, e poi muori. Non può smettere».

«Ma per Windle non si è presentato» osservò il Decano.

«Succede continuamente» disse Ridcully, ignorandolo. «Tutto muore. Anche le piante».

«Non credo che Morte arrivi per una patata» disse il Decano, dubbioso.

«Morte arriva per tutto» disse l’Arcicancelliere con fermezza.

I maghi annuirono saggiamente.

Dopo un po’ il Sommo Algebrico disse: «Sapete, ho letto l’altro giorno che ogni atomo del corpo cambia dopo sette anni. Quelli nuovi si attaccano e i vecchi cadono. Succede continuamente. È meraviglioso, davvero».

Il Sommo Algebrico riusciva a fare a una conversazione quello che solo una melassa particolarmente densa riusciva a fare alle lancette di un orologio di precisione.

«Ah sì? E quelli vecchi che fine fanno?» chiese Kidcully, curioso suo malgrado.

«Boh. Fluttuano nell’aria, credo, finché non si attaccano a qualcun altro».

L’Arcicancelliere parve offeso.

«Come, anche ai maghi?»

«Oh sì. A tutti. Fa parte del miracolo dell’esistenza».

«Ah sì? A me sembra solo poco igienico» disse l’Arcicancelliere. «Immagino che non ci sia modo di impedirlo?»

«Direi di no» disse il Sommo Algebrico, dubbioso. «Non credo che si possa impedire il miracolo dell’esistenza».

«Ma questo vuol dire che tutto quanto è fatto di tutto quanto» disse Ridcully.

«Esatto. Non è strabiliante?»

«È disgustoso, ecco cos’è» tagliò corto Ridcully. «A ogni modo, quello che voglio dire… quello che voglio dire…» Fece una pausa, cercando di ricordare. «Non si può abolire la morte, ecco cosa. La morte non può morire. È come chiedere a uno scorpione di pungersi da solo».

«In effetti» disse il Sommo Algebrico, sempre con un fatto pronto a portata di mano, «si può indurre uno scorpione a…»

«Stia zitto» disse l’Arcicancelliere.

«Ma non possiamo avere un mago non-morto che se ne va in giro» disse il Decano. «Chissà cosa potrebbe mettersi in testa di fare. Dobbiamo… fermarlo. Per il suo bene».

«Giusto» disse Ridcully. «Per il suo bene. Non dovrebbe essere troppo difficile. Devono esserci decine di modi per fermare un non-morto».

«Aglio» disse il Sommo Algebrico in tono neutro. «Ai non-morti non piace».

«Non posso dargli torto. Io non lo posso soffrire» disse il Decano.

«Non-morti! Non-morti!» disse il Tesoriere, puntando un indice accusatore. Lo ignorarono.

«Sì, poi ci sono gli oggetti sacri» disse il Sommo Algebrico. «Il nonmorto finisce in polvere non appena li guarda. E non amano la luce del giorno. E se nemmeno questo funziona, bisogna seppellirli ai crocevia. È infallibile. E poi gli conficchi un paletto così non si alzano più».

«Con l’aglio sopra» disse il Tesoriere.

«Be’, sì, magari ci puoi mettere l’aglio» concesse il Sommo Algebrico, riluttante.

«A me non piace mettere l’aglio dappertutto» disse il Decano. «Secondo me è meglio un po’ d’olio e qualche spezia».

«Il peperoncino è buono» disse allegramente il professore di Rune Recenti.

«Stia zitto» disse l’Arcicancelliere.


Plop.

I cardini dell’anta della credenza cedettero, rovesciando il contenuto nella stanza.


Il sergente Colon della Guardia Cittadina di Ankh-Morpork era di servizio. Faceva la guardia al Ponte di Ottone, il collegamento principale tra Ankh e Morpork. Lo sorvegliava perché non lo rubassero.

Quando si trattava di prevenzione del crimine, il sergente Colon pensava in grande.

C’era una scuola di pensiero secondo cui il modo migliore per essere riconosciuto come fedele guardiano della legge ad Ankh-Morpork era pattugliare le strade e i vicoli, pagare gli informatori, seguire i sospetti e così via.

Il sergente Colon la marinava, quella scuola lì. Non, si sarebbe affrettato a spiegare, perché cercare di tenere basso il livello di criminalità ad AnkhMorpork era come cercare di tenere basso il livello del sale nel mare, e l’unico probabile riconoscimento per un fedele guardiano della legge era del tipo: «Ehi, ma non è il sergente Colon quel cadavere nel canaletto di scolo?»; bensì, perché un pubblico ufficiale moderno, intelligente ed efficiente doveva sempre stare un passo avanti al criminale contemporaneo. Un giorno o l’altro qualcuno avrebbe tentato di rubare il Ponte di Ottone, e il sergente Colon era lì ad aspettarlo.

Nel frattempo, il ponte era un posto riparato dal vento, dove fumarsi una sigaretta rilassante e non vedere cose spiacevoli.

Si appoggiò con i gomiti al parapetto, riflettendo vagamente sulla Vita.

Una figura emerse barcollando dalla nebbia. Il sergente Colon riconobbe il familiare cappello a punta dei maghi.

«Buonasera, agente» gracchiò la figura.

«Buongiorno, eccellenza».

«Sarebbe così gentile da aiutarmi a salire sul parapetto, agente?»

Il sergente Colon esitò. Ma quel tale era un mago. Potevi finire in guai seri per non aver aiutato un mago.

«Prova una nuova magia, eccellenza?» disse in tono leggero, aiutando il tipo magro, ma sorprendentemente pesante, a salire sul muretto di pietra cadente.

«No».

Windle Poons saltò giù dal ponte. Si sentì un rumore colloso.[3]

Il sergente Colon guardò giù. Le acque dell’Ankh si richiusero, lentamente.

Questi maghi. Sempre con qualche impiccio per la testa.

Rimase per un po’ a osservare. Dopo diversi minuti il fango si agitò intorno alla base di uno dei piloni del ponte, dove una rampa di scalini unti portava fuori dall’acqua.

Apparve un cappello a punta.

Il sergente Colon sentì il mago salire silenziosamente le scale, imprecando fra i denti.

Windle Poons risalì sul ponte. Era zuppo.

«Vada a cambiarsi» disse il sergente Colon. «Si prenderà un accidenti andando in giro così».

«Hah!»

«Vada a mettersi con i piedi davanti a un bel fuoco, ecco quello che le ci vuole».

«Hah!»

Il sergente Colon guardò Windle Poons nella sua piccola pozzanghera personale.

«Stava provando qualche magia subacquea, eccellenza?» azzardò.

«Non esattamente, agente».

«Mi sono sempre domandato com’è, là sotto» disse il sergente Colon in tono incoraggiante. «I misteri degli abissi, creature strane e meravigliose… Una volta mia mamma mi ha raccontato una storia su un ragazzino che si è trasformato in una sirena, cioè no, in un sireno, e di tutte le sue avventure sotto il…»

La sua voce avvizzì sotto lo sguardo spaventoso di Windle Poons.

«È noioso» disse Windle. Poi si voltò e barcollò via nella nebbia. «Molto, molto noioso. Noiosissimo».

Il sergente Colon rimase solo. Accese una sigaretta nuova con mano tremante, e si avviò in fretta verso il quartier generale della Guardia.

«Quella faccia» si disse. «E quegli occhi… sembravano dei cosi, comesichiamano quei cosi che fanno i buchi…»

«Sergente!»

Colon si bloccò. Poi guardò in basso. Una faccia lo guardava da terra. Quando si riprese, riconobbe le fattezze marcate del suo vecchio amico Mi-Voglio-Rovinare Dibbler, l’argomento vivente più efficace del Mondo Disco in favore della teoria per cui l’umanità discende da una specie di roditori. M.V.R. Dibbler amava descrivere se stesso come avventuriero mercante; tutti gli altri amavano descriverlo come un ambulante i cui piani per fare soldi erano sempre sventati da qualche piccolo ma fatale errore, come per esempio cercare di vendere cose non sue, o che non funzionavano o, a volte, che nemmeno esistevano. L’oro delle fate svanisce al mattino, ma era cemento armato a confronto di alcune delle mercanzie di Rovina.

Era ai piedi di una delle rampe di scale che portavano a una delle infinite cantine di Ankh-Morpork.

«Ciao, Rovina».

«Potresti scendere un minuto, Fred? Forse mi serve un aiutino legale».

«Problemi, Rovina?»

Dibbler si grattò il naso.

«Non so, Fred… È un crimine, quando ti danno qualcosa? Cioè, senza che tu lo sappia?»

«Qualcuno ti ha dato qualcosa, Rovina?»

Rovina annuì. «Boh. Tu sai che tengo un po’ di mercanzia quaggiù?»

«Sì».

«Ecco, sono sceso a fare un po’ di inventario, e…» agitò una mano, perplesso. «Be’… dai un’occhiata…»

Aprì la porta della cantina.

Nell’oscurità qualcosa fece plop.


Windle Poons barcollava senza meta lungo un vicolo buio nelle Ombre, con le braccia tese davanti a lui e le mani pendule. Non sapeva perché. Gli sembrava solo che fosse giusto fare così.

Saltare giù da un edificio? No, non avrebbe funzionato. Già era difficile camminare così, due gambe rotte non avrebbero aiutato. Veleno? Immaginò che doveva essere come un brutto mal di stomaco. Impiccagione? Stare appeso probabilmente era più noioso che sedersi in fondo al fiume.

Arrivò in una rumorosa piazzetta dove si incontravano diversi vicoli. I topi scapparono davanti a lui, un gatto strillò e andò a rifugiarsi sui tetti.

Mentre era lì a chiedersi dove si trovava, perché ci si trovava e che cosa sarebbe successo dopo, sentì la punta di un coltello contro la schiena.

«Okay, nonno» disse una voce alle sue spalle. «O la borsa ola vita».

Nell’oscurità la bocca di Windle Poons formò un ghigno orribile.

«Non sto scherzando, vecchio» disse la voce.

«Siete della Gilda dei Ladri?» disse Windle, senza voltarsi.

«No, siamo… freelance. Avanti, fuori i soldi».

«Non ne ho» Windle si voltò. C’erano altri due rapinatori.

«Oh dei, guardate che occhi» disse uno.

Windle alzò le braccia sopra la testa.

«Oooooooh» gemette.

I rapinatori indietreggiarono. Sfortunatamente alle loro spalle c’era un muro. Ci si appiattirono contro.

«OoooOOOOoooofuoridaipiediiiiiiOOOOoooo» disse Windle, che non si era reso conto che l’unica via di fuga era passargli sopra. Alzò gli occhi al cielo per fare più effetto.

Folli di terrore, gli aspiranti assalitori si tuffarono sotto le sue braccia, non prima però che uno di loro affondasse il pugnale fino al manico nel petto convesso di Windle.

Lui lo guardò.

«Ehi! Era il mio vestito migliore!» disse. «Volevo farmici seppellire… ma guarda! Hai idea di quant’è difficile rammendare la seta? Torna qua, tu… ma guarda, proprio dove si vede…»

Rimase in ascolto. Non si udiva nulla, a parte il rumore di passi in fuga.

Windle Poons estrasse il coltello.

«Avrebbe potuto uccidermi» mormorò, gettandolo via.


Nella cantina, il sergente Colon raccolse uno degli oggetti da uno degli enormi mucchi sul pavimento.

«Devono essere migliaia» disse Rovina, dietro di lui. «Voglio proprio sapere chi ce li ha messi».[4]

Il sergente Colon si rigirò l’oggetto fra le mani.

«Non li ho mai visti prima» disse. Lo agitò e fece un gran sorriso. «Carini, no?»

«La porta era chiusa a chiave» disse Rovina. «E pago la Gilda dei Ladri».

Colon agitò di nuovo l’oggetto.

«Bello» disse.

«Fred?»

Colon, affascinato, guardò i piccoli fiocchi di neve ricadere all’interno del minuscolo globo di vetro. «Mmm?»

«Che cosa devo fare?»

«Boh. Secondo me sono tuoi, Rovina. Non capisco proprio perché buttarli via, però».

Si voltò verso la porta. Rovina gli si parò davanti.

«Allora fanno dodici pence» disse dolcemente.

«Cosa?»

«Per quello che ti sei appena messo in tasca, Fred».

Colon tirò fuori il globo.

«Ma dai!» protestò. «Li hai trovati qua! Non ti sono costati un soldo!»

«Sì, ma c’è lo stoccaggio… la confezione… la manutenzione…»

«Due pence» disse disperatamente Colon.

«Dieci».

«Tre».

«Sette… mi voglio rovinare».

«Affare fatto» disse il sergente con riluttanza. Agitò di nuovo il globo.

«Carini, eh?» disse.

«Valgono ogni penny» disse Dibbler. Si fregò le mani speranzoso. «Dovrebbero vendersi come il pane» disse, prendendone una manciata e mettendoli in una scatola.

Quando uscirono chiuse a chiave la porta.

Nell’oscurità qualcosa fece plop.


Ankh-Morpork aveva sempre avuto una buona tradizione di accoglienza nei confronti di gente di ogni razza, colore e forma, purché avesse soldi da spendere e il biglietto di ritorno.

Secondo la famosa pubblicazione a cura della Gilda dei Mercanti, AnkhMorpork, La Città Delle Mille Sorprese, ‘allo visitatore è garantita la calda accoglienza nelle molteplici locande e negli ostelli di quest’Antica Città, indove molti sono esperti nel gusto de li forestieri. Perciò che tu sia Uomo, Trollo, Nano, Gobelin o Gnomo, Ankh-Morpork brinderà alla tua salute! Da questa parte, ragazzo! Su le chiappe!’

Windle Poons non sapeva dove andavano a divertirsi i non-morti. L’unica cosa che sapeva con certezza era che se potevano divertirsi da qualche parte, quel posto era Ankh-Morpork.

I suoi passi faticosi lo portarono nei meandri delle Ombre. Solo che ora non erano più tanto faticosi.

Per oltre un secolo Windle Poons era vissuto all’interno delle mura dell’Università Invisibile. In termini di numero di anni, era anche vissuto a lungo. In termini di esperienza, aveva più o meno tredici anni.

Ora vedeva, sentiva e annusava cose che mai aveva visto, sentito o annusato.

Le Ombre erano la parte più antica della città. Se si fosse potuta fare una mappa in rilievo della peccaminosità, della cattiveria e dell’immoralità a tutto tondo, come quelle rappresentazioni dei campi gravitazionali attorno a un buco nero, perfino ad Ankh-Morpork le Ombre sarebbero state rappresentate da un picco. In effetti quella zona della città assomigliava molto al suddetto ben noto fenomeno astronomico: aveva una forte capacità di attrazione, la luce non ne usciva, e in effetti poteva diventare una porta verso un altro mondo. L’altro mondo, appunto.

Le Ombre erano una città nella città.

Le strade brulicavano di folla. Figure infagottate sgattaiolavano furtive verso misteriosi affari. Strane musiche affioravano da ripide rampe di scale, così come aromi pungenti ed eccitanti.

Poons superò rosticcerie goblin e bar di nani, da cui provenivano suoni di canti e risse, attività che per tradizione i nani svolgono contemporaneamente. E c’erano troll, che si muovevano tra la folla come… come tipi molto grossi tra tipi molto piccoli. E non trascinavano nemmeno i piedi.

Windle aveva visto finora i troll nelle zone più esclusive della città,[5] dove si muovevano con cautela esagerata per evitare di pestare accidentalmente a morte qualche passante per poi mangiarlo. Nelle Ombre camminavano spavaldi a grandi passi, con le teste talmente alte che quasi spuntavano al di sopra delle scapole.

Windle Poons vagava tra la folla come una pallina da flipper. Qui un fragore fumoso da un bar lo respingeva in strada, là una porticina discreta che prometteva delizie insolite e proibite lo attirava come una calamita. Nella vita di Windle Poons non c’erano nemmeno mai state molte delizie comuni e autorizzate. Non era nemmeno sicuro di sapere cosa fossero. Alcuni disegni fuori da una porta illuminata di rosa lo lasciarono ancora più perplesso, ma con una voglia incredibile di saperne di più.

Girò su se stesso, piacevolmente sbalordito.

Quel posto era solo a dieci minuti di cammino (quindici se barcollavi) dall’Università! E lui non l’aveva mai saputo! Tutta quella gente! Tutto quel rumore! Tutta quella vita!

Molte persone, di varie forme e specie, lo urtarono. Una o due fecero per dire qualcosa, poi chiusero in fretta la bocca e corsero via.

Pensavano… quegli occhi! Parevano succhielli.

E poi una voce dall’ombra disse: «Ciao, ragazzone. Ti va di divertirti?»

«Oh sì!» disse Windle Poons, perso nei suoi pensieri. «Oh, sì! Sì!»

Si voltò.

«Porca miseria!» Si udirono dei passi in fuga nel vicolo.

Windle si intristì.

Ovviamente la vita era solo per i vivi. Forse tutta quella faccenda di tornare al proprio corpo era stata un errore. Era stato uno stupido a pensare il contrario.

Girò sui tacchi, e badando a malapena a far battere il cuore, tornò all’Università.

Windle scarpinò attraverso il cortile verso l’Aula Magna. L’Arcicancelliere avrebbe saputo cosa fare…

«Eccolo là!»

«È lui!»

«Prendetelo!»

Il treno dei pensieri di Windle cadde in un precipizio. Si guardò intorno e vide cinque facce arrossate, preoccupate e soprattutto familiari.

«Oh, salve, Decano» disse in tono infelice. «E quello è il Sommo Algebrico? Oh, e c’è anche l’Arcicancelliere, questa sì che…»

«Acchiappagli il braccio!»

«Non guardatelo negli occhi!»

«Acchiappagli l’altro braccio!»

«È per il tuo bene, Windle!»

«Non è Windle! È una creatura della Notte!»

«Vi assicuro…»

«Prese le gambe?»

«Afferra la gamba!»

«Afferra l’altra gamba!»

«Avete tutto?» tuonò l’Arcicancelliere.

I maghi annuirono.

Mustrum Ridcully pescò nei pesanti recessi dei suoi abiti.

«Va bene, orrore in forma umana» ruggì, «che te ne pare di questo, eh? Ah-ha!»

Windle sbatté le palpebre per vedere meglio l’oggetto che l’altro gli aveva messo trionfante sotto il naso.

«Ehm, sì…» disse con diffidenza. «Direi… sì… mmm… sì, l’odore è inconfondibile… sì, non c’è dubbio. Allium sativum. Aglio comune. Giusto?»

I maghi lo fissarono. Poi fissarono il piccolo spicchio bianco. Poi di nuovo Windle.

«Ho indovinato, giusto?» disse, facendo un tentativo di sorriso.

«Ehm» disse l’Arcicancelliere. «Sì. Sì, è esatto». Ridcully si guardò intorno in cerca di qualcosa da aggiungere. «Ben fatto» disse.

«Grazie per il tentativo» disse Windle. «Lo apprezzo molto». Fece un passo avanti. I maghi avrebbero avuto più successo cercando di trattenere un ghiacciaio.

«Ora vado a fare un riposino» disse. «È stata una giornata lunga».

Barcollò nell’edificio e cigolò fin nella sua stanza. A quanto pareva qualcun altro aveva trasferito lì la propria roba, ma Windle rimediò raccogliendo tutto in una bracciata e gettandolo nel corridoio.

Poi si distese sul letto.

Dormire. Be’, stanco lo era. Perlomeno era un inizio. Ma dormire significava mollare i controlli, e non era sicuro che il sistema fosse del tutto operativo.

Ma poi, in fondo, aveva bisogno di dormire? Dopotutto era morto. Era un po’ come dormire, solo molto di più. Dicevano che morire era un po’ come dormire, anche se naturalmente se non ci stavi attento potevi marcire e perderti i pezzi.

E comunque cos’è che si faceva, nel sonno? Sognare… Non c’entrava in qualche modo il mettere ordine fra i ricordi? Come funzionava?

Fissò il soffitto.

«Non avrei mai pensato che essere morto fosse una tale rogna» disse a voce alta.

Dopo un po’ un debole ma insistente cigolio lo fece voltare.

Sul caminetto c’era un candelabro ornamentale, fissato con delle staffe al muro. Era un oggetto talmente familiare che Windle non lo vedeva veramente da cinquant’anni.

Si stava svitando. Girava lentamente, un cigolio ogni giro. Dopo cinque o sei giri cadde sul pavimento.

I fenomeni inspiegabili non erano di per sé insoliti su Mondo Disco.[6] Era solo che normalmente avevano un senso, o quanto meno erano un po’ più interessanti.

Niente altro sembrava intenzionato a muoversi. Windle si rilassò e tornò a mettere in ordine i suoi ricordi. C’erano cose di cui si era completamente dimenticato.

Ci fu un breve mormorio fuori, poi la porta si spalancò…

«Le gambe! Prendigli le gambe!»

«Tienigli le braccia!»

Windle cercò di sedersi. «Oh, ciao» disse. «Che succede?»

L’Arcicancelliere, ai piedi del letto, rovistò in un sacco e tirò fuori un grosso oggetto pesante.

Lo tenne in alto.

«Ah-ha!» disse.

Windle lo guardò.

«Sì?» disse, volenteroso.

«Ah-ha» ripeté l’Arcicancelliere, con un filo meno di convinzione.

«È un’ascia simbolica a doppio manico del culto di Io Cieco» disse Windle.

L’Arcicancelliere lo guardò con occhi vuoti.

«Ehm, sì» disse, «esatto». Se la gettò al di sopra della spalla, mancando per un pelo l’orecchio sinistro del Decano, e pescò di nuovo nel sacco.

«Ah-ha!»

«Quello è un bell’esempio del Dente Mistico di Offler il Dio Coccodrillo» disse Windle.

«Ah-ha!»

«E quello… vediamo… sì, è il set delle Sacre Anatre Volanti di Ordpor il Dozzinale. Divertente, il gioco!»

«Ah-ha».

«Quello… aspetta, non me lo dire, non me lo dire… è il sacro linglong del famigerato culto Sootee, non è vero?»

«Ah-ha?»

«Secondo me quello è il pesce a tre teste della religione del pesce a tre teste degli Howanda» disse Windle.

«Questo è ridicolo» disse l’Arcicancelliere, lasciando cadere il pesce.

I maghi incurvarono le spalle. Gli oggetti sacri non erano poi una cura così infallibile.

«Mi dispiace davvero di dare tanto disturbo» disse Windle.

Il Decano s’illuminò all’improvviso.

«La luce!» disse, eccitato. «La luce del giorno funzionerà!»

«Acchiappa la tenda!»

«Acchiappa l’altra tenda!»

«Uno, due, tre… ora!»

Windle sbatté le palpebre alla luce del sole.

I maghi trattennero il respiro.

«Mi dispiace» disse. «Pare che non funzioni».

I maghi si afflosciarono di nuovo.

«Non senti nulla?» chiese Ridcully.

«Nessuna sensazione di ridurti in polvere ed essere spazzato via?» disse il Sommo Algebrico, speranzoso.

«Il naso mi si spella se sto troppo al sole» disse Windle. «Ma non so se può servire». Cercò di sorridere.

I maghi si scambiarono un’occhiata, stringendosi nelle spalle.

«Fuori» disse l’Arcicancelliere. Uscirono in fila.

Ridcully li seguì. Si fermò sulla soglia e agitò un dito all’indirizzo di Windle.

«Questo atteggiamento non collaborativo, Windle, non le giova per nulla» disse, chiudendosi la porta alle spalle con uno schianto.

Dopo qualche secondo le quattro viti che tenevano la maniglia si svitarono molto lentamente. Si alzarono in volo, orbitando vicine al soffitto per un po’, poi caddero.

Windle ci pensò su per un po’.

Ricordi. Ne aveva tanti. Centotrenta anni di ricordi. Quando era vivo non riusciva a ricordare nemmeno un centesimo delle cose che sapeva, ma ora che era morto, e la mente era sgombra da ogni cosa a parte il filo argenteo dei pensieri, le sentiva tutte lì, presenti. Tutto quello che aveva letto, tutto quello che aveva visto, tutto quello che aveva sentito. Era tutto lì, schierato in ranghi ordinati. Nulla era dimenticato, ogni cosa era al suo posto.

Tre fenomeni inesplicabili in un giorno. Quattro, se si contava anche la sua perdurante esistenza. Quella era veramente inspiegabile.

E richiedeva una spiegazione.

Be’, che ci pensasse qualcun altro. Ormai niente più era affar suo.


I maghi si accoccolarono fuori dalla porta della stanza di Windle.

«Avete tutto?» chiese Ridcully.

«Ma perché non lo facciamo fare ai domestici?» mormorò il Sommo Algebrico. «Non è dignitoso».

«Perché voglio che sia fatto bene e con dignità» sbottò l’Arcicancelliere. «Se bisogna conficcare un paletto dentro un mago e seppellirlo a un crocevia, allora che siano dei maghi a farlo. Dopotutto siamo suoi amici».

«Cos’è questo?» chiese il Decano, esaminando l’aggeggio che aveva in mano.

«Si chiama badile» disse il Sommo Algebrico. «L’ho visto usare dai giardinieri. Si pianta nel terreno la parte appuntita. Poi la cosa diventa un po’ più tecnica».

Ridcully sbirciò dal buco della serratura.

«Si è steso di nuovo» disse. Si alzò, spolverandosi le ginocchia, e afferrò la maniglia. «Bene» disse. «Al mio via. Uno… due…»

Modo il giardiniere stava spingendo un carretto pieno di potature di siepe verso un falò dietro il nuovo edificio dei laboratori di Magia a Elevata Energia, quando una mezza dozzina di maghi passò a una velocità che, per dei maghi, era sostenuta. Windle Poons era portato in alto in mezzo a loro.

Modo lo sentì dire: «Arcicancelliere, è proprio sicuro che stavolta funzionerà…?»

«Abbiamo molto a cuore i suoi interessi» disse Ridcully.

«Ne sono certo, ma…»

«Presto ti faremo sentire meglio» disse il Tesoriere.

«No, invece» sibilò il Decano. «È proprio questo il punto!»

«Presto non ti faremo sentire meglio, è proprio questo il punto» balbettò il Tesoriere mentre giravano l’angolo.

Modo riprese i manici del carretto e lo spinse pensierosamente verso il luogo appartato dove faceva i falò e teneva il compost, il pacciame, e la capannina dove si riparava quando pioveva.

Una volta era aiutogiardiniere a Palazzo, ma questo lavoro era molto più interessante. Si viveva sul serio, qui.


Quella di Ankh-Morpork è una società di strada. Succede sempre qualcosa di interessante. Al momento, il conducente di un carretto di frutta a due cavalli stava tenendo sollevato il Decano per il colletto a venti centimetri da terra, e stava minacciando di rigirargli la testa al contrario.

«Sono pesche, è chiaro?» continuava a urlare. «Lo sai cosa succede alle pesche che rimangono lì per troppo tempo? Si ammaccano. E qui stanno per ammaccarsi un sacco di altre cose».

«Sono un mago, sa» disse il Decano, con il cappello a punta penzoloni. «Se non fosse che usare la magia per scopi non puramente difensivi sarebbe contro le regole, lei sarebbe decisamente in guai grossi».

«Ma che state facendo?» disse il carrettiere, posando a terra il Decano in modo da poter guardare sospettosamente oltre la sua spalla.

«Sì» disse un uomo che cercava di controllare una squadra che tirava un carro di legname, «che succede? Qui c’è gente che viene pagata all’ora, sapete?»

«Muovetevi, là davanti!»

Il conducente della legna si voltò verso la fila di carri dietro di lui. «Ci sto provando» disse. «Non è mica colpa mia! C’è un mucchio di maghi che scava tutta la strada del cavolo!»

La faccia fangosa dell’Arcicancelliere fece capolino dall’orlo della buca.

«Ma santo cielo, Decano» disse, «le avevo detto di sistemare la questione!»

«Sì, stavo dicendo a questo signore di indietreggiare e prendere un’altra strada» disse il Decano, che temeva di stare per soffocare.

Il fruttivendolo lo girò in modo che potesse vedere le strade intasate. «Mai provato a far indietreggiare sessanta carri tutti insieme?» domandò. «Non è facile. Specialmente se nessuno si può muovere perché voialtri avete fatto le cose in modo che ogni carro blocchi la strada all’altro!»

Il Decano cercò di annuire. Si era posto qualche dubbio circa l’opportunità di scavare la buca all’incrocio tra la Via dei Piccoli Dei e la Via Larga, due delle vie più trafficate di Ankh-Morpork. Al momento era sembrata una scelta logica. Anche il più pervicace dei non-morti sarebbe rimasto decorosamente sepolto sotto quel volume di traffico. L’unico problema era che nessuno aveva pensato seriamente alla difficoltà di fare degli scavi in due strade principali all’ora di punta.

«Va bene, va bene, che succede qui?»

La folla di spettatori si aprì per lasciar passare la figura massiccia del sergente Colon della Guardia. Si fece strada fra la folla, inarrestabile, con la pancia che lo precedeva. Quando vide i maghi, immersi fino alla vita in una buca in mezzo all’incrocio, il suo faccione rosso si illuminò.

«Che abbiamo qui?» disse. «Una banda di ladri internazionali di incroci?»

Era al settimo cielo. La sua politica a lungo termine stava pagando!

L’Arcicancelliere rovesciò una badilata di terriccio di Ankh-Morpork sui suoi stivali.

«Non faccia lo stupido» sbottò. «La cosa è di importanza vitale».

«Oh sì. Dicono tutti così» disse il sergente Colon, che non era il tipo d’uomo che si faceva distrarre da un percorso mentale, una volta che aveva preso l’avvio. «Scommetto che ci sono centinaia di paesi in posti pagani come Klatch che pagano una fortuna per un bell’incrocio di prestigio come questo, eh?»

Ridcully lo guardò a bocca aperta.

«Che sta farneticando, agente?» disse. Indicò il cappello a punta, irritato. «Non mi ha sentito? Siamo maghi. Queste sono faccende da maghi. Perciò faccia il bravo e diriga un po’ questo traffico…»

«… le pesche si ammaccano appena le guardi…» disse una voce alle spalle del sergente Colon.

«Quei vecchi scemi ci tengono qui da più di mezz’ora» disse un mandriano che aveva ormai perso il controllo di quaranta capi che vagavano senza meta nelle strade vicine. «Li deve arrestare».

Il sergente realizzò che si era messo inavvertitamente al centro di un dramma che coinvolgeva centinaia di persone, alcune delle quali erano maghi, e tutte molto nervose.

«Ma che state facendo?» domandò debolmente.

«Stiamo seppellendo il nostro collega. A lei cosa sembra?» disse Ridcully.

Gli occhi di Colon corsero a una bara aperta al lato della strada. Windle Poons gli fece un piccolo ciao con la mano.

«Ma… non è morto… vero?» disse, aggrottando la fronte nel tentativo di capire la situazione.

«Le apparenze ingannano» disse l’Arcicancelliere.

«Ma mi ha appena salutato» disse il sergente, perso.

«E allora?»

«Be’, non è normale per i…»

«Va tutto bene, sergente» disse Windle.

Il sergente Colon si avvicinò alla bara.

«Ma ieri notte non l’ho vista buttarsi nel fiume?» chiese a mezza bocca.

«Sì. È stato di grande aiuto» disse Windle.

«E poi è riemerso di nuovo» disse il sergente.

«Temo di sì».

«Ma è rimasto sotto un sacco di tempo».

«Sì, era molto buio. Non trovavo i gradini».

Il sergente Colon ammise che aveva senso.

«Allora immagino che sia morto» disse. «Nessuno che non fosse già morto poteva stare laggiù».

«Infatti» convenne Windle.

«Allora perché parla e saluta?» chiese Colon.

Il Sommo Algebrico fece capolino dalla buca.

«Non è strano che un morto si muova e produca dei suoni, sergente» disse, incoraggiante. «È tutta colpa degli spasmi muscolari involontari».

«Il Sommo Algebrico ha ragione» disse Windle Poons. «L’ho letto anch’io da qualche parte».

«Oh». Il sergente Colon si guardò intorno. «Bene» disse, incerto. «Bene… tutto a posto, direi…»

«Okay, siamo pronti» disse l’Arcicancelliere, arrampicandosi fuori dalla buca, «è abbastanza profonda. Avanti, Windle, si metta giù».

«Sono davvero commosso, sa» disse Windle sdraiandosi nella bara. Era di buona qualità, veniva dall’obitorio in Via Olmo. L’Arcicancelliere gliel’aveva lasciata scegliere.

Ridcully prese un mazzuolo.

Windle si alzò di nuovo a sedere.

«Vi date tutti tanto disturbo…»

«Sì, esatto» disse Ridcully, guardandosi intorno. «Chi ha il paletto?»

Tutti guardarono il Tesoriere.

Il Tesoriere era molto infelice.

Rovistò in una borsa.

«Non l’ho trovato» disse.

L’Arcicancelliere si coprì gli occhi con la mano.

«Ho capito» disse piano. «Non mi sorprende, sa? No, per niente. E che cosa ha trovato? Costolette d’agnello? Un bel pezzo di maiale?»

«Sedano» disse il Tesoriere.

«È colpa dei suoi nervi» si affrettò a dire il Decano.

«Sedano» ripeté l’Arcicancelliere, il cui autocontrollo era rigido tanto da riuscire a piegare un ferro di cavallo. «Ho capito».

Il Tesoriere gli porse un cespo verde e fradicio. Ridcully lo prese.

«E ora, Windle» disse, «vorrei che immaginasse che quello che ho in mano…»

«Non c’è problema» disse Windle.

«Non sono così sicuro di poter conficcare…»

«Gliel’assicuro, per me non è un problema» disse Windle.

«No?»

«Il principio è chiaro» disse Windle. «Se mi dà il sedano ma pensa di conficcare un paletto, probabilmente basterà».

«È molto gentile da parte sua» disse Ridcully. «Dimostra il giusto spirito».

«Spirito di salma» disse il Sommo Algebrico.

Ridcully lo fulminò con un’occhiata, poi tese il sedano a Windle con un gesto teatrale.

«Prenda qua!» disse.

«Grazie» disse Windle.

«Ora mettiamo su il coperchio e andiamo a pranzo» disse Ridcully. «Non si preoccupi, Windle. Deve funzionare per forza. Oggi è l’ultimo giorno del resto della sua vita».

Windle si distese al buio, ascoltando il martellamento. Ci fu un tonfo e un’imprecazione soffocata all’indirizzo del Decano per non aver sorretto bene l’estremità. Poi il terriccio sul coperchio, sempre più flebile e lontano.

Dopo un po’ un brontolio distante suggerì che il traffico cittadino era ripartito. Sentiva perfino delle voci indistinte.

Batté sul coperchio della bara.

«Volete fare silenzio?» disse. «Qui c’è gente che cerca di restare morta!»

Le voci smisero. Ci fu un rumore di passi che correvano via.

Windle rimase là per un po’. Non poteva dire quanto. Cercò di interrompere le sue funzioni, ma tutto diventava ancora più scomodo. Ma perché era tanto difficile morire? Gli altri sembravano riuscirci anche senza fare esercizio.

Oltretutto, gli prudeva una gamba.

Cercò di allungarsi per grattarla, e la sua mano toccò qualcosa di piccolo e dalla forma irregolare. Riuscì ad afferrarlo tra le dita.

Sembravano fiammiferi.

In una bara? Pensavano che uno potesse fumarsi un sigaro con calma, tanto per passare il tempo?

Dopo un certo numero di sforzi riuscì a togliersi uno stivale facendo leva con l’altro, e di tirarlo a sé in modo da avere una superficie ruvida su cui accendere il fiammifero…

La luce sulfurea inondò il suo piccolo mondo oblungo.

C’era un piccolo cartoncino fissato all’interno del coperchio.

Lo lesse.

Lo lesse di nuovo.

Il fiammifero si spense.

Ne accese un altro, per verificare che ciò che aveva letto esistesse davvero.

Il messaggio era altrettanto strano, anche dopo la terza volta:


TI SENTI MORTO? DEPRESSO?

HAI VOGLIA DI RICOMINCIARE DA CAPO?

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APERTO A TUTTI


Il secondo fiammifero si spense, consumando l’ultimo ossigeno.

Windle rimase per un po’ al buio, pensando alla prossima mossa mentre finiva il sedano.

Chi ci avrebbe mai pensato?

All’improvviso il defunto Windle Poons realizzò che non era affatto il problema di qualcun altro, e che proprio quando pensi che il mondo ti abbia messo da parte viene fuori che è pieno di stranezze. Sapeva per esperienza che i vivi restavano all’oscuro della metà delle cose che succedevano, perché erano troppo occupati a essere vivi. Sono gli osservatori a vedere davvero il gioco, si disse.

Erano i vivi che ignoravano le cose strane e meravigliose, perché la vita era troppo piena di noia e banalità. Però era strana. C’erano cose che si avvitavano e svitavano, e piccoli messaggi per i morti.

Decise di scoprire cosa succedeva. E poi… se Morte non fosse venuto da lui, sarebbe andato a cercarlo. Aveva i suoi diritti, dopotutto. Proprio così. Avrebbe condotto la più grande caccia all’uomo di tutti i tempi.

Windle sorrise nell’oscurità.

Denuncia di scomparsa… Morte presunta.

Oggi era ’A primo giorno del resto della sua vita.

E Ankh-Morpork era ai suoi piedi. Sì, insomma, in senso metaforico. Non poteva fare altro che risalire.

Cercò a tastoni il cartoncino, lo prese e se lo mise fra i denti.

Windle Poons puntò i piedi contro il fondo della cassa, portò le mani sopra la testa e spinse.

Il terriccio molle di Ankh-Morpork si mosse appena.

Windle si fermò per abitudine, come per riprendere fiato, e si rese conto che non aveva senso. Spinse di nuovo. Il fondo della bara andò in pezzi.

Windle la tirò a sé e strappò come carta il coperchio di pino massiccio. Rimase con un pezzo di asse che come pala sarebbe stato perfettamente inutile per chiunque non avesse una forza da zombie.

Voltandosi a pancia in sotto e scavando con la sua pala improvvisata, Windle Poons si fece strada verso il suo nuovo inizio.


Immaginate un paesaggio, una pianura con dolci ondulazioni.

È tarda estate nella campagna color ottarino ai piedi degli alti picchi delle Ramtop, e i colori predominanti sono il marrone scuro e l’oro. Il calore brucia il paesaggio. Le cavallette strigolano come in una padella. È l’estate più calda a memoria di essere vivente, e da queste parti significa molto, molto tempo.

Immaginate una figura a cavallo, che avanza lentamente lungo una strada che non è altro che un solco nella polvere tra campi di grano che promettono già un raccolto insolitamente abbondante.

Immaginate uno steccato di legno secco e morto. C’è un cartello inchiodato. Il sole ha sbiadito le lettere, ma sono ancora leggibili.

Immaginate un’ombra che copre il cartello. Si può quasi sentirla leggere le due parole.

C’è un viottolo che porta a un piccolo gruppo di edifici sbiaditi.

Immaginate dei passi strascicati.

Immaginate una porta, aperta.

Immaginate una stanza buia e fresca, osservata dalla soglia Non è una stanza molto vissuta. È una stanza per gente che vive all’aperto ma a volte deve rientrare, quando fa buio. È una stanza per finimenti e cani, una stanza in cui si appendono ad asciugare le cerate. Accanto alla porta c’è un barile di birra. Il pavimento è di pietra e lungo le assi del soffitto sono appesi dei ganci per pancetta. C’è un tavolo ruvido dove possono sedersi trenta uomini affamati.

Non ci sono uomini. Non ci sono cani. Non c’è birra. Non c’è pancetta.


Al bussare seguì il silenzio, e poi un ciabattare sulla pietra. Alla fine, una donna anziana e magra, con la pelle e il viso del colore e della consistenza di una noce, si affacciò alla porta.

«Sì?» disse.

IL CARTELLO DICE ‘CERCASI AIUTO’.

«Ah sì? Ah sì? Sta lì dall’inverno scorso!»

COME, SCUSI? NON CERCA AIUTO?

La faccia rugosa lo guardò pensierosa.

«Non posso pagare più di sei pence a settimana, però» disse.

L’alta figura che si stagliava contro la luce del sole sembrò pensarci su.

SÌ, disse alla fine.

«Non saprei nemmeno da che parte farti cominciare. Sono tre anni che qui non c’è un vero aiuto. Quando mi serve assumo qualche buonannulla del villaggio».

SÌ?

«E quindi per te va bene?»

HO UN CAVALLO.

La vecchia guardò alle spalle dello sconosciuto. Nel cortile c’era il cavallo più bello che avesse mai visto. Strinse gli occhi.

«E quello è il tuo cavallo?»

SÌ.

«Con tutto quell’argento sui finimenti?»

SÌ.

«E vuoi lavorare per sei pence a settimana?»

SÌ.

La donna strinse le labbra. Guardò lo sconosciuto, poi il cavallo, poi la desolazione attorno alla fattoria. Poi parve giungere a una decisione, probabilmente sulla base del fatto che una persona priva di cavalli non aveva nulla da temere da un ladro di cavalli.

«Tu dormi nella stalla, chiaro?» disse.

DORMIRE? NATURALMENTE. SÌ, DOVRÒ DORMIRE.

«E comunque non ti posso tenere in casa. Non sarebbe giusto».

LA STALLA SARÀ PIÙ CHE ADEGUATA, GLIELO ASSICURO.

«Ma puoi venire in casa per mangiare».

GRAZIE.

«Io sono la signorina Flitworth».

SÌ.

Lei aspettò.

«Immagino che abbia un nome anche tu» suggerì.

SÌ. È GIUSTO.

Lei aspettò di nuovo.

«Allora?»

COME, SCUSI?

«Come ti chiami?»

Lo sconosciuto la fissò per un istante, poi si guardò freneticamente intorno.

«Avanti» disse la signorina Flitworth. «Non assumo nessuno senza un cognome, signor…?»

La figura guardò in alto.

SIGNOR CIELO?

«Nessuno si chiama signor Cielo».

SIGNOR… PORTA?

La donna annuì.

«Potrebbe essere, potrebbe essere. Conoscevo un tizio che si chiamava così. Sì. Signor Porta. E il nome? Non dirmi che non hai nemmeno quello. Devi essere un Bill, un Tom, un Bruce o qualcosa del genere».

SÌ.

«Sì cosa?»

UNO DI QUELLI.

«Quale?»

EHM. IL PRIMO?

«Sei un Bill?»

SÌ?

La signorina Flitworth alzò gli occhi al cielo.

«Va bene, Bill Cielo…» disse.

PORTA.

«Sì, scusa Va bene, Bill Porta…»

MI CHIAMI BILL.

«E tu chiamami signorina Flitworth. Immagino che tu voglia cenare.»

CENARE? AH SÌ. IL PASTO DELLA SERA SÌ.

«Sembri mezzo morto di fame, a dire il vero. Anche più di mezzo, in realtà». Guardò lo sconosciuto stringendo gli occhi. In un certo senso era molto difficile capire che aspetto avesse Bill Porta, o ricordare il suono esatto della sua voce. Chiaramente era lì, e chiaramente aveva parlato: altrimenti come facevi a ricordarlo?

«Da queste parti c’è un sacco di gente che non usa il nome con cui è nata» disse. «Io dico sempre che non ci si guadagna nulla a fare domande personali. Immagino che sappia lavorare, signor Porta? Sto ancora portando la paglia dai campi e ci sarà un sacco da fare per il raccolto. Sai usare la falce?»

Bill Porta sembrò meditare sulla domanda per un po’. Poi disse: CREDO CHE LA RISPOSTA SIA DECISAMENTE SÌ, SIGNORINA FLITWORTH.


Anche Mi-Voglio-Rovinare Dibbler pensava che non avesse senso fare domande personali, quanto meno quando riguardavano lui ed erano sul genere «Ma la mercanzia che vendi è tua?» Ma a quanto pareva nessuno si stava facendo avanti per rinfacciargli di vendere la sua proprietà, e a lui bastava. Aveva venduto più di un migliaio di piccoli globi quella mattina, e aveva dovuto assumere un troll per mantenere il flusso dalla misteriosa fonte nella cantina.

La gente li adorava.

Il principio dell’operazione era ridicolmente semplice e facilmente comprensibile dall’abitante medio di Ankh-Morpork, dopo qualche falsa partenza.

Se si scuoteva il globo, una nuvola di piccoli fiocchi di neve candidi turbinava nel liquido all’interno e si posava delicatamente sulla miniatura di un noto monumento di Ankh-Morpork. In alcuni globi era l’Università o la Torre delle Arti, il Ponte di Ottone o il Palazzo del Patrizio. I dettagli erano strabilianti.

E non ce n’erano più. È un peccato, pensò Rovina. Dal momento che non erano tecnicamente suoi (anche se moralmente, certo, moralmente erano suoi), non poteva lamentarsi. Cioè, ovviamente poteva, ma solo a mezza bocca e con nessuno in particolare. Ma forse era meglio così, se ci pensavi. Tanta roba a poco prezzo. Liberati di tutto… rendeva più facile dire, dopo, «Chi? Io?» con aria offesa.

Però erano proprio carini. A parte, cosa strana, per la scritta. Era sul fondo di ciascun globo, in lettere incerte e dilettantesche, come se qualcuno che non aveva mai visto la scrittura cercasse di copiarla. Sul fondo dei globi, sotto i piccoli, intricati edifici coperti di neve, c’erano le parole:


un pre ente

da ankh-morpork


Mustrum Ridcully, Arcicancelliere dell’Università Invisibile, era un autoconditore[7] senza vergogna. Aveva un suo contenitore personale che gli veniva messo davanti a ogni pasto. Conteneva sale, tre tipi di pepe, quattro tipi di senape, quattro tipi di aceto, quindici tipi diversi di chutney e la sua preferita, la salsa Wow-Wow: un misto di scumble invecchiata, cetrioli in salamoia, capperi, senape, mango, fichi, wahooni alla griglia, essenza di acciuga, assafetida e, significativamente, zolfo e salnitro per una maggiore potenza. Ridcully aveva ereditato la formula da suo zio che una sera, dopo una mezza pinta di salsa durante una cena robusta, aveva mangiato un biscotto al carbone per sistemarsi lo stomaco, aveva acceso la pipa ed era scomparso in circostanze misteriose, anche se l’estate successiva le sue scarpe erano state ritrovate sul tetto.

C’era montone freddo per pranzo. Il montone andava benissimo con la salsa Wow-Wow; la sera della morte di Ridcully senior, per esempio, era andato perlomeno per tre miglia.

Mustrum si legò il tovagliolo al collo, si fregò le mani e fece per prendere la salsa.

Il contenitore si spostò.

Ridcully tese di nuovo la mano. Il contenitore slittò via.

Ridcully sospirò.

«Va bene, gente» disse. «Conoscete le regole: niente magia a tavola. Chi è che fa scherzi idioti?»

Gli altri maghi anziani lo fissarono.

«Io, io, io non credo che possiamo giocarci più» disse il Tesoriere, che di tanto in tanto rimbalzava sulle pareti della sanità mentale. «Io, io, io credo che abbiamo perso dei pezzi…»

Si guardò intorno, ridacchiò e tornò a cercare di tagliare il suo montone con il cucchiaio. Al momento gli altri maghi gli tenevano lontani i coltelli.

Tutto il set da condimento si alzò in volo e cominciò a ruotare lentamente su se stesso. Poi esplose.

I maghi, sgocciolando aceto e spezie costose, lo guardarono con occhi tondi.

«Probabilmente è stata la salsa» azzardò il Decano. «Ieri sera aveva proprio raggiunto un punto critico».

Qualcosa gli cadde sulla testa, poi finì nel suo pranzo. Era una vite di ferro nero, lunga diversi centimetri.

Un’altra procurò al Tesoriere una lieve commozione cerebrale.

Dopo un paio di secondi, una terza vite si conficcò sul tavolo accanto alle mani dell’Arcicancelliere.

I maghi guardarono in su.

L’Aula Magna era illuminata di sera da un enorme lampadario, anche se il termine associato così spesso a oggetti di vetro scintillanti e prismatici sembrava poco appropriato per l’enorme, pesante aggeggio nero e incrostato di sego che pendeva dal soffitto come una minaccia di bancarotta. Poteva reggere un migliaio di candele. Era appeso direttamente sul tavolo dei maghi anziani.

Un’altra vite tintinnò sul pavimento accanto al camino.

L’Arcicancelliere si schiarì la voce.

«Via?» suggerì.

Il lampadario cadde.

Pezzi di tavolo e di stoviglie si conficcarono nelle pareti. Letali agglomerati di sego, delle dimensioni di una testa d’uomo, furono proiettati fuori dalle finestre. Una candela intera, sparata a folle velocità dalla caduta, si piantò per diversi centimetri in una porta.

L’Arcicancelliere si districò da ciò che rimaneva della sua sedia.

«Tesoriere!» urlò.

Il Tesoriere fu riesumato dal camino.

«Ehm, sì, Arcicancelliere?» disse con voce tremula.

«Che significa questo?»

Il cappello di Ridcully gli si sollevò dalla testa.

Era un normale cappello a punta da mago con la tesa floscia, ma era stato adattato alla vita all’aperto del suo proprietario. C’erano attaccate delle esche; una balestra molto piccola era infilata nel nastro, nel caso in cui vedesse qualcosa a cui sparare mentre faceva jogging, e Mustrum Ridcully aveva scoperto che la punta era esattamente della misura di una bottiglietta di Brandy Particolare Stravecchio di Bentinck. Era molto attaccato al suo cappello.

Era il cappello che non era più attaccato a lui.

Fluttuò dolcemente per la stanza. Si sentì un flebile ma distinto gorgoglio da deglutizione.

L’Arcicancelliere balzò in piedi. «Miseria schifosa!» ruggì. «Quella roba costa nove dollari al quinto!» Cercò di acchiapparlo con un salto, non ci riuscì, ma continuò a salire fino a diversi metri di altezza.

Il Tesoriere alzò la mano, nervoso.

«Tarli, magari?» disse.

«Un’altra mossa come questa» ruggì Ridcully, «anche solo una, e mi arrabbio sul serio, è chiaro?»

Cadde a terra nel momento esatto in cui le porte si aprirono. Uno degli uscieri dell’Università irruppe nella stanza, seguito da una squadra delle guardie di palazzo del Patrizio.

Il capitano squadrò l’Arcicancelliere con l’espressione di uno che pronuncia la parola ‘civile’ con lo stesso tono di ‘scarafaggio’.

«Lei è il capo?» chiese.

L’Arcicancelliere si lisciò la veste e cercò di raddrizzare la barba.

«Sì, sono l’Arcicancelliere di questa Università» disse.

Il capitano delle guardie si guardò intorno con curiosità. Gli studenti erano tutti al riparo all’altro capo della stanza. Resti di cibo coprivano le pareti per quasi tutta l’altezza. Pezzi di mobilia erano sparsi intorno alle macerie del lampadario come alberi intorno al punto d’impatto di un meteorite.

Poi parlò con tutto il disgusto di una persona la cui istruzione si è fermata all’età di nove anni, ma che ha sentito delle storie…

«Si indulge nei piaceri dell’alcol, eh?» disse. «Si gioca a boccette con i panini?»

«Posso sapere il motivo di questa intrusione?» disse freddamente Ridcully.

Il capitano delle guardie si appoggiò alla sua lancia.

«Ecco» disse, «le cose stanno così. Il Patrizio è barricato nella sua stanza da letto, perché tutti i mobili del Palazzo se ne vanno in giro sfrecciando che non ci si crede, e i cuochi non vogliono tornare in cucina per quello che succede anche lì…»

I maghi cercavano di non guardare la punta della lancia. Si stava svitando.

«Insomma» proseguì il capitano, ignaro del lieve rumore metallico, «il Patrizio mi chiama attraverso il buco della serratura e mi fa: ‘Douglas, mi chiedevo se potessi fare un salto all’Università e chiedere al capo di essere così gentile da passare di qui, se non è troppo disturbo?’ Ma posso sempre tornare a dirgli che è occupato in questioni goliardiche, se crede».

La punta della lancia era quasi staccata dall’asta.

«Mi sta ascoltando?» chiese il capitano, sospettoso.

«Mmm? Cosa?» disse l’Arcicancelliere, distogliendo lo sguardo dal ferro che girava. «Ah. Sì. Ebbene, amico mio, le posso assicurare che non siamo noi la causa di…»

«Ahiaa!»

«Come, scusi?»

«La punta della lancia mi è caduta sul piede!»

«Ah sì?» chiese Ridcully con aria innocente.

Il capitano della guardia cominciò a saltare su e giù.

«Insomma, avete intenzione di venire o no, razza di trafficanti di pozioni?» disse, tra i rimbalzi. «Il capo non è contento. Proprio per niente».


Una grande nube informe di Vita attraversava Mondo Disco, come l’acqua che si accumula dietro una diga quando le cateratte sono chiuse. Senza la Morte a riprendersi la forza vitale quando non ce n’era più bisogno, non aveva altro posto dove andare.

Qua e là si rintanava in casuali attività poltergeist, come lampi estivi prima di una tempesta.

Ogni cosa che esiste vuole vivere. È questa la natura del ciclo della vita. È il motore che guida la grande pompa biologica dell’evoluzione. Ogni cosa cerca di farsi strada su per l’albero, aggrappandosi con le unghie, con i tentacoli o con le spire fino al prossimo appiglio, fino a raggiungere la cima… che poi, in generale, non sembra mai all’altezza di tutta quella fatica.

Ogni cosa che esiste vuole vivere. Anche cose che vive non sono. Cose che hanno una sorta di sotto-vita, una vita metaforica, una quasi-vita. E ora, come un periodo di caldo improvviso porta fioriture innaturali ed esotiche…

C’era qualcosa in quei piccoli globi. Qualcosa ti spingeva a prenderli e scuoterli, a guardare i graziosi fiocchi di neve che turbinavano e scintillavano. E poi a portarli a casa e metterli sul caminetto.

E poi a dimenticartene del tutto.


I rapporti tra l’Università e il Patrizio, governatore assoluto e dittatore quasi benevolo di Ankh-Morpork, erano complessi e sottili.

I maghi sostenevano che, in quanto servitori di una verità superiore, non erano soggetti alle leggi secolari della città.

Il Patrizio diceva che sì, certo, le cose stavano così, ma che dovevano pagare le maledette tasse come chiunque altro.

I maghi dicevano che, in quanto seguaci della luce della saggezza, non dovevano fedeltà ad alcun mortale.

Il Patrizio diceva che non si trattava di fedeltà, ma di una tassa comunale di duecento dollari pro capite all’anno, pagabile trimestralmente.

I maghi dicevano che l’Università sorgeva su terreno magico ed era perciò esente da tasse; e che comunque non si poteva tassare la conoscenza.

Il Patrizio diceva che si poteva eccome. Duecento dollari pro capite; se il problema era il capite, a decapitare si faceva presto.

I maghi dicevano che l’Università non aveva mai pagato tasse alle autorità civili.

Il Patrizio diceva che non intendeva restare civile per molto.

I maghi dicevano: si potrebbe addivenire a un accordo amichevole?

Il Patrizio diceva che quello era un accordo amichevole. Era meglio che non sapessero com’era quello non amichevole.

I maghi dicevano che c’era stato un governatore un tempo, oh, sarà stato il Secolo della Libellula, che aveva cercato di dire all’Università cosa doveva fare. Il Patrizio poteva venire a dargli un’occhiata, se ne aveva voglia.

Il Patrizio diceva che ci sarebbe andato molto volentieri.

Alla fine era stato convenuto che i maghi naturalmente non avrebbero pagato tasse; ciò nondimeno, avrebbero fatto una donazione interamente volontaria, di… ecco, diciamo duecento dollari pro capite, senza impegno, senza pregiudiziali, mutatis mutandis, da usarsi strettamente per scopi non militari e accettabili dal punto di vista ambientale.

Era questo interscambio dinamico tra blocchi di potere che rendeva Ankh-Morpork un posto così interessante, stimolante, ma soprattutto maledettamente pericoloso.[8]


I maghi anziani non giravano spesso per quelli che Ben Venuti ad AnkhMorpork probabilmente chiamava le arterie pulsanti e gli intimi recessi della città, ma fu immediatamente chiaro che qualcosa non andava. Non era il fatto che le pietre del selciato volassero: ogni tanto qualcuno le lanciava. Era che di solito non fluttuavano spontaneamente.

Una porta si aprì e ne uscì un completo da uomo, seguito da un paio di scarpe danzanti e un cappello sospeso a qualche decina di centimetri sopra il bavero. Dietro il tutto c’era un uomo magro che cercava di fare con una salvietta ciò che di solito necessita di un intero paio di pantaloni.

«Torna subito qui!» gridò, mentre il completo girava l’angolo. «Devo ancora sette dollari per te!»

Un secondo paio di pantaloni corse in strada e si precipitò dietro agli altri.

I maghi si accostarono l’uno all’altro, come un animale spaventato con cinque teste a punta e dieci gambe, chiedendosi chi per primo avrebbe fatto un commento.

«Ma è roba da pazzi!» disse l’Arcicancelliere.

«Mmm?» disse il Decano, cercando di suggerire che di solito vedeva cose molto più pazzesche di quella, e che attirando l’attenzione su un semplice completo che se ne andava in giro per conto suo, l’Arcicancelliere stava facendo cadere di tono tutta la stregoneria.

«Oh, andiamo. Non conosco molti sarti che aggiungono un altro paio di pantaloni a un vestito da sette dollari» disse Ridcully.

«Ah» disse il Decano.

«Se ripassa, cerca di acchiapparlo, così leggiamo l’etichetta».

Un lenzuolo uscì da sotto una finestra di un piano alto e svolazzò via sui tetti.

«Sapete» disse il professore di Rune Recenti, tentando di mantenere un tono calmo e rilassato. «Secondo me questa non è magia. Non dà proprio l’impressione della magia».

Il Sommo Algebrico pescò in una delle profonde tasche della veste. Ci furono tintinnii e fruscii soffocati, e di tanto in tanto un gracchiare. Alla fine tirò fuori un cubo di vetro blu scuro. Aveva un quadrante sul davanti.

«Ti porti in tasca uno di quelli?» disse il Decano. «Uno strumento così prezioso?»

«Che accidenti è?» chiese Ridcully.

«È uno strumento incredibilmente sensibile di misurazione della magia» rispose il Decano. «Misura l’intensità del campo magico. È un taumometro».

Il Sommo Algebrico sollevò orgogliosamente il cubo e premette un pulsante sul lato.

L’ago sul quadrante tremolò un poco, poi si fermò.

«Visto?» disse il Sommo Algebrico. «Solo un sottofondo naturale, nessun rischio per la popolazione».

«Alzi la voce» disse l’Arcicancelliere. «Non la sento con questo fracasso».

Dalle case sull’altro lato della strada venivano schianti e grida.


La signora Evadne Torta era una medium, tendente a small.

Non era un lavoro faticoso. Non molti tra quelli che morivano ad AnkhMorpork mostravano grandi inclinazioni a chiacchierare con i parenti sopravvissuti. Il loro motto era: metti fra te e loro il maggior numero possibile di dimensioni mistiche. Tra un incarico e l’altro faceva la sarta e lavorava in chiesa… qualsiasi chiesa. La signora Torta era molto devota di tutte le religioni, quantomeno nei suoi termini.

Evadne Torta non era una di quelle medium incenso-e-tenda-di-perline, in parte perché non tollerava bene l’incenso, ma soprattutto perché era davvero molto brava nella sua professione. Un buon mago ti può sbalordire con una semplice scatola di fiammiferi e un mazzo di carte perfettamente comune, se il signore vuol guardare da vicino vedrà che è un normalissimo mazzo di carte… non gli servono i tavoli pieghevoli mozzadita e i complicati cilindri a fisarmonica tipici dei prestidigitatori mediocri. Allo stesso modo, alla signora Torta non serviva molto in termini di oggetti. Anche la sfera di cristallo industriale era lì solo come contentino per i clienti. La signora Torta era davvero capace di leggere il futuro in una scodella di porridge.[9] La rivelazione poteva arrivarle da una padella di pancetta fritta. Aveva passato la vita a bazzicare il mondo degli spiriti, anche se nel suo caso bazzicare non era il termine idoneo. Lei non era il tipo che bazzicava. Piuttosto, era il tipo che entrava a grandi passi nel mondo degli spiriti e pretendeva di vedere il direttore.

Mentre si preparava la colazione e tagliuzzava un po’ di cibo per cani per Ludmilla, cominciò a sentire delle voci.

Erano molto fievoli. Non erano al limite dell’udibile, perché erano quel genere di voci che le orecchie normali non sentono. Erano nella sua testa.

bada a quello che fai… dove sono… piantala di scavare…

E poi svanirono di nuovo.

Furono sostituite da un suono stridulo dalla stanza accanto. Mise da parte l’uovo sodo e si avviò goffamente attraverso la tenda di perline.

Il rumore veniva da sotto l’austera tela di sacco (niente frivolezze) che copriva la sfera di cristallo.

Evadne tornò in cucina e scelse una pesante padella per friggere. L’agitò in aria due o tre volte per valutarne il peso, poi tornò in punta di piedi verso la sfera coperta.

Sollevò la padella, pronta a schiacciare qualsiasi sgradevolezza, e scostò la tela.

La sfera ruotava lentamente sul suo supporto.

Evadne rimase a guardarla per un po’. Poi tirò le tende, sistemò la sua mole su una sedia, respirò a fondo e disse: «C’è qualcuno?»

La maggior parte del soffitto crollò.

Dopo diversi minuti e un bel po’ di fatica, la signora Torta riuscì a liberare la testa.

«Ludmilla!»

Ci furono dei passi felpati in corridoio, poi un essere entrò dal giardino posteriore. Era chiaramente una femmina, anche graziosa, di forma ordinaria e con un vestito normalissimo. Soffriva anche di una proliferazione di peli superflui che nessun delicato rasoio rosa avrebbe potuto eliminare. Inoltre, in quella stagione denti e unghie si portavano lunghi, a quanto pareva. Ci si sarebbe aspettati di sentirla ringhiare, ma invece parlò con voce gradevole e senza dubbio umana.

«Mamma?»

«Sono qua sotto».

La spaventosa Ludmilla sollevò un’enorme trave e la spostò di lato senza fatica. «Cos’è successo? Non avevi la premonizione accesa?»

«L’avevo spenta per parlare col fornaio. Miseria, che botta».

«Ti faccio un tè?»

«Noo, lo sai che rompi sempre le tazze quando hai il tuo Periodo».

«Ma sto migliorando» disse Ludmilla.

«Brava ragazza. Però faccio da me, grazie lo stesso».

La signora Torta si alzò, si spolverò i calcinacci dal grembiule e disse: «Hanno gridato! Hanno gridato! Così, all’improvviso!»


Modo, il giardiniere dell’Università, stava diserbando un’aiuola di rose quando l’antico prato di velluto accanto a lui si gonfiò, e spuntò un sempreverde Windle Poons, che batté le palpebre alla luce. «Sei tu, Modo?»

«Sì, signor Poons» disse il nano. «Le do una mano a risalire?»

«Credo di farcela, grazie».

«Ho una pala nel capanno, se crede».

«No, grazie, va benissimo». Windle si tirò fuori dall’erba e spolverò via il terriccio dalla veste. «Scusa per il prato» aggiunse, guardando la buca.

«Non lo dica nemmeno, signor Poons».

«C’è voluto molto per farlo venire così?»

«Circa cinquecento anni, credo».

«Accidenti, mi dispiace. Volevo arrivare alle cantine, ma a quanto pare ho perso l’orientamento».

«Non si preoccupi, signor Poons» disse allegramente il nano. «Sta crescendo tutto a rotta di collo. Oggi pomeriggio riempio la buca, metto giù qualche altro seme e cinquecento anni passano in un lampo, vedrà».

«Per come stanno andando le cose probabilmente lo vedrò» disse cupamente Windle. Si guardò intorno. «L’Arcicancelliere c’è?» chiese.

«Li ho visti andare tutti verso il Palazzo» disse il giardiniere.

«Allora andrò a farmi un bagno e a cambiarmi. Non voglio disturbare nessuno».

«Ho sentito dire che non era solo morto, ma anche sepolto» disse il giardiniere, mentre Windle si allontanava barcollando.

«Esatto».

«Uno come lei non lo tiene nessuno, eh?»

Windle si voltò.

«A proposito, dov’è Via Olmo?»

Modo si grattò un orecchio. «Non è quella dietro Treacle Road?»

«Ah, sì. Ora ricordo».

Modo tornò alle sue erbacce.

La natura circolare della morte di Windle Poons non lo disturbava più di tanto. Dopotutto, gli alberi sembravano morti in inverno, ma rifiorivano in primavera. Vecchi semi rinsecchiti cadevano sul terreno, e nascevano nuove piante fresche. Praticamente nulla restava morto a lungo. Guarda il compost.

Modo credeva nel compost con lo stesso fervore con cui altri credevano negli dei. I suoi mucchi di compost si gonfiavano e fermentavano e brillavano debolmente nel buio, forse a causa degli ingredienti misteriosi e probabilmente illegali con cui Modo li nutriva, anche se non era mai stato provato nulla e, comunque, nessuno sarebbe andato a scavare per controllare.

Roba morta, ma in qualche modo ancora viva. Certamente faceva crescere le rose. Il Sommo Algebrico aveva spiegato a Modo che le sue rose erano così alte perché quello era il miracolo dell’esistenza, ma Modo era personalmente convinto che facevano così per allontanarsi più in fretta possibile dal compost.

I mucchi avevano di che festeggiare, stasera. Le erbacce erano in gran forma. Non aveva mai visto le piante crescere così in fretta e così rigogliose. Dev’essere tutto quel compost, pensò Modo.


Quando i maghi arrivarono a Palazzo lo trovarono in subbuglio. Pezzi di mobili volavano sotto il soffitto. Uno sciame di posate, simili a pesciolini d’argento, saettò accanto all’Arci-Cancelliere e si tuffò in un corridoio. Il posto sembrava nell’occhio di un ciclone selettivo e ordinato.

Erano già arrivate altre persone, tra cui un gruppo vestito in modo molto simile ai maghi, anche se a un occhio allenato erano chiare importanti differenze.

«Sacerdoti?» disse il Decano. «Qui, prima di noi?»

I due gruppi cominciarono furtivamente ad assumere posizioni che lasciavano le mani libere.

«Ma a che servono?» chiese il Sommo Algebrico.

Ci fu un brusco calo nella temperatura metaforica.

Un tappeto si allontanò ondeggiando.

L’Arcicancelliere incrociò lo sguardo dell’enorme Capo Sacerdote dell’Io Cieco, che in quanto sacerdote anziano del dio maggiore del turbolento pantheon di Mondo Disco era la cosa più vicina a un portavoce per le questioni religiose che Ankh-Morpork avesse.

«Sciocchi creduloni» mormorò il Sommo Algebrico.

«Arruffoni senza dio» disse un piccolo accolito, facendo capolino da dietro la mole del Capo Sacerdote.

«Idioti fanfaroni!»

«Feccia atea!»

«Leccapiedi imbecilli!»

«Prestigiatori della domenica!»

«Preti assetati di sangue!»

«Maghi rompiscatole!»

Ridcully sollevò un sopracciglio. Il Capo Sacerdote annuì appena.

Lasciarono i due gruppi a urlarsi insulti a distanza di sicurezza e si avviarono con nonchalance verso un punto della stanza relativamente tranquillo, accanto alla statua di uno dei predecessori del Patrizio, e tornarono a fronteggiarsi.

«Allora… come vanno le cose nel settore della scocciatura degli dei?» chiese Ridcully.

«Facciamo umilmente del nostro meglio. Come procedono i pericolosi traffici con cose che all’uomo non è dato di capire?»

«Niente male. Niente male». Ridcully si tolse il cappello e pescò nella punta. «Posso offrirti un goccio di qualcosa?»

«L’alcol è una tentazione per lo spirito. Ti andrebbe una sigaretta? So che voialtri indulgete…»

«Io no. Se sapessi cosa ti fa quella roba ai polmoni…»

Ridcully svitò la punta stessa del suo cappello e ci versò dentro una dose generosa di brandy.

«Allora» disse. «Che sta succedendo?»

«Un altare si è alzato in volo e ci è atterrato addosso».

«Un lampadario si è svitato. Tutto si sta svitando. Sai che venendo qui ho visto un completo da uomo che correva via? Due paia di pantaloni da sette dollari!»

«Mmm. Hai visto l’etichetta?»

«E pulsa tutto, anche. Hai notato che pulsa tutto?»

«Pensavamo che foste voialtri».

«Non è magia. Suppongo che gli dei non siano contrariati più del solito».

«A quanto pare no».

Alle loro spalle, preti e maghi si urlavano addosso naso a naso.

Il Capo Sacerdote si avvicinò un poco.

«Credo di essere abbastanza forte da dominare una tentazione piccolina» disse. «Non mi sentivo così da quando la signora Torta era nel mio gregge».

«Signora torta? Cos’è una signora torta?»

«Voi avete delle… Cose Spaventose da Dimensioni Oscure e roba simile, giusto? Rischi tremendi della vostra empia professione, no?» disse il Capo Sacerdote.

«Sì».

«Noi abbiamo la signora Torta».

Lo sguardo di Ridcully si fece interrogativo.

«Non chiedere» disse il prete, rabbrividendo. «Spera solo di non doverlo scoprire mai».

Ridcully gli passò il brandy in silenzio.

«Detto fra noi due» disse il prete, «hai qualche idea su tutto questo? Le guardie stanno cercando di cavare fuori sua signoria. Sai che vorrà delle risposte. Io non sono nemmeno sicuro di conoscere le domande».

«Non è magia e non sono gli dei» disse Ridcully. «Posso riavere la tentazione? Grazie. Non è magia e non sono gli dei. Questo non lascia molte possibilità, no?»

«Immagino che non esista qualche magia di cui non siete al corrente…»

«Se c’è, non ne siamo al corrente».

«Non fa una piega» concesse il sacerdote.

«E suppongo che gli dei non abbiano deciso di darsi a un po’ di empietà, eh?» disse Ridcully, come ultima spiaggia. «A qualcuno di loro magari è saltata la mosca al naso? Ci sono problemi con pomi d’oro e roba del genere?»

«Al momento sul fronte divino è tutto tranquillo» disse il Capo Sacerdote. Gli occhi gli si offuscarono mentre parlava, come se leggesse qualcosa che era nella sua testa. «Hyperopia, dea delle scarpe, crede che Sandelfon, dio dei corridoi, sia il gemello perduto di Grune, dio dei frutti fuori stagione. Chi ha messo la capra nel letto di Offler, il dio Coccodrillo? Forse Offler sta stringendo un’alleanza con Sek Sette-mani? Nel frattempo, Hoki il Buontempone ha ricominciato i vecchi trucchi…»

«Sì, sì, ho capito» disse Ridcully. «Non sono mai riuscito a interessarmi di questa roba».

Alle loro spalle, il Decano stava cercando di impedire al Sommo Algebrico di tentare di trasformare il sacerdote di Offler il dio Coccodrillo in un set di valigie, e il Tesoriere perdeva sangue dal naso per via di un colpo di turibolo andato a segno.

«Quello che dobbiamo mostrare ora» disse Ridcully, «è un fronte unito. D’accordo?»

«D’accordo» disse il Capo Sacerdote.

«Bene così. Per ora».

Un tappetino passò sinuosamente ad altezza d’occhi. Il Capo Sacerdote restituì il brandy.

«Tra parentesi, mamma dice che è un po’ che non le scrivi» disse.

«Sì…» L’espressione contrita e imbarazzata dell’Arcicancelliere avrebbe sorpreso non poco gli altri maghi. «Ho avuto da fare, sai com’è».

«Ha detto di ricordarti che ci vuole a pranzo tutti e due per il giorno di Hogswatch».

«Me lo ricordo» disse cupamente Ridcully. «Non vedo l’ora». Si voltò verso la mischia alle sue spalle.

«Piantatela lì, voialtri» disse.

«Fratelli! Desistete!» ululò il Capo Sacerdote.

Il Sommo Algebrico mollò la presa sulla testa del Gran Sacerdote del Culto di Hinki. Un paio di curati smisero di prendere a calci il Tesoriere. Ci fu un generale rassettamento di vestiti, una ricerca di cappelli e un giro di colpi di tosse imbarazzati.

«Così va meglio» disse Ridcully. «Allora, sua eminenza il Capo Sacerdote e io abbiamo deciso…»

Il Decano lanciò un’occhiataccia a un vescovo molto piccolo.

«Lui mi ha dato un calcio! Mi hai dato un calcio!»

«Oooh! Ma quando mai, figliolo».

«Invece sì» sibilò il Decano. «Di lato, per non farti vedere!»

«… Abbiamo deciso…» ripeté Ridcully, fulminando con gli occhi il Decano, «di cercare la soluzione alle turbolenze attuali in uno spirito di fratellanza e buona volontà, e questo comprende anche lei, Sommo Algebrico».

«Non è colpa mia! Lui mi ha spinto!»

«Ebbene! Che tu sia perdonato!» disse con vigore l’Arcidiacono di Thrume.

Ci fu uno schianto di sopra. Una chaise-longue scese le scale al piccolo trotto e si schiantò contro la porta principale.

«Credo che le guardie stiano ancora cercando di liberare il Patrizio» disse il Capo Sacerdote. «A quanto pare anche i suoi passaggi segreti si sono chiusi da soli».

«Tutti? Credevo che quel diavolo d’uomo ne avesse messi ovunque» disse Ridcully.

«Chiusi» disse il Capo Sacerdote. «Tutti quanti».

«Quasi tutti» disse una voce alle sue spalle.

Ridcully non cambiò tono quando si voltò; aggiunse solo un po’ di zucchero.

Una figura era uscita apparentemente dal muro. Era umana, ma solo per definizione. Magro, pallido, vestito di un nero polveroso, il Patrizio faceva sempre venire in mente a Ridcully un fenicottero predatore, ammesso di trovare un fenicottero nero e con la pazienza di una roccia.

«Ah, Lord Vetinari» disse. «Sono lieto di vederla incolume».

«Venite nello Studio Oblungo, signori» disse il Patrizio. Alle sue spalle, un pannello nel muro si aprì senza rumore.

«Ehm, credo che ci siano alcune guardie di sopra che cercano ancora di…» iniziò il Capo Sacerdote.

Il Patrizio agitò una mano magra. «Non mi sogno nemmeno di fermarli» disse. «Questo li tiene occupati e li fa sentire importanti. Altrimenti non hanno altro pensiero che fare la faccia feroce e controllare la loro vescica. Venite da questa parte».


I capi delle altre Gilde di Ankh-Morpork arrivarono alla spicciolata, riempiendo gradualmente la stanza.

Il Patrizio guardava con aria cupa i documenti che aveva davanti, mentre gli altri litigavano.

«Be’, non siamo noi» disse il capo degli Alchimisti.

«C’è sempre qualcosa che svolazza in giro quando ci siete voi» disse Ridcully.

«Sì, ma è solo per via di reazioni esotermiche impreviste» disse l’alchimista.

«Le cose saltano in aria» tradusse il vicecapo alchimista, senza alzare lo sguardo.

«Magari saltano in aria, ma poi tornano giù. Non restano a fluttuare in giro e, per esempio, a svitarsi da sole» disse il suo capo, lanciandogli un’occhiataccia di avvertimento. «E comunque, perché dovremmo essere noi? Vi dico che nel mio laboratorio è un inferno! C’è roba che sfreccia ovunque! Prima che uscissi, un enorme oggetto di vetro molto costoso è andato in mille pezzi!»

«Una brutta sTorta, eh?» disse una voce angustiata.

La folla si aprì e svelò il Segretario Generale e Capo Zimbello della Gilda dei Giullari e dei Buffoni. Tutta quell’attenzione lo fece tirare indietro, ma tanto si tirava indietro comunque. Aveva l’aspetto di un uomo la cui faccia aveva fatto da pista d’atterraggio di troppe torte, i cui pantaloni erano stati troppo spesso inondati di calce, e i cui nervi si sarebbero completamente disintegrati all’esplodere dell’ennesimo palloncino. Gli altri capi delle Gilde cercavano di essere carini con lui, come si fa di solito con quelli che stanno in piedi sui cornicioni di edifici molto alti.

«In che senso, Geoffrey?» chiese Ridcully, il più gentilmente possibile.

Il Buffone deglutì. «Ecco, vedi» mormorò, «una sTorta è anche un grosso recipiente alchemico, e quindi, ecco, ci stava un gioco di parole con ‘brutta’, anche se magari era, ehm, costosa. Capito? Una battuta. Non molto buona, ecco».

L’Arcicancelliere guardò dritto in quegli occhi simili a uova lacrimose.

«Oh, una freddura» disse. «Ma certo. Hohoho». Agitò una mano verso gli altri, per incoraggiarli.

«Hohoho» disse il Capo Sacerdote.

«Hohoho» disse il capo della Gilda degli Assassini.

«Hohoho» disse il capo degli Alchimisti. «E la cosa più buffa è che in realtà era un alambicco».

«Perciò quello che mi state dicendo» concluse il Patrizio, mentre mani caute portavano via il Buffone, «è che nessuno di voi è responsabile di questi eventi?»

Mentre parlava guardò Ridcully con aria significativa.

L’Arcicancelliere stava per rispondere quando colse con lo sguardo un movimento sulla scrivania del Patrizio.

C’era una piccola miniatura del Palazzo in un globo di vetro. E accanto, un tagliacarte.

Il tagliacarte si stava lentamente piegando.

«Allora?» disse il Patrizio.

«Non siamo noi» disse Ridcully, con voce sepolcrale. Il Patrizio seguì il suo sguardo.

Il coltello era già piegato come un arco.

Il Patrizio cercò tra la folla imbarazzata finché trovò il capitano Doxie, del turno di giorno della Guardia Cittadina.

«Non può fare qualcosa?» chiese.

«Ehm… tipo che cosa, signore? Il coltello, ehm… lo potrei arrestare per piegatura illecita».

Lord Vetinari alzò le braccia al cielo.

«E allora! Non è magia! Non sono gli dei! Non sono gli umani! Che cos’è? E chi lo fermerà? Chi devo chiamare?»

Mezz’ora dopo il piccolo globo era scomparso. Nessuno ci fece caso. Come al solito.


La signora Torta sapeva chi stava per chiamare.

«Ci sei, Un-Secchio?» disse.

Poi si abbassò, per ogni evenienza.

Una voce acuta e petulante risuonò nell’aria.

dove sei stata? qui dentro non mi posso muovere!

La signora Torta si morse il labbro. Una risposta così diretta significava che il suo spirito guida era preoccupato. Quando non aveva pensieri passava cinque minuti buoni a parlare di bisonti e grandi spiriti bianchi, anche se Un-Secchio, fosse mai capitato nelle vicinanze di uno spirito bianco, l’avrebbe bevuto; e dio sa cosa ci avrebbe fatto, con un bisonte. E poi non faceva che dire ‘ehm’.

«Che intendi dire?»

c’è mica stata qualche catastrofe? qualche altra decina di piaghe?

«No, non credo».

qui c’è un sacco di tensione, sai. cos’è che tiene tutto insieme?

«Ma che intendi dire?»

silenziosilenziosilenzio sto cercando di parlare con la signora! ehi, voialtri, fate piano, eh? ah sì? ripeti un po’…

La signora Torta si accorse di altre voci che tentavano di coprire la sua.

«Un-Secchio!»

a chi hai detto pagano selvaggio? ah, allora lo sai cosa ti dice questo pagano selvaggio? lo sai? senti, io sono qua da cento anni, io! non devo perdere tempo a parlare con uno ancora caldo! capito… oh, questo è troppo, eh…

La voce sfumò.

La signora Torta strinse le mascelle.

La voce tornò.

ah sì? ah sì? be’, magari da vivo eri grande e grosso, amico, ma ora sei solo un lenzuolo coi buchi! ah, adesso non ti piace più, eh?

«Ora si rimette a litigare, mamma» disse Ludmilla, acciambellata accanto alla cucina. «Li chiama sempre ‘amico’ prima di picchiarli».

La signora Torta sospirò.

«E pare che stia per picchiarne molti» disse Ludmilla.

«Va bene. Vai a prendermi un vaso. Uno che vale poco, però».

È generalmente sospettato, ma non proprio risaputo, che ogni cosa ha una forma spirituale associata, che al momento del decesso esiste brevemente nel vuoto pieno di spifferi tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Questo è importante.

«No, non quello. Era di tua nonna».

Questa sopravvivenza spettrale non dura a lungo senza una coscienza che la tiene insieme, ma a seconda di cosa si ha in mente può durare abbastanza.

«Okay, quello va bene. Il disegno non mi è mai piaciuto».

La signora Torta prese dalle zampe della figlia un vaso arancione con un motivo di peonie rosa.

«Sei ancora lì, Un-Secchio?» chiese.

ti farò maledire il giorno in cui sei nato, razza di lagnoso…

«Preso».

Lasciò cadere il vaso sulla stufa. Si frantumò.

Un minuto dopo, provenne un rumore dall’Altra Parte. Se uno spirito incorporeo avesse colpito un altro spirito incorporeo con il fantasma di un vaso, avrebbe fatto proprio quel rumore.

bene, disse la voce di Un-Secchio, e ce n’è ancora per tutti, okay?

Le Torta, madre e figlia pelosa, si fecero un cenno di assenso.

Quando Un-Secchio parlò di nuovo, la sua voce grondava compiacimento.

solo un piccolo alterco su questioni di anzianità, disse, un chiarimento sugli spazi personali, ci sono un sacco di problemi qui, signora torta, è come una sala d’aspetto…

Ci fu uno scoppio di voci acute di altri spiriti incorporei.

potrebbe portare un messaggio al signor…

le dica che c’è una borsa di monete su nel camino…

tgnes non avrà un grammo di argenteria dopo quello che ha detto sulla nostra molly…

non ho avuto il tempo di dar da mangiare al gatto, non è che per caso…

silenziosilenziosilenzio! Era di nuovo Un-Secchio. non capite niente, eh? e questo sarebbe un parlare da spiriti? il cibo del gatto? che ne è stato di ‘Qui sono molto felice e ti aspetto?’

senti, se arriva ancora qualcuno staremo uno sull’altro…

non è questo il punto, non è questo il punto, dico, quando sei uno spirito, ci sono cose che devi dire, signora torta?

«Sì?»

deve parlare di questo con qualcuno.

La signora Torta annuì.

«Ora andatevene tutti» disse. «Mi sta venendo uno dei miei mal di testa».

La sfera di cristallo si rischiarò.

«Allora?» disse Ludmilla.

«Non parlo con i preti» disse con fermezza la signora Torta.

Non che non fosse una donna religiosa, la signora Torta. Come è stato già accennato, era molto religiosa. Non c’era tempio, chiesa, moschea o mucchietto di pietre in città che non avesse frequentato una volta o l’altra, e in conseguenza di ciò era più temuta di un Secolo di Lumi; la sola vista della piccola sagoma grassa della signora Torta sulla soglia era sufficiente a far fuori la maggior parte dei preti a metà invocazione.

Morti. Il punto era proprio quello. Tutte le religioni avevano opinioni molto precise riguardo al parlare con i morti, e anche la signora Torta. Loro lo consideravano peccaminoso. Lei sosteneva che era solo buona educazione.

Questo di solito portava ad accesi dibattiti ecclesiastici che quasi sempre si concludevano con la signora Torta che gratificava il prete con ‘un poco del suo pensiero’. C’era così tanto pensiero della signora Torta in giro che ci si meravigliava che gliene fosse rimasto ancora, ma stranamente, più ne dava via più sembrava averne.

C’era anche la questione di Ludmilla. Ludmilla era un problema. Il defunto signor Torta, dio l’abbia in gloria, non aveva mai nemmeno fischiettato alla luna in tutta la sua vita, e la signora Torta aveva il tetro sospetto che Ludmilla fosse un retaggio del lontano passato della famiglia fra le montagne, o che avesse preso una malattia genetica da piccola. Era sicura che sua madre, una volta, avesse alluso con fare circospetto all’abitudine del prozio Erasmus di mangiare a volte sotto il tavolo. A parte questo, Ludmilla era una virtuosa fanciulla per tre settimane su quattro, e un essere lupesco e peloso, ma molto beneducato, per il resto del tempo.

I preti però non la vedevano così. Quando la signora Torta rompeva definitivamente con qualsiasi prete[10] facesse in quel momento da moderatore fra lei e gli dei, di solito aveva già assunto, grazie alla sola forza della sua personalità, il controllo degli addobbi floreali, dello spolvero dell’altare, della pulizia del tempio, della disincrostazione della pietra sacrificale, della virginazione vestigiale onoraria, della riparazione degli inginocchiatoi e di tutti gli altri ruoli di supporto vitali in una religione, per cui la sua dipartita scatenava il caos totale.

Si abbottonò il cappotto.

«Non funzionerà» disse Ludmilla.

«Proverò con i maghi. Dovrebbero essere tolleranti». Era così piena di sé che tremava, come un piccolo pallone da calcio arrabbiato.

«Sì, ma dici sempre che non ascoltano» disse Ludmilla.

«Devo provarci. A proposito, cosa fai fuori dalla tua stanza?»

«Oh, mamma. La odio, quella stanza. Non c’è bisogno di…»

«Non si è mai troppo cauti. E se ti venisse in mente di dare la caccia alle galline dei vicini? Che direbbero nel quartiere?»

«Non ho mai sentito il minimo impulso a dare la caccia alle galline, mamma» disse stancamente Ludmilla.

«O inseguire i carri abbaiando».

«Quelli sono i cani, mamma».

«Torna nella tua stanza, chiuditi a chiave e fai un po’ di cucito, da brava».

«Lo sai che non riesco a tenere bene l’ago, mamma».

«Provaci. Fallo per tua madre».

«Sì, mamma» disse Ludmilla.

«E non ti avvicinare alla finestra. Non vogliamo innervosire nessuno».

«Sì, mamma. E tu accendi la premonizione. La tua vista non è più buona come una volta».

La signora Torta guardò la figlia salire le scale. Poi si chiuse la porta d’ingresso alle spalle e si avviò verso l’Università Invisibile, dove aveva sentito che c’erano fin troppe stranezze di tutti i tipi.

Chiunque avesse osservato l’avanzare della signora Torta avrebbe notato un paio di dettagli strani. Malgrado l’andatura incostante, nessuno la urtava. Non è che gli altri la evitassero; semplicemente, lei non si trovava dove stavano loro. A un certo punto esitò ed entrò in un vicolo. Un secondo più tardi un barile rotolò giù da un carro che stava scaricando fuori da una taverna e si andò a sfasciare sul selciato dove doveva trovarsi lei. La signora Torta uscì dal vicolo e scavalcò i rottami, borbottando fra sé.

Passava molto tempo a borbottare. La sua bocca era in costante movimento, come se cercasse di rimuovere qualcosa di fastidioso da un dente in fondo.

Raggiunse gli alti cancelli neri dell’Università ed esitò ancora, come per ascoltare una voce interiore.

Poi si fece di lato e aspettò.


Bill Porta aspettava, steso nell’oscurità del fienile. Sotto, sentiva di tanto in tanto un suono da Binky: un movimento lieve, un ruminare di mandibola.

Bill Porta. E così, ora aveva un nome. Naturalmente ne aveva sempre avuto uno, ma era il nome di ciò che personificava, non di chi era. Bill Porta. Aveva un bel suono. Signor Bill Porta. Cav. William Porta. Billy P… no. Billy no.

Bill Porta si accomodò meglio nella paglia. Pescò dalla veste la clessidra d’oro. Il calo della sabbia nella metà superiore era percepibile. La rimise via.

E poi c’era questo ‘sonno’. Sapeva cos’era. La gente ci passava parecchio tempo. Presumibilmente aveva uno scopo. Lo stava osservando con interesse. Avrebbe dovuto analizzarlo.


La notte si allungò sul mondo, inseguita con freddezza da un nuovo giorno.

Ci fu un tramestio nel pollaio dall’altra parte dell’aia «Chicchirà… ehm».

Bill Porta fissò il tetto del fienile.

«Chicchirò… ehm».

Una luce grigia filtrava tra le fessure.

Eppure solo un momento fa c’era stata la luce rossa del tramonto!

Erano svanite sei ore.

Bill tirò fuori la clessidra. Sì. Il livello era decisamente sceso. Mentre aspettava di fare l’esperienza del sonno, qualcosa aveva rubato parte della sua… vita. Non se n’era nemmeno accorto…

«Chi… chicchi… ehm».

Scese dal fienile e uscì nella nebbia sottile del mattino.

Le galline più anziane lo guardarono con diffidenza quando sbirciò nella loro casa. Un vecchio gallo dall’aria piuttosto imbarazzata gli lanciò un’occhiataccia e scrollò le piume.

Dalla casa venne un rumore metallico. Un vecchio cerchio di ferro da botte era appeso accanto alla porta, e la signorina Flitworth lo stava picchiando vigorosamente con un mestolo.

Bill si avvicinò per indagare.

PERCHÉ QUESTO BACCANO, SIGNORINA FLITWORTH?

Lei si voltò con il mestolo a mezz’aria.

«Dio buono, cammini come un gatto!» disse.

UN GATTO?

«Volevo dire che non ti ho sentito». Fece un passo indietro e lo squadrò da capo a piedi.

«C’è ancora qualcosa di te che non riesco a capire, Bill Porta» disse. «Ma non so che cosa».

Lo scheletro alto due metri la guardò stoicamente. Gli pareva di non avere nulla da dire.

«Cosa vuoi per colazione?» chiese la vecchia. «Non che faccia molta differenza. C’è solo porridge».

Più tardi pensò: ‘Deve averlo mangiato, perché la scodella è vuota. Ma perché non me lo ricordo?’

E poi c’era la faccenda della falce. Sembrava che non ne avesse mai vista una prima. Lei gli indicò i manici e il tirante per la lama. Lui li osservò educatamente.

COME LA AFFILA, SIGNORINA FLITWORTH?

«È già affilata, dio buono».

COME LA AFFILA DI PIÙ?

«Non si può. Non si può affilare più di così».

Lui provò un fendente, a vuoto, poi scosse la testa con disapprovazione.

E poi c’era l’erba.

L’erba secca era alta sulla collina dietro la fattoria, che dava sul campo di grano. La signorina Flitworth lo osservò per un po’.

Era il metodo più interessante che avesse mai visto. Non avrebbe nemmeno mai pensato che fosse tecnicamente possibile.

Alla fine disse: «Bene. Hai un bel fendente».

GRAZIE, SIGNORINA FLITWORTH.

«Ma perché un filo d’erba alla volta?»

Bill Porta osservò la fila ordinata di steli.

C’È UN ALTRO MODO?

«Ne puoi tagliare parecchi alla volta, sai».

NO. NO. UN FILO ALLA VOLTA. UNO SOLO.

«Non ne taglierai molti, così» disse la signorina Flitworth.

FINO ALL’ULTIMO, SIGNORINA FLITWORTH.

«Sì?»

SI FIDI DI ME.

La signorina Flitworth lo lasciò fare e tornò in casa. Andò alla finestra della cucina e rimase a osservare la figura scura in lontananza, che si spostava oltre la collina.

Chissà che cosa ha fatto?, pensò. Avrà un Passato. Sarà un Uomo del Mistero. Magari ha commesso una rapina e tiene un Basso Profilo.

Ha già tagliato una fila intera. Uno stelo alla volta, ma più in fretta di uno che taglia un fascio alla volta…

L’unica lettura alla quale la signorina Flitworth si dedicava era L’Almanacco del Contadino e il Catalogo delle Sementi, che poteva durare un anno intero al gabinetto se nessuno stava male. Oltre a fornire sobrie informazioni sulle fasi lunari e la semina, indulgeva con un certo piacere morboso nel resoconto delle stragi, delle rapine a mano armata e dei disastri naturali che affliggevano l’umanità, con questo genere di titoli: ‘15 giugno, anno dell’Ermellino Estemporaneo: oggi, 150 anni fa, una pioggia anomala di gulasch uccide un uomo a Quirm’ oppure ‘Chume, il famigerato Lanciatore di Aringhe, fa 14 vittime’.

La cosa importante in tutto questo era che accadeva molto lontano, forse per qualche intervento divino. Le uniche cose che succedevano nella zona di solito erano dei furti di pollame o l’apparizione di qualche troll. Naturalmente sulle colline c’erano anche banditi e rapinatori, ma andavano d’accordo con i residenti ed erano essenziali per l’economia locale. Ma comunque, la signorina si sentiva molto più sicura con qualcun altro in giro.

La figura scura sulla collina era già a buon punto con la seconda fila. Alle sue spalle, l’erba tagliata avvizziva al sole.

HO TERMINATO, SIGNORINA FLITWORTH.

«Vai a dare da mangiare al maiale, allora. Si chiama Nancy».

NANCY, ripeté Bill, rigirando la parola in bocca come a volerla esaminare da ogni lato.

«Come mia madre».

ANDRÒ A DAR DA MANGIARE AL MAIALE NANCY, SIGNORINA FLITWORTH.

Alla signorina sembrò che fossero passati solo pochi secondi.

HO TERMINATO, SIGNORINA FLITWORTH.

Lei lo guardò stringendo gli occhi. Poi, lentamente e deliberatamente, si asciugò le mani con uno straccio, uscì nell’aia e si diresse al porcile.

Nancy si era tuffata fino agli occhi nel trogolo.

La signorina Flitworth si chiese cosa rispondere. Alla fine decise per «Molto bene. Molto bene. Lavori… in fretta, non c’è che dire».

SIGNORINA FLITWORTH, PERCHÉ IL GALLO NON CANTA COME DOVREBBE?

«Oh, Cyril? Non ha memoria. Ridicolo, no? Magari si ricordasse come si fa».


Bill Porta trovò un pezzo di gesso nella vecchia mascalcia della fattoria, individuò un pezzo di asse tra i rottami, e scrisse qualcosa con molta attenzione. Poi affisse la tavola davanti al pollaio e ci mise Cyril davanti.

LEGGERAI QUESTO, disse.

Cyril guardò con occhi miopi il ‘chicchirichì’ scritto in pesanti caratteri gotici. Da qualche parte nella sua piccola, folle mente da pollo si formò la distinta e gelida consapevolezza che era meglio che imparasse a leggere molto, molto in fretta.

Bill Porta tornò a sedersi tra la paglia e pensò alla giornata. Era sembrata piuttosto piena. Aveva falciato l’erba, nutrito gli animali e riparato una finestra. Aveva trovato dei vecchi indumenti da lavoro appesi nella stalla, che per un Bill Porta sembravano molto più adatti di una veste fatta di oscurità, e così li aveva indossati. La signorina Flitworth gli aveva anche dato un cappello di paglia con la tesa larga.

E poi si era avventurato per il mezzo miglio di strada che portava in città. Città era una parola grossa. A quanto pareva i residenti si guadagnavano da vivere rubandosi l’un l’altro il bucato.

C’era una piazza, una cosa ridicola che in realtà era un incrocio un po’ largo, con una torre dell’orologio. E c’era una taverna. Era entrato.

Dopo il primo momento in cui la mente degli altri si sintonizzava sulla sua presenza, era stato accolto con cauta benevolenza; le notizie viaggiano ancora più in fretta quando sono poche bocche a spargerle.

«Dev’essere quello nuovo che lavora dalla Flitworth» disse il barista. «Porta, mi sembra».

CHIAMATEMI BILL.

«Ah? Una volta era una bella fattoria. Non avrei mai pensato che la vecchia sarebbe rimasta».

«Ah» convennero un paio di uomini accanto al camino.

AH.

«Nuovo di queste parti?» chiese il barista.

L’improvviso silenzio degli altri clienti fu come un buco nero.

NON ESATTAMENTE.

«Sei già stato qui?»

DI PASSAGGIO.

«Dicono che la vecchia Flitworth sia matta» disse una delle figure sedute sulle panche lungo le pareti annerite dal fumo.

«Ma acuta come una lancia, però» disse un altro bevitore curvo.

«Acuta, certo. Ma sempre una matta».

«E dicono che abbia delle casse piene di tesori in quel vecchio salotto».

«Coi soldi è tirata, quello è sicuro».

«Vedi. Acuta e ricca. Ma sempre matta».

«I ricchi non possono essere matti. Eccentrici, casomai».

Il silenzio tornò a incombere. Bill Porta cercò disperatamente qualcosa da dire. Non era mai stato molto bravo a fare conversazione. Non aveva mai avuto molte occasioni.

Che si diceva di solito in casi come questo? Ah. Sì.

OFFRO DA BERE A TUTTI, annunciò.

Più tardi gli insegnarono un gioco che consisteva in un tavolo con dei buchi e delle reti lungo i bordi, e delle palle intagliate da mani esperte nel legno; a quanto pareva le palle dovevano rimbalzare l’una contro l’altra e finire nelle buche. Si chiamava Biliardo. Giocava bene, lui. In effetti, giocava alla perfezione. All’inizio non aveva capito come evitarlo. Ma dopo aver sentito gli altri trattenere il respiro dallo sbalordimento, aveva iniziato a commettere errori con diligente precisione; quando poi gli insegnarono le freccette, era diventato veramente bravo a fare errori. Più faceva errori, più piaceva agli altri. Così lanciava le piccole frecce piumate con fredda perizia, non facendole mai conficcare a meno di trenta centimetri dai bersagli che gli indicavano. Ne mandò perfino una a rimbalzare contro un chiodo, facendola poi finire nella birra di un tale, cosa che fece ridere talmente forte uno degli uomini più anziani che dovettero portarlo fuori a prendere un po’ d’aria.

Lo chiamavano Buon Vecchio Bill.

Nessuno lo aveva mai chiamato così prima.

Che strana serata.

C’era stato anche un brutto momento, però. Aveva sentito una vocetta che diceva «Quello lì è uno schelitro» e aveva visto una bambina piccola in camicia da notte che lo guardava da dietro il bar, senza paura ma con una sorta di affascinata repulsione.

Il padrone, che come Bill Porta ora sapeva, si chiamava Lifton, aveva riso nervosamente e si era scusato.

«Che fantasia» aveva detto. «Le cose che si inventano i bambini, eh? Torna a letto, Sal. E chiedi scusa al signor Porta».

«È uno schelitro con i vestiti» aveva detto la bimba. «Perché la birra non cola tutta fuori?»

Gli era quasi preso il panico. I suoi poteri intrinseci stavano svanendo, quindi. Normalmente le persone non riuscivano a vederlo: lui occupava un punto cieco nei loro sensi, che ognuno riempiva con qualcosa che avrebbe incontrato più volentieri. Ma l’incapacità degli adulti di vederlo non era una garanzia contro questo genere di dichiarazione insistita, e aveva sentito la perplessità degli altri. Poi, appena in tempo, era arrivata la madre dal retro e aveva portato via la bambina. Aveva sentito lamentele soffocate per le scale, del tipo «… È uno schelitro con tutte le ossa…»

E per tutto il tempo il vecchio orologio sul camino aveva ticchettato, tagliando via secondi dalla sua vita. Non molto tempo prima gli erano sembrati così tanti…

Qualcuno bussò piano alla porta della stalla, sotto il fienile. Sentì la porta che si apriva.

«Sei presentabile, Bill Porta?» chiese la voce della signorina Flitworth nel buio.

Bill Porta analizzò la frase cercandole un senso nel contesto.

SÌ?, azzardò.

«Ti ho portato un bicchiere di latte caldo».

SÌ?

«Dai, sbrigati o si raffredda».

Bill Porta scese cautamente la scala a pioli. La signorina Flitworth aveva in mano una lanterna, e uno scialle attorno alle spalle.

«Ci ho messo la cannella. Il mio Ralph ce la voleva sempre». Sospirò.

Bill Porta era consapevole delle sfumature allo stesso modo in cui un astronauta è cosciente del tempo meteorologico sotto di lui; c’è, è visibile, pronto per essere studiato e totalmente separato dall’esperienza diretta.

GRAZIE, disse.

La signorina Flitworth si guardò intorno.

«Ti sei sistemato bene qui» disse allegramente.

SÌ.

Lei si strinse nello scialle.

«Io torno a casa, allora» disse. «Puoi riportare la tazza domani mattina».

E si incamminò in fretta nella notte.

Bill Porta tornò sul soppalco con il latte. Lo posò su una trave bassa e rimase a guardarlo raffreddarsi, fino a molto dopo che la candela si fu spenta.

Dopo un po’ si accorse di un sibilo persistente. Prese la clessidra d’oro e la mise all’altro capo del fienile, sotto un mucchio di paglia.

Non fece la minima differenza.

Windle Poons si avvicinò per guardare i numeri civici (un centinaio di Pini Contatori erano morti solo per quella strada) poi si rese conto che non ne aveva bisogno. Guardava da vicino solo per abitudine. Migliorò la sua vista.

Ci volle un po’ per trovare il 668, perché in effetti si trovava al primo piano, sopra una sartoria. Si entrava da un vicolo, in fondo al quale c’era una porta di legno. Sulla vernice scrostata qualcuno aveva affisso un cartello che diceva, in caratteri ottimistici:

’ENTRATE! ENTRATE! CLUB NUOVO INIZIO. LA MORTE È SOLO IL PRIMO PASSO!’

La porta si aprì su una rampa di scale che odorava di vernice vecchia e mosche morte. I gradini scricchiolavano peggio delle ginocchia di Windle.

Qualcuno aveva scritto sui muri. La fraseologia era esotica ma il tono generale era familiare: Spettri di tutto il mondo sorgete, Rompiamo le Catene e La Maggioranza Silenziosa vuole Diritti per i Morti e la Fine del Vitalismo.

In cima c’era un pianerottolo su cui si apriva una porta. Un tempo qualcuno aveva appeso una lampada a olio al soffitto, ma sembrava che non venisse accesa da alcune migliaia di anni. Un vecchio ragno, che probabilmente viveva del resto dell’olio, lo guardò con fare circospetto dal suo anfratto.

Windle guardò di nuovo il biglietto, respirò a fondo per forza d’abitudine, e bussò.


L’Arcicancelliere tornò all’Università come una furia, con la coda degli altri maghi disperati al seguito.

«Chi chiamerà lui! Siamo noi i maghi qui!»

«Sì, ma non sappiamo veramente cosa sta succedendo, no?» disse il Decano.

«Allora lo scopriremo!» ruggì Ridcully. «Non so chi ha intenzione di chiamare lui, ma so chi chiamerò io!»

Si fermò di botto. Gli altri gli andarono a sbattere contro.

«Oh no» disse il Sommo Algebrico. «Quello no, la prego!»

«Ma non è niente» disse Ridcully. «Non c’è nulla da temere. Lo leggevo proprio ieri sera. Si può fare con tre pezzi di legno e…»

«Quattro cc di sangue di topo» disse il Sommo Algebrico in tono lugubre. «Ma non per forza. Si possono anche usare due pezzi di legno e un uovo. Però dev’essere un uovo fresco».

«Perché?»

«Credo che così il topo sia più contento».

«No, dicevo: perché l’uovo fresco».

«Oh, che ne sappiamo noi di cosa pensano le uova?»

«Comunque» disse il Decano, «è pericoloso. Ho sempre avuto l’impressione che stia nell’ottagramma per fare scena. Odio il modo in cui ti guarda e sembra che stia contando».

«Sì» disse il Sommo Algebrico. «Non siamo costretti a farlo. Possiamo venire a capo di quasi tutto. Draghi, mostri. Ratti. Vi ricordate i ratti, l’anno scorso? Sembrava che fossero dappertutto. Lord Vetinari non ci ha dato retta, oh no. Ha pagato quell’idiota in calzamaglia rossa e gialla mille pezzi d’oro per liberarsi dei ratti».

«Però ha funzionato» disse il professore di Rune Recenti.

«Ah, ci puoi giurare» disse il Decano. «Ha funzionato anche a Quirm e a Sto Lat. E l’avrebbe fatta franca anche a Pseudopolis se qualcuno non l’avesse riconosciuto. Il cosiddetto Maurice il Magnifico e i suoi Roditori Ammaestrati!»

«Non serve a nulla cercare di cambiare argomento» disse Ridcully. «Faremo il rito di AshKente. D’accordo?»

«Ed evocheremo la Morte» disse il Decano. «Oh, cielo».

«Non c’è niente di male nella Morte» disse Ridcully. «È un vero professionista. Fa il suo lavoro, e basta. Giochiamo onestamente. Lui saprà cosa sta succedendo».

«Oh, cielo» ripeté il Decano.

Arrivarono al cancello. La signora Torta si fece avanti, bloccando la strada all’Arcicancelliere.

Ridcully inarcò le sopracciglia.

L’Arcicancelliere non era il tipo d’uomo che prova un particolare piacere a essere sgarbato e brusco con le donne. O meglio, era sgarbato e brusco assolutamente con chiunque, indipendentemente dal sesso; comunque era una forma di parità. E se la conversazione che segue non fosse avvenuta tra una persona che ascoltava ciò che gli altri dicevano diversi secondi prima che lo dicessero, e una che non ascoltava mai nessuno, le cose sarebbero state molto diverse. O magari no.

Iniziò la signora Torta con una risposta.

«Non sono la sua brava donna!» sbottò.

«E lei chi è, brava donna?» disse l’Arcicancelliere.

«Be’, non è il modo di parlare a una persona rispettabile» disse la signora Torta.

«Non c’è motivo di offendersi» disse Ridcully.

«Oh, cavolo, lo sto facendo?» disse la signora Torta.

«Signora, perché mi risponde prima che io parli?»

«Cosa?»

«In che senso?»

«In che senso cosa?»

«Cosa?»

Si guardarono negli occhi, bloccati in un impasse senza uscita. Poi la signora Torta capì.

«Sono io, ho la premonizione accesa» disse. Si infilò un dito in un orecchio e lo agitò con un suono umido. «Ora è a posto. Ecco, la ragione per cui…»

Ma Ridcully ne aveva già abbastanza.

«Tesoriere» disse, «dia a questa donna un penny e la rimandi da dov’è venuta, faccia il piacere».

«Cosa?» disse la signora Torta, improvvisamente furiosa oltre ogni dire.

«C’è troppa roba del genere in giro di questi tempi» disse Ridcully al Decano, mentre si allontanavano.

«È colpa della vita stressante della grande città» disse il Sommo Algebrico. «L’ho letto da qualche parte. La gente diventa strana».

Entrarono da una delle porticine nel portone principale e il Decano la richiuse in faccia alla signora Torta.

«Magari non verrà» disse il Sommo Algebrico, mentre attraversavano il cortile. «Alla festa di addio del povero Windle non si è presentato».

«Per il Rito verrà» disse Ridcully. «Non è solo un invito del cavolo, è come se dicesse pure Si Prega di Dare Conferma!»

«Oh, bene. Mi piacciono i ricevimenti» disse il Tesoriere.

«Silenzio, Tesoriere».

C’era un vicolo da qualche parte nelle Ombre. Era la zona più densa di vicoli in una città già molto piena di vicoli.

Qualcosa di piccolo e lucente rotolò nel vicolo, e svanì nell’oscurità.

Dopo un po’ si udirono dei leggeri rumori metallici.


L’atmosfera nello studio dell’Arcicancelliere era molto fredda.

Alla fine il Tesoriere disse con voce tremula: «Forse è occupato?»

«Silenzio» dissero i maghi all’unisono.

Qualcosa stava succedendo. Il pavimento all’interno dell’ottagramma magico di gesso stava diventando bianco di brina.

«Non l’ha mai fatto prima» disse il Sommo Algebrico.

«È tutto sbagliato» disse il Decano. «Dovremmo avere delle candele, dei calderoni e qualcosa che bolle nei crogioli e polvere scintillante e fumo colorato…»

«Non c’è bisogno di quella roba per il Rito» disse seccamente Ridcully.

«Per il Rito magari no, ma per me sì» mormorò il Decano. «Farlo senza tutto l’armamentario giusto è come togliersi tutti i vestiti per fare il bagno».

«Io lo faccio così, il bagno» disse Ridcully.

«Umf. Certo, ognuno fa a modo suo, ma ci sono persone tra noi che amano pensare di mantenere un certo stile».

«Forse è in vacanza?» disse il Tesoriere.

«Oh, certo» lo schernì il Decano. «Su una bella spiaggia? Un paio di bibite ghiacciate e un cappellino con su scritto ‘Baciatemi’?»

«Un momento, un momento. Arriva qualcuno» sussurrò il Sommo Algebrico.

Il contorno indistinto di una figura incappucciata apparve sopra l’ottagramma. Ondeggiava costantemente, come una cosa vista attraverso l’aria surriscaldata.

«È lui» disse il Decano.

«No, non è lui» disse il professore di Rune Recenti. «È solo una veste grigia… non c’è niente…»

Si interruppe.

La veste si voltò lentamente. Sembrava piena, suggeriva la sagoma di qualcuno all’interno, ma allo stesso tempo dava una sensazione di vuoto, come una forma per qualcosa che non l’aveva di suo. Il cappuccio era vuoto.

Il vuoto osservò i maghi per qualche secondo e poi si concentrò sull’Arcicancelliere.

Disse: Chi sei tu?

Ridcully deglutì. «Ehm. Mustrum Ridcully. Arcicancelliere».

Il cappuccio annuì. Il Decano si mise un dito nell’orecchio e lo agitò. La veste non stava parlando. Non si sentiva nulla. Era solo che dopo ti ritrovavi improvvisamente con il ricordo di ciò che non era stato detto e nessuna idea di come ci fosse arrivato.

Il cappuccio disse: Sei tu un essere superiore in questo mondo?

Ridcully guardò gli altri maghi. Il Decano gli lanciò un’occhiataccia.

«Ecco… sì… primo tra i pari, una cosa del genere… sì…» riuscì a dire Ridcully.

Gli fu detto: Portiamo buone notizie.

«Buone notizie? Buone notizie?» Ridcully si agitò sotto quello sguardo senza osservatore. «Oh, bene. Questa sì che è una buona notizia».

Gli fu detto: Morte si è ritirato.

«Prego?»

Gli fu detto: Morte si è ritirato.

«Ah? Questa è… una notizia…» disse incerto Ridcully. «Ah. Come? Cioè… Come?»

Gli fu detto: Ci scusiamo per i recenti cali nelle prestazioni.

«Cali?» disse l’Arcicancelliere, ormai completamente disorientato. «Ah, ehm, non sono sicuro che ci siano stati… Insomma, naturalmente l’amico è sempre in giro, ma di solito noi nemmeno ci facciamo…»

Gli fu detto: È stato tutto molto irregolare.

«Davvero? Davvero? Ah, be’, l’irregolarità non va bene» disse l’Arcicancelliere.

Gli fu detto: Dev’essere stato terribile.

«Be’, ecco… sì, credo che… non ne sono sicuro… è stato terribile?»

Gli fu detto: Ma ora il fardello è stato rimosso. Gioite. È tutto. Ci sarà un breve periodo di transizione finché si presenterà un candidato adatto, e il servizio riprenderà regolarmente. Nel frattempo ci scusiamo per gli inevitabili inconvenienti provocati dal surplus di vita.

La figura ondeggiò e cominciò a svanire.

L’Arcicancelliere agitò disperatamente le mani.

«Aspetta!» disse. «Non puoi andartene così! Ti ordino di restare! Quale servizio? Che significa? Chi sei?»

Il cappuccio si voltò verso di lui e disse: Noi siamo nulla.

«Così non mi aiuti! Come ti chiami?»

Noi siamo l’oblio.

La figura svanì.

I maghi rimasero in silenzio. La brina nell’ottagramma cominciò a sublimare in gas.

«Oh-oh» disse il Tesoriere.

«Breve periodo di transizione? E sarebbe questo?» disse il Decano.

Il pavimento tremò.

«Oh-oh» ripeté il Tesoriere.

«Questo non spiega perché tutto vive di vita propria» disse il Sommo Algebrico.

«Un momento… un momento» disse Ridcully. «Se la gente arriva alla fine della vita e lascia il corpo e tutto il resto, ma Morte non se li porta via…»

«Significa che si mettono in coda qui» disse il Decano.

«Senza un posto dove andare».

«Non solo la gente» disse il Sommo Algebrico. «Dev’essere tutto. Tutto ciò che muore».

«E riempie il mondo di forza vitale» disse Ridcully. I maghi parlavano in tono monocorde, con le menti che correvano all’orrenda conclusione del discorso.

«In giro, senza niente da fare» disse il professore di Rune Recenti.

«Spettri».

«Attività di poltergeist».

«Dio buono».

«Aspetta, però» disse il Tesoriere, che era riuscito a seguire gli eventi. «Perché la cosa dovrebbe preoccuparci? Non abbiamo nulla da temere dai morti, no? Dopotutto, sono solo persone morte. Gente comune, come noi».

I maghi ci pensarono su. Si guardarono l’un l’altro. Cominciarono a urlare, tutti insieme.

Nessuno ricordò la parte sul candidato adatto.

La fede è una delle più potenti forze organiche del multiverso. Magari non sarà esattamente in grado di muovere le montagne. Ma può creare qualcuno che ne è capace.

La gente ha una convinzione del tutto errata sulla fede. È convinta che funzioni, per così dire, in avanti. Credono che la sequenza sia: oggetto, poi fede. In realtà, funziona esattamente all’opposto.

La fede sciaguatta nel firmamento come l’argilla nella ruota del vasaio. È così che vengono creati gli dei, per esempio. È ovvio che siano creati dai loro fedeli, perché basterebbe un semplice curriculum per accorgersi che la maggior parte di loro non può certo essere di origine divina. Tendono a fare esattamente ciò che la gente farebbe al posto loro se potesse, specie quando si parla di ninfe, piogge d’oro, e nemici da sbaragliare.

La fede crea altre cose.

Ha creato Morte. Non la morte, che è solo il termine tecnico per uno stato causato dalla prolungata assenza della vita, ma il personaggio di Morte. Si è evoluto insieme alla vita. Non appena un essere vivente si è reso vagamente conto di poter diventare non-vivente all’improvviso, ecco che Morte era lì. Lo era da molto prima che gli umani lo prendessero in considerazione; loro hanno aggiunto la forma, la falce e la veste a una personalità che aveva già milioni di anni.

E ora se n’era andato. Ma la fede non si ferma. La fede continua a credere. E poiché il punto focale della fede si è perso, ecco che ne spuntano di nuovi. Ancora piccole, non molto potenti. Le morti private di ogni specie, non più unite ma specifiche.

Nel torrente nuotava la nuova Morte delle Efemere dalle squame nere. Nella foresta, invisibile, una creatura fatta solo di suono, scivolava lo stokstok-stok della Morte degli Alberi.

Nel deserto un guscio vuoto e nero si muoveva con determinazione, a qualche centimetro dal suolo… la Morte delle Tartarughe.

La Morte dell’Umanità non era ancora pronta. Gli umani possono credere cose molto complesse.

È come la differenza tra un abito su misura e uno comprato fatto.


I rumori metallici nel vicolo si fermarono.

Poi ci fu silenzio. Il silenzio particolarmente cauto di qualcosa che non fa rumore.

E infine, ci fu solo un tintinnio molto lieve, che svaniva in lontananza.

«Non restare sulla soglia, amico. Non bloccare il corridoio, entra».

Windle Poons sbatté le palpebre nell’oscurità.

Quando i suoi occhi si furono adattati, vide delle sedie disposte a semicerchio in una stanza altrimenti piuttosto spoglia e polverosa. Erano tutte occupate.

Al centro, nel punto focale del semicerchio, c’era un tavolino a cui era seduto qualcuno. Ora quella persona stava avanzando verso di lui, con la mano tesa e un gran sorriso.

«Non dirmelo, fammi indovinare» disse. «Sei uno zombie, giusto?»

«Ehm». Windle Poons non aveva mai visto nessuno con una pelle così pallida, o almeno quello che ne restava. O con degli abiti che sembravano lavati con delle lame di rasoio e che puzzavano non solo come se qualcuno ci fosse morto dentro, ma ci stesse ancora, dentro. O che avesse una spilletta con su scritto ‘Fiero di Essere Morto’.

«Non lo so» rispose. «Credo di sì. È solo che mi hanno seppellito, e c’era questo biglietto…» Lo sollevò come uno scudo.

«Certo, certo» disse la figura.

Ora vorrà stringermi la mano, pensò Windle. Se lo faccio mi ritrovo con più dita di prima, lo so. Oh, santo cielo. Finirò anch’io così?

«E sono morto» disse debolmente.

«E stufo di essere sballottato in giro, eh?» disse pelle-verdastra. Windle gli strinse la mano con grande cautela.

«Be’, non proprio…»

«Mi chiamo Scarpa. Reg Scarpa».

«Poons. Windle Poons» disse Windle. «Ehm…»

«Sempre la stessa storia» disse Reg Scarpa in tono amaro. «Una volta che sei morto, nessuno lo vuole sapere. Si comportano tutti come se avessi qualche malattia orrenda. Può succedere a chiunque di morire, no?»

«A tutti, pensavo io» disse Windle. «Ecco, io…»

«Sì, capisco perfettamente. Tu dici che sei morto e quelli ti guardano come se avessero visto un fantasma» proseguì il signor Scarpa.

Windle si rese conto che parlare con il signor Scarpa era come parlare con l’Arcicancelliere. Non importava cosa dicevi, tanto lui non ascoltava. La differenza era che a Mustrum Ridcully non interessava, mentre Reg Scarpa completava la tua parte di conversazione con qualcosa nella sua testa.

«Sì, è così» disse Windle, arrendendosi.

«Eravamo in conclusione, in effetti» disse Scarpa. «Ti presento agli altri. Gente, questo è…» esitò.

«Poons. Windle Poons».

«Fratello Windle» disse Scarpa. «Diamogli un bel benvenuto al Nuovo Inizio!»

Ci fu un coro imbarazzato di ‘Ciao’. Un giovanotto piuttosto grasso e peloso alla fine della fila incrociò lo sguardo di Windle e alzò gli occhi al cielo in una teatrale manifestazione di cameratismo.

«Quello è Fratello Arthur Winkings…»

«Conte Notfaroutoe» disse una voce femminile in tono tagliente.

«E Sorella Doreen… Cioè, Contessa Notfaroutoe, naturalmente».

«Incantata» disse la voce femminile, mentre la donnina grassoccia seduta accanto alla piccola sagoma grassoccia del Conte gli tendeva una mano inanellata. Il Conte stesso rivolse a Windle un sorriso preoccupato. Indossava abiti da serata all’opera che sembravano fatti per un uomo molto più grosso.

«E Fratello Schleppel…»

La sedia era vuota. Ma una voce profonda dal buio sotto la sedia disse: «’Sera».

«E Fratello Lupine». Il giovanotto peloso e muscoloso con i canini lunghi e le orecchie appuntite strinse calorosamente la mano di Windle.

«E Sorella Drull, Fratello Gorper e Fratello Isolite».

Windle strinse una serie di variazioni sul tema ‘mani’.

Fratello Isolite gli porse un pezzetto di carta gialla. Sopra c’era scritta una parola: ‘OoooEeeeOoooEeeeOoooEEEee’.

«Mi dispiace che non siamo di più» disse Scarpa. «Faccio del mio meglio, ma temo che la gente non sia preparata a fare uno sforzo in più».

«Ehm… gente morta?» disse Windle, che ancora fissava il bigliettino.

«Io la chiamo apatia» disse Scarpa, amaro. «Come fa il Movimento a progredire se la gente non fa altro che starsene distesa?»

Lupine cominciò a fare gesti frenetici del tipo ‘per carità, non farlo cominciare’ dietro la testa di Scarpa, ma Windle non riuscì a fermarsi in tempo.

«Quale Movimento?» chiese.

«Diritti dei Morti» rispose prontamente Scarpa. «Ti do uno dei miei opuscoli».

«Ma, ecco, i morti non possono avere diritti…?» disse Windle. Con la coda dell’occhio vide Lupine che si copriva gli occhi con la mano.

«Su questo ci puoi scommettere la vita» disse Lupine, con la faccia serissima. Scarpa lo fulminò con lo sguardo.

«Apatia» ripeté. «È sempre lo stesso. Fai del tuo meglio per gli altri, e loro ti ignorano. Ma lo sai che chiunque può dire ciò che vuole su di te e prendersi le tue proprietà solo perché sei morto? E poi…»

«Io pensavo che quando si moriva, ecco… si moriva» disse Windle.

«È solo pigrizia» disse Scarpa. «Non hanno voglia di sforzarsi».

Windle non aveva mai visto nessuno tanto abbattuto. Reg Scarpa sembrò avvizzire un bel po’.

«Da quanto tempo sei un non-movto, Vindle?» chiese Doreen, con freddo entusiasmo.

«Da pochissimo» disse Windle, sollevato dal cambiamento di tono. «Devo dire che è diverso da come lo immaginavo».

«Ti ci abituerai» disse cupamente Arthur Winkings, alias Conte Notfaroutoe. «È tipico dell’essere non-morti. È più facile che cadere giù da un burrone. Qui siamo tutti non-morti».

Lupine tossì.

«Tranne Lupine» disse Arthur.

«Io sono più un non-morto onorario, direi» disse Lupine.

«È un lupo mannaro» spiegò Arthur.

«L’ho pensato appena l’ho visto» disse Windle, annuendo.

«A ogni luna piena» disse Lupine. «Preciso».

«Cominci a ululare e ti crescono i peli» disse Windle.

Scossero tutti la testa.

«Ehm, no» disse Lupine. «Diciamo che invece smetto di ululare e perdo temporaneamente un po’ del mio pelo. Non ti dico quant’è imbarazzante».

«Ma pensavo che con la luna piena il lupo mannaro medio…»

«Il pvoblema di Lupine» disse Doreen, «è che appvoccia la faccenda dall’altvo lato».

«Tecnicamente io sono un lupo» disse Lupine. «È veramente una cosa ridicola. A ogni luna piena mi trasformo in un lupo mannaro. Altrimenti sono solo… un lupo».

«Dio buono» disse Windle. «Dev’essere un bel problema».

«La cosa peggiore sono i pantaloni» disse Lupine.

«Ehm… i pantaloni?»

«Oh, sì. Vedi, per i lupi mannari umani è facile. Si tengono addosso i vestiti e basta. Insomma, magari si strappano un po’, ma perlomeno li hanno addosso, no? Mentre io, appena vedo la luna piena mi ritrovo a camminare e a parlare, e in guai grossi sul versante pantaloni. Perciò devo tenerne un paio conservati da qualche parte. Il signor Scarpa…»

«… chiamami Reg…»

«… me ne lascia tenere un paio dove lavora».

«Io lavoro all’obitorio in Via Olmo» disse Scarpa. «Non mi vergogno. Ne vale la pena, per salvare un fratello o una sorella».

«Come, salvare?» chiese Windle.

«Sono io che attacco i bigliettini dentro i coperchi delle bare» disse Scarpa. «Non si sa mai. Tentar non nuoce».

«E funziona spesso?» chiese Windle. Si guardò intorno. Il suo tono doveva aver suggerito che la stanza era grande, per sole otto persone; nove, se si contava la voce da sotto la sedia, che presumibilmente apparteneva a una persona.

Doreen e Arthur si scambiarono un’occhiata.

«Con Avtuv ha funzionato» osservò Doreen.

«Chiedo scusa» disse Windle, «non ho potuto fare a meno di chiedermi… voi due… siete per caso dei vampiri?»

«Esatto» disse Arthur. «Purtroppo».

«Non dovvesti pavlave così» disse Doreen in tono altezzoso. «Dovvesti esseve ovgoglioso delle tue vadici».

«Varici?» disse Arthur.

«Siete stati morsi da un pipistrello, o cose del genere?» aggiunse in fretta Windle, non volendo essere la causa di un conflitto familiare.

«No» disse Arthur. «Da un avvocato. Ho ricevuto una lettera, con tanto di ceralacca sopra e tutto. Blablabla… pro-prozio… blablabla… unico parente in vita… possiamo porgerle le più sincere blablabla… Insomma, un attimo prima ero Arthur Winkings, uomo nuovo del commercio degli ortaggi all’ingrosso, e un attimo dopo sono Arthur, conte Notfaroutoe, proprietario di cinquanta acri di dirupo che non ci salgono manco le capre, più un castello dove nemmeno gli scarafaggi volevano stare e un invito dal borgomastro per discutere di trecento anni di tasse arretrate».

«Io odio gli avvocati» disse la voce da sotto la sedia. Era un suono triste, cupo. Windle cercò di tirare un po’ indietro le gambe.

«Eva un bel castello» disse Doreen.

«Un fottuto mucchio di pietre ammuffite, ecco cos’era» replicò Arthur.

«Aveva una bella vista».

«Sì, da tutti i muri» ribatté Arthur, chiudendo la saracinesca su quella conversazione. «Avrei dovuto saperlo ancora prima di andarci. Perciò ho girato il mio carro, e ho pensato: ‘Ecco quattro giorni persi, proprio nel bel mezzo della stagione’. E non ci penso più. Poi basta, la prossima cosa che so è che mi sveglio al buio in una cassa, finalmente trovo i fiammiferi, ne accendo uno e mi vedo questo biglietto davanti al naso. Diceva…»

«‘Non dovresti dormirci sopra’» disse orgogliosamente Reg Scarpa. «È stato uno dei primi».

«Non è stata colpa mia» disse Doreen, rigida. «Sei stato lì steso per tve giovni».

«Al prete gli è venuto un colpo» disse Arthur.

«Ah! I preti!» disse Scarpa. «Sono tutti uguali. Ti dicono sempre che vivrai di nuovo dopo la morte, ma prova a guardare con che faccia te lo dicono!»

«Non mi piacciono manco i preti» disse la voce da sotto la sedia. Windle si domandò se era l’unico a sentirla.

«Non dimenticherò tanto presto l’espressione sulla faccia del Reverendo Welegare» disse Arthur in tono lugubre. «Sono andato in quel tempio per trent’anni. Ero rispettato, nella comunità. Ora se solo penso di mettere piede in una istituzione religiosa mi fa male tutta la gamba».

«Sì, non era proprio necessario che dicesse quello che ha detto quando hai aperto la bara» disse Doreen. «Ed è pure un prete. Non dovrebbero conoscerle, quelle parole».

«Mi piaceva, quel tempio» disse nostalgico Arthur. «Almeno era una cosa da fare di mercoledì».

Windle Poons si rese conto che Doreen aveva miracolosamente riacquistato l’uso della erre.

«E anche lei è un vampiro, signora Win… chiedo scusa-contessa Notfaroutoe?» domandò educatamente.

La Contessa sorrise. «Pavola mia, sì» disse.

«Per via matrimoniale» spiegò Arthur.

«Si può fare? Credevo che ci volesse un morso» disse Windle.

La voce sotto la sedia ridacchiò maliziosa.

«Non vedo perché dovrei andare in giro a mordere mia moglie dopo trent’anni di matrimonio, questo è sicuro» disse il Conte.

«Ogni donna dovvebbe condivideve l’hobby del mavito» disse Doreen. «Vende intevessante il matvimonio».

«E chi ha chiesto un matrimonio interessante? Io non ho mai detto che volevo un matrimonio interessante. Ecco cosa non va oggi nella gente, si aspettano che cose come il matrimonio siano interessanti. E non è un hobby, comunque» si lagnò Arthur. «’Sto vampirismo non è mica un granché. Non puoi uscire di giorno, non puoi mangiare l’aglio, non ti puoi fare una barba come si deve…»

«Perché non si può…» cominciò Windle.

«Non puoi usare gli specchi» disse Arthur. «E pensavo che la faccenda del diventare pipistrello fosse interessante, ma le civette da queste parti sono civette assassine. E per quanto riguarda… sì, insomma… il sangue… ecco…» la voce sfumò.

«Arvtuv non è mai stato bvavo a fave amicizia» disse Doreen.

«E il peggio è dover portare abiti da sera tutto il tempo» disse Arthur, lanciando a Doreen un’occhiata di traverso. «Io sono sicuro che non è veramente obbligatorio».

«È molto impovtante manteneve gli standavd» disse Doreen, che oltre a adottare un’ondivaga erre moscia, aveva deciso di intonarsi all’abito da sera di Arthur con quello che considerava appropriato per una vampira: abito nero attillato, lunghi capelli neri con attaccatura a punta, e trucco molto pallido. La Natura aveva previsto per lei una figura piccola e pienotta, con capelli ricci e crespi e un colorito rubicondo. La situazione era decisamente conflittuale.

«Sarei dovuto restare in quella bara» disse Arthur.

«Oh, no» disse Scarpa. «Così è troppo comodo. Il Movimento ha bisogno di persone come te, Arthur. Dobbiamo fare da esempio. Ricorda il nostro motto».

«Quale, Reg?» disse stancamente Lupine. «Ne abbiamo parecchi».

«Non-morti sì… non-persone no!» disse Reg.

«Vedi, lui è in buona fede» disse Lupine, dopo che la riunione si fu sciolta.

Lui e Windle stavano tornando a piedi nell’alba grigia. I Notfaroutoe erano andati via presto, per essere a casa prima che la luce del giorno caricasse altri guai sulle spalle di Arthur, e Scarpa era andato a un’altra riunione.

«Va al cimitero dietro il Tempio dei Piccoli Dei e grida» spiegò Lupine. «Lui la chiama coscientizzazione, ma non credo che ne sia tanto sicuro lui stesso».

«Chi c’era sotto la sedia?» chiese Windle.

«Quello era Schleppel» disse Lupine. «Pensiamo che sia un uomonero».

«Ma perché, l’uomonero è un non-morto?»

«Lui non ne parla».

«Non l’avete mai visto? Pensavo che si nascondessero sotto le cose e più o meno saltassero fuori, addosso alla gente».

«Lui non ha problemi a nascondersi. Non credo però che gli piaccia saltare fuori».

Windle ci pensò su. Un uomonero con l’agorafobia completava bene il quadretto.

«Ma pensa un po’» disse, vago.

«Continuiamo ad andare al club solo per far contento Reg» disse Lupine. «Doreen dice che se smettessimo gli spezzeremmo il cuore. E sai qual è la cosa peggiore?»

«Spara» disse Windle.

«A volte porta una chitarra e ci fa cantare cose come Le strade di Ankh Morpork e We Shall Overcome.[11] È terribile».

«Non sa cantare, eh?» disse Windle.

«Cantare? Magari fosse quello. Hai mai visto uno zombie che cerca di suonare la chitarra? La cosa imbarazzante è aiutarlo a cercare le dita dopo». Lupine sospirò. «A proposito, Sorella Drull è un ghoul. Se ti offre una polpetta non accettare».

Windle ricordò vagamente la figura di una anziana, timida signora in un abito grigio informe.

«Oh, cielo» disse. «Vuoi dire che le fa con la carne umana?»

«Cosa? Oh, no. È che non sa cucinare».

«Ah».

«E Fratello Isolite probabilmente è l’unica banshee al mondo con un difetto di pronuncia, perciò invece di starsene sui tetti a gridare quando la gente sta per morire, gli scrive un biglietto e lo passa sotto la porta…»

Windle ripensò a quella lunga faccia triste. «Ne ha dato uno anche a me».

«Noi cerchiamo di incoraggiarlo» disse Lupine. «È molto a disagio».

Il suo braccio scattò in avanti e spinse Windle contro un muro.

«Shhh!»

«Cosa?»

Lupine roteò gli occhi, le narici fremevano.

Facendo cenno a Windle di restare dov’era, il lupo mannaro scivolò silenziosamente lungo il vicolo fino all’incrocio con un altro, ancora più stretto e brutto. Si fermò un istante, poi allungò con forza una mano pelosa dietro l’angolo.

Ci fu un suono strozzato. La mano di Lupine tornò reggendo un uomo che si dibatteva. Gli enormi muscoli pelosi sotto la camicia strappata sollevarono l’uomo ad altezza fauci.

«Stavi per assalirci» disse Lupine.

«Chi, io?»

«Ho sentito l’odore» disse Lupine in tono neutro.

«Io non ho mai…»

Lupine sospirò. «I lupi non fanno queste cose, sai» disse.

L’uomo dondolò.

«Ma va’?» disse.

«È tutto testa contro testa, zanna contro zanna, artiglio contro artiglio» disse Lupine. «Non vedrai mai un lupo appostato dietro una roccia pronto per assaltare un tasso».

«Che faccio, vado?»

«Vuoi che ti apra la gola in due?»

L’uomo lo fissò negli occhi gialli. Valutò le possibilità che aveva contro un uomo di due metri e dieci e con quei denti lì.

«Ho scelta?» chiese.

«Il mio amico, qui» disse Lupine, indicando Windle, «è uno zombie…»

«Be’, non so se proprio un vero zombie, credo che bisogna mangiare un certo tipo di pesce e di radice per…»

«… e tu sai cosa fanno gli zombie alla gente, vero?»

L’uomo cercò di annuire, anche se il pugno di Lupine era stretto intorno al suo collo.

«Seeeeh» riuscì a emettere.

«Bene, lui adesso ti dà una bella occhiata, e se ti vede ancora…»

«No, un momento» bisbigliò Windle.

«… ti verrà a cercare. Non è vero, Windle?»

«Eh? Ah, sì. Giusto. Ti vengo a cercare» disse Windle in tono infelice. «Ora vattene, fa’ il bravo. Okay?»

«Ogghei» disse il mancato assalitore. Stava pensando: ‘Guegli ogghi! Gome sugghielli!’

Lupine mollò la presa. L’uomo cadde sul selciato, lanciò a Windle un’altra occhiata terrorizzata, e corse via.

«Ehm, ma cosa fanno gli zombie alla gente?» disse Windle. «Credo che sia meglio che lo sappia».

«La strappa in due come carta secca» disse Lupine.

«Ah? Bene» fece Windle. Proseguirono in silenzio. Windle stava pensando: ‘Ma perché io? Devono morire a centinaia ogni giorno, in città. Scommetto che non hanno tutti questi problemi. Chiudono gli occhi e rinascono come qualcun altro, oppure si svegliano in qualche paradiso, o magari in qualche inferno. Oppure vanno a festeggiare insieme agli dei, che però non mi sembra una grande idea. Gli dei a modo loro non sono malaccio, ma non il genere di persone con cui un uomo perbene possa sedersi a tavola. I buddisti Yen dicono che dopo si diventa molto ricchi. Alcune religioni Klatchiane dicono che si va in un bel giardino pieno di ragazze, cosa che a me non suona molto religiosa…’

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